19 Giugno 2025
Giovedì XI Settimana T. O.
2Cor 11,1-11; Salmo Responsoriale Dal Salmo 110 (111); Mt 6,7-15
Colletta
O Dio, fortezza di chi spera in te,
ascolta benigno le nostre invocazioni,
e poiché nella nostra debolezza nulla possiamo senza il tuo aiuto,
soccorrici sempre con la tua grazia,
perché fedeli ai tuoi comandamenti
possiamo piacerti nelle intenzioni e nelle opere.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
La Preghiera del Signore - Catechismo della Chiesa Cattolica 2765-2766: L’espressione tradizionale “Orazione domenicale” [cioè “preghiera del Signore”] significa che la preghiera al Padre nostro ci è insegnata e donata dal Signore Gesù. Questa preghiera che ci viene da Gesù è veramente unica: è “del Signore”. Da una parte, infatti, con le parole di questa preghiera, il Figlio Unigenito ci dà le parole che il Padre ha dato a lui: è il Maestro della nostra preghiera. Dall’altra, Verbo incarnato, egli conosce nel suo cuore di uomo i bisogni dei suoi fratelli e delle sue sorelle di umanità, e ce li manifesta: è il Modello della nostra preghiera. Gesù non ci lascia una formula da ripetere meccanicamente. Come per qualsiasi preghiera vocale, è attraverso la Parola di Dio che lo Spirito Santo insegna ai figli di Dio a pregare il loro Padre. Gesù non ci dà soltanto le parole della nostra preghiera filiale: ci dà al tempo stesso lo Spirito, per mezzo del quale quelle parole diventano in noi “spirito e vita”. Di più: la prova e la possibilità della nostra preghiera filiale è che il Padre “ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre!”. Poiché la nostra preghiera interpreta i nostri desideri presso Dio, è ancora “colui che scruta i cuori”, il Padre, che “sa quali sono i desideri dello Spirito, poiché egli intercede per i credenti secondo i desideri di Dio”. La preghiera al Padre nostro si inserisce nella missione misteriosa del Figlio e dello Spirito.
I Lettura: Paolo con i cristiani di Corinto è in difficoltà. Sono divisi in fazioni, un po’ avari, e alcuni non brillano per quanto riguarda la morale. Ora l’apostolo rimprovera la loro credulità, il porgere con facilità l’orecchio al primo venuto con il rischio di perdere la vera fede quella predicata da Paolo in perfetta comunione con gli Apostoli. I primi venuti sono i giudaizzanti, cristiani provenienti dal giudaismo e che volevano imporre la Legge di Mosè anche ai discepoli di Gesù con il rischio di ridurre il cristianesimo a una setta giudaica. E se i cristiani di Corinto accusano Paolo di averli turlupinati, l’apostolo ricorda che in ogni circostanza ha fatto il possibile per non essere loro di aggravio, un proposito che terrà fermo anche per l’avvenire. Un testo che mette in luce come nella Chiesa apostolica non tutto era scontato, e spesso la strada della evangelizzazione era in salita.
Vangelo
Voi dunque pregate così
La preghiera del Padre Nostro nel testo di Matteo è più vicina al linguaggio di Gesù, e possiamo trovare qualche assonanza nella preghiera del Qaddisch (Santo). La preghiera del Qaddisch si recitava al termine della liturgia del sabato: “Venga riconosciuto grande e santo il Nome eccelso nel mondo che Egli ha creato, e regni nel Suo dominio nella vita e nei giorni della casa di Israele, e sia tra breve, e si dica amen. Sia il Nome eccelso in eterno benedetto, esaltato, glorificato, il Nome santo, sia benedetto. E sia al di sopra di ogni benedizione, canto, venerazione che si possa mai pronunciare, e si dica amen”. Espressioni, quelle del Padre nostro e del Qaddisch, che rivelano il cuore bruciato dall’amore di un popolo avviluppato misteriosamente dalla santità di Dio.
Dal Vangelo secondo Matteo
Mt 6,7-15
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Pregando, non sprecate parole come i pagani: essi credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno prima ancora che gliele chiediate.
Voi dunque pregate così:
Padre nostro che sei nei cieli,
sia santificato il tuo nome,
venga il tuo regno,
sia fatta la tua volontà,
come in cielo così in terra.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano,
e rimetti a noi i nostri debiti
come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori,
e non abbandonarci alla tentazione,
ma liberaci dal male.
Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe».
Parola del Signore.
Angelico Poppi (I Quattro Vangeli): La struttura del Padrenostro si articola in due strofe: la prima (vv. 9-10) comprende l’invocazione iniziale e le tre petizioni in terza persona singolare, che si riferiscono alla santificazione del nome, al regno e alla volontà del Padre celeste, scandite dall’aggettivo possessivo «tuo»; la prospettiva è escatologica. La seconda strofa (vv. 11-13) consta di quattro domande in seconda persona singolare, riguardanti le nostre necessità quotidiane nel mondo presente. Siccome la quarta petizione corrisponde alla terza (l’una è in forma negativa, l’altra positiva), anche la seconda strofa contiene praticamente tre richieste. Comunque, le domande nel Padrenostro matteano risultano sette, un numero preferito dal prime evangelista. Alla dimensione escatologica del «tuo» nella prima strofa si contrappone quella temporale del «nostro», ripetuto più volte nella seconda (in greco ricorre otto volte il pronome «noi»).
La misericordia del Padre - Giorgio Massi (Padre in Schede Bibliche Pastorali, Vol. VI): Una delle richieste del «Padre nostro» pone esplicitamente l’accento sul rapporto tra l’amore fraterno e quello del Padre: «... e rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori» (Mt 6,12). E Matteo commenta la domanda con due frasi significative: «Se voi infatti perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà a voi; ma se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe» (Mt 6,14-15).
Il commento di Matteo al «Padre nostro» probabilmente non aveva la sua collocazione originale in questo punto, ma al termine della parabola del servitore spietato (Mt 18,23-36).
In quell’occasione Pietro chiede a Gesù quante volte si debba perdonare l’offesa ricevuta. Il maestro fa suo il canto di vendetta di Lamec (Gn 4,24), ma lo interpreta nel senso del perdono (Mt 18,21-22), che non ha mai fine. Al determinismo sociologico della vendetta Gesù oppone il perdono fraterno: soltanto questo può salvare la nostra comunità di credenti dalla rovina.
Nella parabola tutto sembra inverosimile: il debito del primo servo, il verdetto di misericordia del re, la violenza dell’uomo condonato verso un suo sottoposto che gli deve pochi denari, la reazione finale del re. Però la conclusione che rappresenta la morale della parabola risulta molto chiara: il re rappresenta il Padre e i servi sono i fratelli della comunità: «Così anche il mio Padre celeste farà a ciascuno di voi, se non perdonerete di cuore al vostro fratello» (Mt 18,35). È chiaro che l’evangelista intende sottolineare i due aspetti della vita del discepolo: la gratuità assoluta del perdono divino grazie al quale i credenti sono entrati nella chiesa e l’esigenza solenne del perdono fraterno indispensabile nella comunità messianica: «Quando vi mettete a pregare, se avete qualcosa contro qualcuno, perdonate, perché anche il Padre vostro che è nei cieli perdoni a voi i vostri peccati» (Mc 11,25).
Ora possiamo capire anche la portata di Mt 6,15.
L’amore fraterno non è la condizione della salvezza, ma la sua conseguenza.
Dio, il Padre del Cristo, ha perdonato per primo i nostri errori ed esige a sua volta che l’uomo mostri misericordia verso gli altri: è quanto ci dice 1Gv 4,19-21. Con il perdono il Padre celeste fonda una comunità di fratelli che devono la loro esistenza a un atto di grazia. È nel legame familiare tra il Padre e i fratelli nella chiesa che bisogna cercare la ragione per cui il perdono da parte di Dio include, suppone ed esige il perdono reciproco tra fratelli.
Colui che non è fratello agli altri non potrà avere Dio come Padre! Il perdono è quindi indivisibile, in esso si realizza pienamente la volontà riconciliatrice di Dio.
Un aspetto che non va trascurato nella tematica del perdono del Padre è il risalto dato dagli evangelisti all’amore di Dio verso i peccatori. Interessano questo atteggiamento le parabole della pecora smarrita e del figlio prodigo (Mt 18,10-14; Lc 15,11-32).
Se dovessimo considerare quest’ultima parabola come esempio di pedagogia paterna, dovremmo dire che il Padre non è né prudente né buon educatore. Naturalmente il significato va ben oltre il comportamento dei padri terreni. Nella parabola viene annunciato che il Padre celeste nutre un amore sconfinato verso coloro che si considerano perduti, verso i peccatori, amore che costituisce scandalo per i sapienti di questo mondo. La storia della salvezza segue un tracciato che non è quello della giustizia dell’uomo (Cf. Is 55,8). Costui si è separato da Dio. Ha voltato le spalle alla casa paterna per cercare altrove la felicità e non ha saputo approfittare dei beni che il Padre ha concesso: la ragione e la volontà libera. La miseria, la fame, il disprezzo fanno ormai parte della sua condizione. Dio ha permesso che l’uomo facesse le sue esperienze, non ha voluto costringerlo, ma nella sua sapienza ha concepito un altro piano. Colui che è morto deve rinascere ad una nuova vita perché tutti i torti saranno perdonati, ogni dolore sarà trasformato in gioia.
Non abbandonarci nella tentazione - Chi recita questa preghiera si affida alla bontà del Padre perché non venga abbandonato alla tentazione del male e alla prova della fede: tradurre «con una sola parola il termine greco è difficile: significa “non permettere di entrare in”; “non lasciarci soccombere alla tentazione”. “Dio non può essere tentato dal male e non tenta nessuno al male” [Gc 1,13]; al contrario vuole liberarcene. Noi gli chiediamo di non lasciarci prendere la strada che conduce al peccato. Siamo impegnati nella lotta “tra la carne e lo Spirito”. Questa richiesta implora lo Spirito di discernimento e di fortezza» (CCC 2846).
La radice della tentazione è nel cuore dell’uomo: «Il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto» (Gen 4,7). È inevitabile: «Figlio, se ti presenti per servire il Signore, prepàrati alla tentazione» (Sir 2,1). È fascino che seduce: «Ciascuno piuttosto è tentato dalle proprie passioni, che lo attraggono e lo seducono; poi le passioni concepiscono e generano il peccato, e il peccato, una volta commesso, produce la morte» (Gc 1,14-15).
La tentazione mette a nudo l’estrema debolezza dell’uomo (Cf. Rom 7,1ss). Smaschera la subdola azione di Satana: un essere ostile a Dio e nemico dell’uomo fin dalle origini: per «l’invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo» (Sap 2,24; Cf. Gen 3,6; 1Cr 21,1; Zac 3,1-2). Un tristo figuro, una spia (Cf. Gb 1,6-12), un ladro (Cf. Mt 13,19), una figura equivoca e scettica riguardo all’uomo, tutta tesa a coglierlo in fallo, abile nel porre nel suo cuore pensieri malvagi (Cf. Gv 13,2.27; Atti 5,3; 1Gv 3,8), capace di scatenare su di lui mali di tutte le specie e perfino di spingerlo al male (Cfr. 1Cr 21,1). È colui che conosce bene l’arte dell’accusatore (Cf. Ap 12,10), è il tenebroso «principe di questo mondo» (Gv 12,31; 14,30; 16,11; Ef 2,2; 6,12) che regna su un impero di tenebra (Cf. Atti 26,18), è un abile trasformista che sa cangiarsi in angelo di luce (Cf. 2Cor 11,14) per ingannare, «se fosse possibile, anche gli eletti» (Mc 13,21).
Gesù ha insegnato la preghiera del Padre nostro per ricordare all’uomo che il «combattimento e la vittoria sono possibili solo nella preghiera. È per mezzo della sua preghiera che Gesù è vittorioso sul Tentatore, fin dall’inizio e nell’ultimo combattimento della sua agonia. Ed è al suo combattimento e alla sua agonia che Cristo ci unisce in questa domanda al Padre nostro. La vigilanza del cuore, in unione alla sua, è richiamata insistentemente. La vigilanza è “custodia del cuore” e Gesù chiede al Padre di custodirci nel suo Nome. Lo Spirito Santo opera per suscitare in noi, senza posa, questa vigilanza. Questa richiesta acquista tutto il suo significato drammatico in rapporto alla tentazione finale del nostro combattimento quaggiù; implora la perseveranza finale» (CCC 2849).
Non abbandonarci alla tentazione: una richiesta che mette a nudo l’estrema fragilità dell’uomo e rivela, allo stesso tempo, la sguaiata ferocia di Satana, ma anche tutta la sua infernale debolezza: un leone affamato che gira continuamente attorno ai credenti cercando chi divorare (1Pt 5,8), ma già abbattuto e vinto dal Cristo.
Una preghiera che punta diritto al cuore di Dio, l’Arbitro che ha in mano le sorti della partita: «Il Dio della pace schiaccerà ben presto Satana sotto i vostri piedi» (Rom 16,20).
«Il primato nella storia non è, infatti, quello demoniaco, ma è la signoria divina ad avere l’ultima parola e la scena finale dell’Apocalisse [capp. 21-22] ne è la raffigurazione più luminosa» (Gianfranco Ravasi).
Cipriano (La preghiera del Signore, 1 2): ... sia santificato il tuo Nome ... noi gli chiediamo che il suo Nome venga santificato in noi, poiché per sé egli è sempre santo. E in che modo il suo Nome viene santificato in noi se non divenendo noi stessi santi? Preghiamo perché questa santificazione prenda stabile dimora in noi … Chiediamo notte e giorno che si conservi in noi, sotto la sua protezione, quella santificazione e quel rinnovamento di vita che riceviamo dalla grazia di Dio.
Il Santo del Giorno - 19 Giugno 2025 - San Romualdo. Come faro spirituale alla ricerca di Dio: Gli eremiti e i monaci sono i nostri «fari» che indicano nel buio il sicuro approdo tra le braccia di Dio. Così è da sempre, come testimonia la vicenda di san Romualdo, fondatore della Congregazione Camaldolese, che visse la vita intera alla ricerca della voce di Dio nella solitudine da eremita. Era nato a Ravenna tra il 951 e il 953 e a causa forse di un fatto di sangue che segnò la sua nobile famiglia si decise per la vita monastica. Dopo un’esperienza di formazione in Spagna, tornò in Italia nell’anno 988 portando il sogno di una riforma del monachesimo benedettino sull’Appennino. Nel 1001 divenne abate di Sant’Apollinare in Classe, ma un anno dopo abbandonò l’incarico, vivendo per un periodo a Montecassino e poi in una grotta presso Rovigno. Infine nel 1012 fondò l’eremo di Camaldoli, cuore della Congregazione Camaldolese. Morì nel 1027 a Valdicastro (Fabriano).
La sua vicenda umana venne narrata da san Pier Damiani, che scrisse una «Vita di San Romualdo» circa 15 anni dopo la sua morte. (Avvenire)
La partecipazione ai tuoi santi misteri, o Signore,
come prefigura la nostra unione in te,
così realizzi l’unità nella tua Chiesa.
Per Cristo nostro Signore.