1 Agosto 2018

Mercoledì XVII Settimana T. O.


Oggi Gesù ci dice: “Vi ho chiamato amici, dice il Signore, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi” (Gv 15,15b).

Dal Vangelo secondo Matteo 13,44-46: Il tesoro e la perla preziosa stanno a raffigurare il regno di Dio. I cristiani dovrebbero comportarsi come l’uomo della parabola che vende tutto per venire in possesso del tesoro, e dovrebbero essere abili come il mercante del racconto evangelico che aliena tutti i suoi averi per comprare la perla preziosa. Ma spesso in cima ai pensieri dei credenti non v’è il regno di Dio, ma altri tesori e altre perle preziose, purtroppo fin troppo terreni. Solo chi comprende e accoglie con gioia la Parola dispiegherà tutta la sua attenzione, e tutte le sue fatiche, per conquistare il regno di Dio, l’unico vero tesoro dal valore incommensurabile.

Senza voler forzare i testi, possiamo trovare un filo comune che lega le due parabole ed è l’impossibilità per l’uomo di riuscire nella vita senza la grazia di Dio e senza una decisione per Dio: una decisione radicale, ma anche gioiosa come sottolinea la parabola del tesoro nascosto in un campo. In questo modo vengono smentiti gli «spensierati di Sion»: i giullari del Vangelo facile e i buontemponi dell’ottimismo a tutti i costi (Am 6,1-7). Scriveva il teologo luterano tedesco Dietrich Bonhoeffer, morto impiccato nel campo di concentramento di Flossenbürg il 9 aprile 1945: «La grazia a buon mercato è nemica mortale della Chiesa; oggi, nella nostra lotta, si impone la grazia che costa... La grazia facile è quella di cui disponiamo in proprio. È la predicazione del perdono senza il pentimento, è il battesimo senza disciplina ecclesiastica, la Cena santa senza la confessione dei peccati, l’assoluzione senza confessione personale. La grazia a buon mercato è la grazia non avallata dall’obbedienza, la grazia senza la croce, la grazia che astrae da Gesù Cristo vivente e incarnato».
Il Vangelo, inoltre, vuole sottolineare la scaltrezza, l’avvedutezza dell’uomo del tesoro nascosto in un campo e del mercante: due uomini capaci di capire e ben valutare la fortuna loro capitata inaspettatamente tra le mani, in questo modo diventano l’immagine del vero discepolo che sa comprendere l’inestimabile valore del regno di Dio. Il discepolo, proprio perché cerca le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio e non pensa alle cose della terra (Col 3,1-2), è in grado di ben valutare i tesori celesti per il cui possesso è pronto a cavarsi gli occhi della testa, a ridursi in povertà e far gettito anche della propria vita.
A leggere bene il Vangelo si comprende allora con chiarezza che l’insegnamento delle parabole sta nell’incalcolabile valore del tesoro scoperto e nel sacrificio che il suo acquisto richiede.
Praticamente vuol dirci che l’accoglienza «del regno richiede tutto noi stessi. La scoperta della perla preziosa spinge il mercante a vendere tutti i suoi beni per impossessarsene, rinunciando perfino a essere mercante... Ebbene, la missione di Gesù di proclamare la decisione di Dio di attuare definitivamente ciò che aveva promesso da tempo, esige una risposta senza compromessi, un impegno totale, una decisione esistenziale che rischia il tutto per tutto, che vende tutto ciò che ha per comprare la perla di grande valore» (Giuseppe Carata). La Parola di Dio sta cercando di dire ai nostri cuori, forse un po’ sconcertati, che il baricentro della vita umana è fuori di noi: per riuscire o per ritrovare noi stessi, dobbiamo perderci; per portare frutto dobbiamo morire (Gv 12,24); per trovare o salvare la vita dobbiamo perderla (Mt 16,25; Gv 12,25).

Il Regno di Dio - Giovanni Paolo II (Udienza Generale 18 Marzo 1987): Il regno di Dio costituisce il tema centrale della sua predicazione [di Gesù] come dimostrano in modo particolare le parabole.
La parabola del seminatore (Mt 13,3-8) proclama che il regno di Dio è già operante nella predicazione di Gesù, e al tempo stesso orienta a guardare all’abbondanza dei frutti che costituiranno la ricchezza sovrabbondante del Regno alla fine del tempo. La parabola del seme che cresce da solo (Mc 4, 26-29) sottolinea che il Regno non è opera umana, ma unicamente dono dell’amore di Dio che agisce nel cuore dei credenti e guida la storia umana al suo definitivo compimento nella comunione eterna con il Signore. La parabola della zizzania in mezzo al grano (Mt 13,24-30) e quella della rete da pesca (Mt 13,47-52) prospettano anzitutto la presenza, già operante, della salvezza di Dio. Insieme ai “figli del Regno”, però, sono anche presenti i “figli del Maligno”, gli operatori di iniquità: solo al termine della storia le potenze del male saranno distrutte e chi ha accolto il Regno sarà sempre con il Signore. Le parabole del tesoro nascosto e della perla preziosa (Mt 13,44-46), infine, esprimono il valore supremo e assoluto del regno di Dio: chi lo comprende è disposto ad affrontare ogni sacrificio e rinuncia per entrarvi.
Dall’insegnamento di Gesù appare una ricchezza molto illuminante. Il regno di Dio, nella sua piena e totale realizzazione, è certamente futuro, “deve venire” (cf. Mc 9,1; Lc 22,18); la preghiera del Padre Nostro insegna a invocarne la venuta: “venga il tuo Regno” (Mt 6,10).
Al tempo stesso però, Gesù afferma che il regno di Dio “è già venuto” (Mt 12,28), “è in mezzo a voi” (Lc 17,21) attraverso la predicazione e le opere di Gesù. Inoltre da tutto il Nuovo Testamento risulta che la Chiesa, fondata da Gesù, è il luogo dove la regalità di Dio si rende presente, in Cristo, come dono di salvezza nella fede, di vita nuova nello Spirito, di comunione nella carità.
Appare così l’intimo rapporto tra il Regno e Gesù, un rapporto così forte che il regno di Dio può essere anche chiamato “regno di Gesù” (Ef 5,5; 2 Pt 1,11), come del resto Gesù stesso afferma davanti a Pilato, asserendo che il “suo” regno non è di questo mondo (Gv 18,36).
In questa luce possiamo comprendere le condizioni che Gesù indica per entrare nel Regno. Esse si possono riassumere nella parola “conversione”. Mediante la conversione l’uomo si apre al dono di Dio (cf. Lc 12,32), che “chiama al suo regno e alla sua gloria” (1 Ts 2,12); accoglie il Regno come un fanciullo (Mc 10, 5) ed è disposto a qualunque rinuncia per potervi entrare (cf. Lc18,29; Mt 19,29; Mc 10,29).
Il regno di Dio esige una “giustizia” profonda o nuova (Mt 5,20); richiede impegno nel fare la “volontà di Dio” (Mt 7, 21); domanda semplicità interiore “come i bambini” (Mt 18,3; Mc 10,15); comporta il superamento dell’ostacolo costituito dalle ricchezze (cf. Mc10,23-24).

… pieno di gioia: Molti, nei tempi passati, per salvare i loro averi da ruberie, soprattutto in periodo di guerre o di calamità naturali, erano soliti nasconderli sottoterra. Un contadino, un salariato, nel vangare il terreno si imbatte proprio in uno di questi tesori nascosti e per venirne in possesso lecitamente, «va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo». La parabola, comunque, non vuole dare indicazioni morali di sorta.
Nel racconto evangelico, il tesoro è il regno dei cieli per il quale l’uomo deve essere sollecito nel «vendere tutti i suoi averi». Ma il «fulcro dottrinale della parabola... non consiste per sé nei sacrifici affrontati per il regno, ma nell’invito pressante di Gesù agli uditori di riconoscere nella sua opera l’azione di Dio nel mondo per l’attuazione del regno. Questo non esclude, soprattutto nella redazione matteana, un atto decisionale, che comporta per il discepolo una scelta coraggiosa per un orientamento di vita e una condotta esemplare nel presente» (Angelico Poppi).
Va sottolineata la gioia, che caratterizza i sentimenti di coloro che entrano in possesso del regno.
La parola gioia corrisponde all’ebraico simhah, che vuol dire soddisfazione dell’anima. L’Antico Testamento ama esaltare anche le gioie più umili della vita: quella del cibo, del riposo, del divertimento, del vino (Cf. Sal 104,5; Sir 31,27; Is 24,11).
La gioia di essere genitori di una numerosa prole (Cf. Sal 127,3; Sir 25,7; Gv 16,21). La gioia della fedeltà della sposa, del calore della casa e quella che scaturisce da una vera amicizia. Ma «la gioia vera il giusto la trova in Dio, nella sua parola, nella sua legge, nella sua alleanza indefettibile... La gioia del pio israelita, oltre che nell’intimità con Dio, sgorga dalla contemplazione delle meraviglie da lui operate nell’universo e nella storia del suo popolo. Una delle gioie più intense per Israele proviene dall’esercizio del culto reso al Dio vivo, presente in seno al popolo nel suo tempio» (G. Manzoni).
La vera gioia inonderà il mondo con la nascita del Cristo: Giovanni Battista esulta di gioia nel grembo della madre (Cf. Lc 1,41.44); Maria, la madre di Gesù, erompe in un canto di gioia, che celebra Dio padre dei piccoli e salvatore dei poveri e degli umili (Cf. Lc 1,46-55). La nascita di Giovanni Battista rallegra il cuore degli anziani genitori e dei loro conoscenti (Cf. Lc 1,56-57). La nascita di Gesù viene annunziata ai pastori come «una grande gioia, che sarà di tutto il popolo» (Lc 2,10).
I motivi di questa gioia sono evidenti: oramai in Gesù, il regno di Dio è in mezzo agli uomini, esso, come testé ci ha ricordato Matteo, è il tesoro per il quale si deve essere disposti a dare tutto gioiosamente, «perfino la vita» (Lc 14,26).

La parabola della perla preziosa - Wolfgang Trilling (Vangelo secondo Matteo): Anche questa parabola fa coppia con la precedente ed esprime la stessa cosa. La parola perla risveglia in noi sia l’immagine della preziosità, sia della bellezza senza macchia: il regno di Dio non è soltanto il massimo valore, ma anche il bene più bello e perfetto che ci sia dato di conseguire.
Il dato nuovo, nei confronti della parabola del tesoro, è che qui si tratta di un uomo che va in cerca di perle preziose. Nel caso del tesoro nel campo si poteva pensare a uno che, casualmente, vi inciampa e poi ne trae le conseguenze; alcuni, infatti, possono avere incontrato Gesù, in circostanze fortuite, ed essere stati da lui soggiogati, senza avere inizialmente l’intenzione di trovare il «tesoro».
Qui, invece, si può pensare a uno che cerca la verità, come Nicodemo che si reca da Gesù di notte (cf. Gv 3,1 ss.). Si parla di un commerciante di gioielli che non si era ancora imbattuto in una perla così bella e preziosa. Senza pensarci due volte, vende tutto, l’inventario completo della sua mercanzia, per acquistare la perla.
Per esperienza sa che essa vale il sacrificio.
Il cuore dell’uomo è inquieto finché non trova «la perla di grande valore». Ma quando la trova è pronto a sacrificare tutto per quest’unico bene. Gesù non riduce di un ette il prezzo qui richiesto, ma mostra l’ aspetto allettante del bene della salvezza, capace di suscitare in noi la gioia per averla «trovata». Quando «troviamo la perla», dobbiamo cercare di rimanere nell’incontenibile gioia iniziale; nel tempo della ricerca non possiamo riposarci finché non la «troviamo».

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** Quando «troviamo la perla», dobbiamo cercare di rimanere nell’incontenibile gioia iniziale; nel tempo della ricerca non possiamo riposarci finché non la «troviamo».
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: O Dio, che nel vescovo sant’Alfonso Maria de’ Liguori hai dato alla tua Chiesa un fedele ministro e apostolo dell’Eucaristia, concedi al tuo popolo di partecipare assiduamente a questo mistero, per cantare in eterno la tua lode. Per Cristo nostro Signore.



31 Luglio 2018

Martedì XVII Settimana T. O.


Oggi Gesù ci dice: “ I giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro” (Vangelo).

Dal Vangelo secondo Matteo 13,36-43: Il Vangelo oggi offre alle nostre povere orecchie alcune verità che non vorremmo sentire. Innanzi tutto, nel mondo degli umani operano i figli del maligno, insonni, stacanovisti, furbi e molto intelligenti. I figli del maligno proditoriamente provocano sciagure, tragedie, seminano lutti, ingolfano le menti umane di false verità, ingozzano le anime di peccato, fanno tutto questo, e a volte, senza trovare ostacoli, perché, come ci suggerisce la sacra Scrittura, i figli delle tenebre, in fatto di iniziative, sono più scaltri dei figli della luce (Lc 16,8). Se gli spiriti maligni si aggirano nel mondo, se il peccato è sempre in agguato, e gli stolti abboccano, le porte dell’Inferno saranno sempre spalancate, si chiuderanno il giorno del giudizio universale quando Satana accoglierà tra le sue calde braccia l’ultimo dannato (Mt 25,31-46). Queste sono dunque le verità che vorremmo bandire dal nostro cuore e dalla nostra mente: noi siamo venduti al peccato (Rm 7,14), l’Inferno c’è, e i custodi infernali, notte e giorno, come leone ruggente vanno in giro cercando chi divorare (1Pt 5,8), tutti ci presenteremo al tribunale di Dio (Rm 14,10). Come si può sfuggire a questo tsunami di disgrazie? Cercando di essere grano buono, anche dovendo stare accanto a cattive compagnie; mettendosi alle orecchie la buona cera della pazienza per non sentire le sirene che assediano il cuore e l’anima, e spendere ogni giorno almeno cinque minuti per meditare sulla morte, che, prima o dopo, chiederà il conto, senza sconti.


Spiegaci la parabola della zizzania nel campo: Basilio Caballero (La Parola per ogni giorno): Due terzi delle parabole evangeliche sul regno (41 su 63) sono spiegate da Gesù ai suoi discepoli. Quella della zizzania frammista al grano, che abbiamo letto sabato scorso, è una di queste. Allo stesso modo di quella del seminatore, la spiegazione della parabola della zizzania deve essere attribuita all’evangelista che, a sua volta, rispecchia la lettura che ne fece la comunità primitiva. Nell’interpretazione della parabola della zizzania notiamo due parti. La prima: spiegazione allegorica delle sette parole più importanti del racconto; è un piccolo lessico di termini allegorici. La spiegazione, richiesta dai discepoli, viene posta sulle labbra di Gesù che si trova già in casa: «“Spiegaci la parabola della zizzania nel campo”. Ed egli rispose: “Colui che semina il buon seme è il Figlio dell’uomo. Il campo è il mondo. Il seme buono sono i figli del regno; la zizzania sono i figli del maligno, e il nemico che l’ha seminata è il diavolo. La mietitura rappresenta la fine del mondo, e i mietitori sono gli angeli”». La seconda parte dell’interpretazione contrappone il destino divergente della zizzania e del grano, cioè dei peccatori e dei giusti, nel giudizio finale che è descritto con la classica terminologia apocalittica della Bibbia: fornace ardente, pianto e stridore di denti. Anche qui, come nella parabola del seminatore, si produce uno slittamento d’accento, perché la spiegazione non tocca il punto centrale della parabola, come l’ha raccontata Gesù, che è la pazienza tollerante di Dio. Invece dell’inevitabile coesistenza del grano e della zizzania, del bene e del male, di giusti e di peccatori, nel mondo e perfino dentro la Chiesa - che è l’accento teologico-kerigmatico principale della parabola in sé - la sua interpretazione mette in risalto la diversa sorte dei buoni e dei cattivi alla fine dei tempi. Per i primi c’è il regno del Padre, per i secondi la fornace ardente. Da tutto questo è implicitamente dedotta una esortazione: non abusare della pazienza di Dio, perché alla fine arriverà il suo giudizio.

Spiegazione della parabola della zizzania - Angelico Poppi (Sinossi e Commento): La seconda parte del discorso in parabole è rivolta esclusivamente ai discepoli. Infatti Gesù rientrò “nella casa” (di Pietro?). Matteo con il termine “casa” (oikia) forse allude al luogo abituale della catechesi cristiana in dimore private.
Richiesto dai discepoli, Gesù spiega loro la parabola della zizzania. Dapprima illustra il significato simbolico d’ogni termine (vv. 37-39); poi con un linguaggio dalle forti tinte apocalittiche fa riferimento al giudizio finale, nel quale avrà luogo la condanna dei malvagi e la glorificazione dei giusti (vv. 40-43). Nella spiegazione il ruolo del seminatore e del giudice non viene attribuito a Dio come nel racconto della parabola (v. 27), bensì al “Figlio dell’uomo”.
Mentre la parabola era focalizzata sul rinvio della separazione dei buoni dai cattivi nel giorno del giudizio, la spiegazione si riferisce alla loro sorte finale, indugiando sul destino orribile degli iniqui. L’impronta cristologica ed ecclesiale di tutto il brano evidenzia la rilettura postpasquale della parabola.
Matteo intende scuotere i cristiani tiepidi e rilassati, prospettando la sorte drammatica che attende i peccatori nel giorno del giudizio con la dannazione eterna. Il regno di Dio è già operante tra gli uomini: la collocazione tra i “figli del regno” oppure tra i “figli del malvagio” dipende dall’atteggiamento assunto da ciascuno nei confronti del Vangelo e dalla sua condotta.
v.37 Il seminatore è il Figlio dell’uomo, cui è attribuita pure la funzione di giudice con la mediazione dei “suoi angeli”.
v. 38 II campo designa “il mondo”. Emerge così la prospettiva universale della missione della Chiesa.
vv. 39-40 La mietitura si riferisce al giudizio finale.

Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro - Benedetto Prete (I Quattro Vangeli): i giusti splenderanno come il sole; immagine familiare agli Ebrei; essa allude a Daniele, 12,3 . Il versetto racchiude una parola di conforto per i discepoli. Il regno cosi purificato passa dal Figlio al Padre e diventa il regno del Padre (cf. 1Corinti, 15,24).
Degna di rilievo è la continuità tra il regno del Figlio e quello del Padre.
La parabola della zizzania (13,24-30) e la spiegazione fatta da Cristo (13,36-43) - secondo l’opinione di alcuni esegeti non cattolici - suppongono delle condizioni che non sono quelle del tempo di Gesù, ma quelle della Chiesa primitiva. Per questo motivo tali studiosi affermano che la parabola come è stata trasmessa da Matteo non può risalire a Gesù. Fu la Chiesa primitiva che senti il bisogno di illuminare il problema della presenza dei
cattivi nella comunità; a questo problema risponde la parabola della zizzania, nella quale s’insegna che Dio tollera il male fino al momento dell’ultima e definitiva separazione dei buoni dai malvagi. L’esegesi cattolica non condivide questa interpretazione, perché Gesù nella parabola non intende formulare un principio di legge positiva, ma illuminare la natura del suo regno ed inoltre, perché la Chiesa primitiva non seguì il principio che la zizzania deve essere lasciata indisturbata fino alla raccolta. L’esempio di 1Corinti 5,1-5 indica come la Chiesa primitiva non tollerava gli indegni, ma li allontanava da sé colpendoli con l’anatema.

Giovanni Paolo II (Omelia 19 Luglio 1987): [...] ciò che tormenta di più l’intelligenza dell’uomo è la presenza del male nella storia, la sua origine e la sua finalità; solo dalla risposta a questi interrogativi l’uomo può trarre luce per la soluzione del problema della sua esistenza.
Gesù con la parabola del buon grano e della zizzania, da lui stesso poi interpretata e spiegata, rivela il motivo e il senso di questa tragica realtà.
Egli prima di tutto afferma chiaramente che il male c’è, è presente ed è dinamico nella storia degli uomini. Esso però non può venire da Dio, il creatore, che per essenza è Bene infinito ed eterno.
Dio è il seminatore del buon grano; innanzitutto con la creazione stessa, che è radicalmente e metafisicamente positiva, e poi con la Redenzione, perché “colui che semina il buon seme è figlio dell’uomo. Il seme buono sono i figli del regno”. Il male viene dal “nemico” e da coloro che lo seguono: “La zizzania sono i figli del maligno e il nemico che l’ha seminata è il diavolo”.
Ci troviamo qui di fronte alla libertà, che Dio ha dato alle creature razionali: questa è la realtà più sublime e più tragica perché, usata male, è la causa della germinazione della zizzania nella vita del singolo e nella storia dell’umanità.
Il dramma della storia consiste proprio in questa convivenza del buon grano con la zizzania fino al termine della storia, fino alla mietitura: non è possibile, oggi, pensare la storia umana senza zizzania; e cioè - come dice Gesù stesso - non è possibile sradicare totalmente la zizzania, perché essa è commista al bene.
La zizzania vive e cresce nel campo del mondo; ma vive e prospera anche il buon grano; cresce e si sviluppa anche il grano di senape, che diventa un albero frondoso e ospitale; cresce e fermenta anche il lievito del bene nascosto nella posta dell’umanità.
Con estrema semplicità, ma con suprema autorità Gesù ci fa capire che l’intera storia umana, per quanto lunga e tribolata, ha come vertice la “mietitura” finale: ciò che conta veramente non è la storia che passa, ma l’eternità che ci attende.

Gaudium et spes n. 37: La sacra Scrittura, però, con cui si accorda l’esperienza dei secoli, insegna agli uomini che il progresso umano, che pure è un grande bene dell’uomo, porta con sé una seria tentazione.
Infatti, sconvolto l’ordine dei valori e mescolando il male col bene, gli individui e i gruppi guardano solamente agli interessi propri e non a quelli degli altri; cosi il mondo cessa di essere il campo di una genuina fraternità, mentre invece l’aumento della potenza umana minaccia di distruggere ormai lo stesso genere umano.
Tutta intera la storia umana è infatti pervasa da una lotta tremenda contro le potenze delle tenebre; lotta cominciata fin dall’origine del mondo, destinata a durare, come dice il Signore, fino all’ultimo giorno (Cf. Mt 24,13; 13,24-30 e 36-43).
Inserito in questa battaglia, l’uomo deve combattere senza soste per poter restare unito al bene, né può conseguire la sua interiore unità se non a prezzo di grandi fatiche, con l’aiuto della grazia di Dio. Per questo la Chiesa di Cristo, fiduciosa nel piano provvidenziale del Creatore, mentre riconosce che il progresso umano può servire alla vera felicità degli uomini, non può tuttavia fare a meno di far risuonare il detto dell’Apostolo: «Non vogliate adattarvi allo stile di questo mondo» (Rm 12,2) e cioè a quello spirito di vanità e di malizia che stravolge in strumento di peccato l’operosità umana, ordinata al servizio di Dio e dell’uomo.
Se dunque ci si chiede come può essere vinta tale miserevole situazione, i cristiani per risposta affermano che tutte le attività umane, che son messe in pericolo quotidianamente dalla superbia e dall’amore disordinato di se stessi, devono venir purificate e rese perfette per mezzo della croce e della risurrezione di Cristo.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** Tutta intera la storia umana è infatti pervasa da una lotta tremenda contro le potenze delle tenebre; lotta cominciata fin dall’origine del mondo, destinata a durare, come dice il Signore, fino all’ultimo giorno.
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: O Dio, che a gloria del tuo nome hai suscitato nella Chiesa sant’Ignazio di Loyola, concedi anche a noi, con il suo aiuto e il suo esempio, di combattere la buona battaglia del Vangelo, per ricevere in cielo la corona dei santi. Per il nostro Signore Gesù Cristo...



30 Luglio 2018

Lunedì XVII Settimana T. O.


Oggi Gesù ci dice: “Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata” (Vangelo).

Dal Vangelo secondo Matteo 13,31-35: La parabola del granello di senape e del lievito mettono in evidenza il sorprendente contrasto tra i piccoli inizi del regno e della sua espansione. Un monito alla pazienza e a lasciare a Dio la regolazione dei conti. È un invito ad avere fiducia nell’azione di Dio, una forza intensiva ed estensiva che arriva a trasformare e a sconvolgere l’intera vita dell’uomo.

Basilio Caballero: Il discorso di Gesù continua con due parabole, di marcato parallelismo, intorno al mistero del regno di Dio: il granello di senapa e il lievito nella pasta (che si trovano anche in Lc 13,18ss). Il testo evangelico si conclude con una citazione scritturistica di completamento, in appoggio al linguaggio parabolico di Gesù: «Perché si adempisse ciò che era stato detto dal profeta: “Aprirò la mia bocca in parabole, proclama o cose nascoste fin dalla fondazione del mondo” (Sal 78,2)». Le parabole sono una forma di rivelazione e non di occultamento. Entrambe le parabole, come quella del seminatore e del seme che cresce da solo, sono parabole di contrasto; cioè, coincidono nel sottolineare la sproporzioni esistente tra gli inizi insignificanti del regno e il suo splendente finale. Ma anche così, ciascuna delle due parabole ha la sua sfumatura: quella del granello di senapa parla della crescita del regno in estensione, e quel la del lievito in intensità. Come il frondoso arbusto della senapa, che nella regione del lago di Tiberiade può raggiungere anche i tre metri, già sta in germe nel suo minuscolo seme, così il regno di Dio è già presente nel ministero apostolico di Gesù e della Chiesa, malgrado la povertà dei suoi inizi. È l’insegnamento fondamentale della parabola. In questo modo il Salvatore giustifica il suo metodo missionario che non rispondeva alle aspettative di trionfalismo e spettacolarità che, secondo i giudei del tempo, avrebbero dovuto accompagnare l’irruzione del regno di Dio nell’era messianica. Tuttavia, siccome l’evangelista scrive in epoca posteriore al ministero apostolico di Gesù, può già verificare, insieme alla comunità primitiva, la prima espansione del regno e del vangelo. Tra i rami dello snello albero di senapa possono già annidarsi gli uccelli. Evidente allusione all’incorporazione dei popoli pagani alla Chiesa. La seconda parabola è quella del lievito nella pasta, che è capace di far fermentare fino a tre misure di farina, il pane sufficiente per cento persone. Il suo significato e la sua lezione sono paralleli a quelli del granello di senapa. Nella persona e nel messaggio di Cristo sta già agendo efficacemente e irresistibilmente il fermento del regno; questo garantisce il successo finale della missione di Gesù e della Chiesa.

La parabola del granello di senapa - Richard Gutzwiller (Meditazioni su Matteo): Allorché si tiene sul palmo aperto un granello di senapa, lo si vede appena, eppure, seminato, in poco tempo diventa uno dei più grandi arbusti del campo. Fra il seme e la pianta non c’è davvero proporzione. Da un inizio insignificante si ottiene rapidamente il massimo risultato. Il mistero di questa crescita sbalorditiva risiede nella forza vitale e nel dinamismo interiore del seme. Secondo le parole del Signore tutto ciò è una illustrazione del mistero della Chiesa. Anche qui, da un inizio minimo, in un tempo straordinariamente breve, è uscito il grande risultato. La vita di Gesù, umanamente considerata, è brevissima. Incomincia nella stalla, rimane nascosta per trent’anni, si spiega pubblicamente solo per pochi mesi e termina con la condanna a morte. La Chiesa stessa incomincia con un pugno di contadini e di pescatori assolutamente impari al compito. L’uno passa al campo opposto, l’altro dichiara di non conoscere affatto Cristo. I rimanenti, nel momento culminante, fuggono. Le comunità della Chiesa primitiva sono composte in gran parte di schiavi e di popolino, con un numero insignificante di persone preminenti. Il movimento incomincia in Palestina, in un paese, cioè, che non è neppure una provincia romana indipendente, ma sottomessa a quella della Siria. Un evento totalmente privo di significato nel complesso dell’impero romano. Eppure il messaggio di Gesù ha conquistato il mondo e questa Chiesa è diventata la Chiesa universale, in un tempo incredibilmente breve, nonostante la resistenza delle forze spirituali, politiche e militari. Anche qui la crescita misteriosa si spiega con la virtù del seme, vale a dire con la forza vitale dello stesso Gesù Cristo, la quale non è altro che la forza di Dio. Gesù stesso è il capo di questa Chiesa, di cui lo Spirito Santo è il principio vitale. Visti di fuori, lo sviluppo e la crescita sono incomprensibili, considerati all’interno, dalla rivelazione, si capiscono perfettamente.

La parabola del lievito - Wolfgang Trilling: Il  raccontato è semplice e conciso, in un’unica frase. Una donna vuole preparare del pane. Alla grande quantità di farina aggiunge un pezzettino di lievito e lavora il tutto insieme, poi copre l’impasto con un tovagliolo e lo lascia riposare. Dopo un certo tempo, ecco il fatto meraviglioso: tutta la pasta è lievitata. La piccola quantità di lievito nascosto nella farina ha prodotto un vistoso effetto.
Come nella parabola del granello di senapa, anche qui ci interessa notare anzitutto la straordinaria e improvvisa trasformazione avvenuta, la sproporzione sbalorditiva tra il prima e il dopo, tra l’inizio e la fine. Così è del regno di Dio: dai suoi umili inizi nessuno si aspetterebbe tale pienezza di potenza, di sviluppo e di grandezza.
Ma qui l’idea dell’efficacia è ancor più determinante. La piccola porzione di lievito ha in sé una tale forza vitale, capace di fermentare una grande massa di farina e trasformarla in pasta per il pane; il lievito è il principio vitale. Il piccolo numero e la quantità poco appariscente (di lievito) non devono trarci in inganno. Davanti a Dio vale un’altra misura, non solo il rapporto tra grande e piccolo, ma anche tra ciò che è attivo e inerte. Quello che esteriormente appare debole e indigente, interiormente è pieno di forza e di vita. Nella debolezza apparente del messaggero opera e si sviluppa la forza interiore del messaggio. Il cuore nuovo e lo spirito nuovo, promesso da Dio, e che ora - nella pienezza dei tempi - egli vuole creare in noi, sono veramente opera divina. Chi accoglie totalmente il regno di Dio e se ne lascia permeare e trasformare, è un lievito divino nel suo ambiente. La forza vitale che pulsa in lui si espande e si comunica a chi gli vive accanto. Non solo la grande storia, ma anche la nostra piccola storia di ogni giorno ci mostrano questa forza vitale ed efficace - quando si incarna in uomini vivi -; una forza che si irradia anche sugli altri.
A quel piccolo gruppo Gesù ha detto: «Voi siete la luce del mondo»; «voi siete il sale della terra»; «una città collocata sopra monte non può restare nascosta» (5, 14-16). Ci rendiamo conto del tesoro che Dio ha nascosto nella nostra vita? Siamo consapevoli di essere chiamati a comunicare questa forza divina nel nostro ambiente, a esserne il lievito con la vita di Dio? Crediamo nell’efficacia dei nostri sforzi, anche se umili, poco appariscenti e minati dalla nostra debolezza e peccabilità? È la potenza della vita di Dio che vuole operare nella nostra pochezza.

Tutte queste cose Gesù disse alle folle con parabole e non parlava ad esse se non con parabole  - Benedetto Prete (I Quattro Vangeli): Matteo ama rilevare che il metodo parabolico, seguito da Gesù, era stato predetto nell’Antico Testamento. La citazione è presa dal Salmo, 78 (77),2 ed è un adattamento dell’evangelista alla situazione che egli presenta. La citazione non è secondo il testo ebraico, né secondo la versione dei LXX. Il salmista dice: io aprirò la mia bocca alle sentenze. parlerò degli (eventi) misteriosi [dei tempi antichi.
Con questa espressione l’autore del salmo intende dire che egli evocherà in esso gli avvenimenti della storia del popolo eletto.
Matteo invece rifacendosi al termine ebraico mashal (che i LXX rendono con parabolé) traduce: aprirò la mia bocca in parabole proferirò cose nascoste fin dalle [origini (del mondo).

Il regno dei cieli è simile a un granello di senape … - Evangelii gaudium 278: La fede significa anche credere in Lui, credere che veramente ci ama, che è vivo, che è capace di intervenire misteriosamente, che non ci abbandona, che trae il bene dal male con la sua potenza e con la sua infinita creatività. Significa credere che Egli avanza vittorioso nella storia insieme con «quelli che stanno con lui … i chiamati, gli eletti, i fedeli» (Ap 17,14). Crediamo al Vangelo che dice che il Regno di Dio è già presente nel mondo, e si sta sviluppando qui e là, in diversi modi: come il piccolo seme che può arrivare a trasformarsi in una grande pianta (cfr Mt 13,31-32), come una manciata di lievito, che fermenta una grande massa (cfr Mt 13,33) e come il buon seme che cresce in mezzo alla zizzania (cfr Mt 13,24-30), e ci può sempre sorprendere in modo gradito. È presente, viene di nuovo, combatte per fiorire nuovamente. La risurrezione di Cristo produce in ogni luogo germi di questo mondo nuovo; e anche se vengono tagliati, ritornano a spuntare, perché la risurrezione del Signore ha già penetrato la trama nascosta di questa storia, perché Gesù non è risuscitato invano. Non rimaniamo al margine di questo cammino della speranza viva!

«Gesù Cristo è lo stesso (...) sempre» (Eb 13, 8) - Tertio Millennio adveniente 56: La Chiesa perdura da 2000 anni. Come l’evangelico granello di senapa, essa cresce fino a diventare un grande albero, capace di coprire con le sue fronde l’intera umanità (cf. Mt 13, 31-32). Il Concilio Vaticano II nella Costituzione dogmatica sulla Chiesa, considerando la questione dell’appartenenza alla Chiesa e della ordinazione al Popolo di Dio, così si esprime: «Tutti gli uomini sono quindi chiamati a questa cattolica unità del Popolo di Dio (...) alla quale in vario modo appartengono o sono ordinati sia i fedeli cattolici, sia gli altri credenti in Cristo, sia, infine, tutti gli uomini, che dalla grazia di Dio sono chiamati alla salvezza ». Paolo VI, da parte sua, nell’Enciclica Ecclesiam suam illustra l’universale coinvolgimento degli uomini nel disegno di Dio, sottolineando i vari cerchi del dialogo della salvezza.
Alla luce di tale impostazione si può comprendere meglio anche la parabola evangelica del lievito (cf. Mt 13,33): Cristo, come lievito divino, penetra sempre più profondamente nel presente della vita dell’umanità diffondendo l’opera della salvezza da Lui compiuta nel Mistero pasquale. Egli avvolge inoltre nel suo dominio salvifico anche tutto il passato del genere umano, cominciando dal primo Adamo. A lui appartiene il futuro: «Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre» (Eb 13,8). La Chiesa da parte sua «mira a questo solo: a continuare, sotto la guida dello Spirito Paraclito, l’opera stessa di Cristo, il quale è venuto nel mondo a rendere testimonianza alla verità, a salvare e non a condannare, a servire e non ad essere servito».  

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata.
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: O Dio, nostra forza e nostra speranza, senza di te nulla esiste di valido e di santo; effondi su di noi la tua misericordia perché, da te sorretti e guidati, usiamo saggiamente dei beni terreni nella continua ricerca dei beni eterni. Per il nostro Signore Gesù Cristo…   



29 Luglio 2018

XVII Domenica T. O.

Oggi Gesù ci dice: “Beati i misericordiosi: essi troveranno Misericordia. Beati i puri di cuore: essi vedranno Dio” (Mt 5,7-8 - Antifona alla Comunione).

Dal Vangelo secondo Giovanni 6,1-15: La moltiplicazione dei pani e dei pesci ha un posto di rilievo nel quarto Vangelo: il prodigio segna il culmine del ministero di Gesù in Galilea e segna anche il momento decisivo per la opzione di fede o per il rifiuto nei confronti di Gesù. Il miracolo è ambientato in un contesto liturgico ben preciso: la pasqua dei Giudei. Questa indicazione temporale liturgica orienta il lettore alla comprensione del vero significato del gesto di Gesù: il pane dato da lui sarà la nuova pasqua. La moltiplicazione dei pani è registrata anche dagli evangelisti Matteo, Marco e Luca.

Era vicina la Pasqua - I capitoli 6-12 del Vangelo di Giovanni formano il ‘Libro dei segni’. Contiene il racconto di sette miracoli che dall’evangelista vengono chiamati ‘segni’ perché hanno lo scopo di svelare in modo progressivo il mistero della identità di Gesù. La moltiplicazione dei pani e dei pesci è il quarto ‘segno’ ed è presente anche in Matteo, Marco e Luca.
È incerto il luogo dove avviene il miracolo, ma più che il luogo è importante sottolineare alcune indicazioni che Giovanni non trascura di registrare: la traversata di Gesù, «Gesù passò all’altra riva del mare di Galilea»; la sua salita sul monte dove «si pose a sedere con i suoi discepoli»; il contesto liturgico nel quale viene collocato il ‘segno’, «Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei».
Questi particolari stabiliscono un chiaro parallelismo tra Gesù e Mosè: rievocando il passaggio del mar Rosso in occasione della Pasqua di liberazione dalla cattività egiziana, Gesù, nuovo Mosè, sale sul monte e sfama miracolosamente «circa cinquemila uomini». A ridosso di queste considerazioni, possiamo dire che le intenzioni dell’evangelista sono oltremodo chiare: Gesù è la nuova guida spirituale e con la moltiplicazione prodigiosa dei pani dà inizio al nuovo esodo. Nel deserto, dove la Chiesa si è rifugiata per sfuggire all’ira di satana (Cf. Ap 12,14), Colui che è «disceso dal cielo» (Gv 3,16; 6,41-42.51.58) sfamerà il suo popolo non con un pane corruttibile, ma con un Pane misterioso: il suo Corpo offerto e inchiodato sulla croce per la salvezza di tutto il mondo (Cf. Gv 2,2).

Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che si erano seduti e lo stesso fece dei pesci, finché ne vollero - I Giorni del Signore (Commento alla Letture Domenicali): Questi gesti ricordano, in modo affascinante, i gesti di Gesù al momento dell’istituzione dell’eucaristia, «la vigilia della sua passione» (Mt 26,26; Mc 14,22; Lc 22,19; 1Cor 11,23-24). Allo stesso modo, la conclusione del racconto si rivela particolarmente suggestiva. «Riempirono dodici canestri con i pezzi dei cinque pani d’orzo, avanzati a coloro che avevano mangiato» a sazietà. Coloro che avevano condiviso quel pasto «erano circa cinquemila uomini». Questo elemento sottolinea l’abbondanza del pane moltiplicato da Gesù. Ma i «pezzi», i «resti», che avanzano e che Gesù fa raccogliere «perché nulla vada perduto», fanno pensare all’antico nome dell’eucaristia: «la frazione del pane» (Lc 24,35; At 2,42). Infine la tradizione cristiana ha visto un nesso tra questi «restii accuratamente raccolti e il pasto eucaristico che le comunità cristiane, diffuse nel tempo e nello spazio, continuano a celebrare fino al giorno in cui Cristo raccoglierà gli eletti attorno alla mensa celeste (Mt 26,29; Lc 22,26). Il pane eucaristico, «nutrimento che dura per la vita eterna» (Gv 6,27), non mancherà mai nella Chiesa: tutti ne saranno saziati e ne avanzerà.

E quando furono saziati... - I miracoli sono fenomeni sensibili straordinari, che avvengono al di fuori delle normali leggi della natura. Attribuiti all’intervento divino, i miracoli come «segni, rivelano chi è Dio o autenticano una missione, come prodigi e meraviglie, manifestano un intervento trascendente del Dio nascosto; come azioni potenti e terribili, fanno conoscere la potenza e la santità di Dio» (L. Sabourin). Per il Catechismo della Chiesa Cattolica, i «numerosi “miracoli, prodigi e segni”» compiuti da Gesù «manifestano che in lui il Regno è presente. Attestano che Gesù è il Messia annunziato... testimoniano che il Padre lo ha mandato... sollecitano a credere in lui... testimoniano che egli è il Figlio di Dio» (547-548).
I miracoli di Cristo, «manifestazione della onnipotenza divina nei riguardi della creazione, che si rivela nel suo potere messianico su uomini e cose, sono nello stesso tempo i “segni” mediante i quali si rivela l’opera divina della salvezza, l’economia salvifica che con Cristo viene introdotta e si attua in modo definitivo nella storia dell’uomo e viene così inscritta in questo mondo visibile, che è pure sempre opera divina. La gente che - così come gli apostoli sul lago - vedendo i “miracoli” di Cristo s’interroga: “Chi è... costui, al quale anche il vento e il mare obbediscono?” (Mc 4,41), mediante questi “segni” viene preparata ad accogliere la salvezza offerta all’uomo da Dio nel suo Figlio. Questo è lo scopo essenziale di tutti i miracoli e segni fatti da Cristo agli occhi dei suoi contemporanei, e di quei miracoli che nel corso della storia saranno compiuti dai suoi apostoli e discepoli in riferimento alla potenza salvifica del suo nome: “Nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina!” [At 3,6]» (Giovanni Paolo II, 2 dicembre 1987).
Quindi, i miracoli non «mirano a soddisfare la curiosità e i desideri di qualcosa di magico» (CCC 547) e l’uomo non deve attendersi i miracoli a carattere retributivo, in quanto Dio non elargisce i miracoli secondo i meriti individuali.
Ma se per i credenti i miracoli «rendono più salda la fede in [Gesù] che compie le opere del Padre suo», per altri «possono essere motivo di scandalo» (CCC 548). Infatti, Gesù, nonostante i miracoli compiuti, fu trascinato sulla Croce.
Stupefacente e volgare la sentenza di Voltaire: «osare attribuire a Dio dei miracoli significa in effetti insultarlo [ammesso che degli uomini possano insultare Dio]: è come dirgli “voi siete un essere debole e incoerente” ».
Per i credenti invece sono dolce, tenera testimonianza della paternità di Dio: un Padre che è pronto a violare le leggi della natura pur di lenire il dolore dei suoi figli.

I miracoli: Giovanni Paolo II (Udienza Generale, 16 dicembre 1987): I “miracoli e segni” che Gesù faceva per confermare la sua missione messianica e la venuta del regno di Dio, sono ordinati e legati strettamente alla chiamata alla fede. Questa chiamata in relazione al miracolo ha due forme: la fede precede il miracolo, anzi è condizione perché esso si realizzi; la fede costituisce un effetto del miracolo, perché provocata da esso nell’anima di coloro che lo hanno ricevuto, oppure ne sono stati i testimoni.
È noto che la fede è una risposta dell’uomo alla parola della rivelazione divina. Il miracolo avviene in legame organico con questa parola di Dio rivelante. È un “segno” della sua presenza e del suo operare, un segno, si può dire, particolarmente intenso. Tutto ciò spiega in modo sufficiente il particolare legame che esiste tra i “miracoli-segni” di Cristo e la fede: legame delineato così chiaramente nei Vangeli.

Il pane, dono di Dio - A. Z. (Pane in Schede Bibliche Pastorali): Il pane è per gli uomini un mezzo di sussistenza, una necessaria sorgente di energia (Sal. 104,14-15); mancare del pane vuol dire mancare di tutto (Am. 4, 6; Cf. Gen. 28, 20).
Nella bibbia Dio, dopo avere creato l’uomo e dopo il diluvio (Gen. 1,29; 9,3), indica alla sua creatura ciò che può costituire il suo cibo. Ma solo a prezzo di una dura fatica l’uomo peccatore può procurarselo (Gen. 3,17-19). Dunque, se il pane per il suo carattere di necessità ricorda all’uomo che è una creatura (Cf. Dt. 8,10-18), per il faticoso lavoro che esige è il simbolo della maledizione alla quale egli è soggetto. Israele vede normalmente nell’abbondanza di pane il segno della benedizione di Dio (Sal. 37,25; Prov. 12,11) e nella mancanza di pane il segno del castigo per il peccato (Ger. 5,17; Ez. 4,16-17; Lam. 1,11; 2,12; 2Sam. 3,29).
In questa visione religiosa delle cose, è naturale che l’uomo chieda umilmente a Dio il pane, cioè tutto ciò che gli è necessario, e lo attenda con fiducia. Sono significativi, a questo riguardo, gli episodi di moltiplicazione dei pani dell’antico e del nuovo Testamento. La moltiplicazione operata da Eliseo vuole indicare la sovrabbondanza del dono divino («mangiarono e ne avanzarono», 2Re 4, 42-44). La stessa cosa nelle narrazioni evangeliche: come Iahvé nel deserto aveva nutrito il suo popolo distribuendo «il pane dei forti» (Sal. 78,25), così ora Gesù nutre sovrabbondantemente i suoi discepoli e ascoltatori: «Gesù dopo aver ordinato alla folla di sedersi sull’erba, prese i cinque pani e i due pesci e, alzati gli occhi al cielo, pronunziò la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli e i discepoli li distribuirono alla folla. Tutti mangiarono e furono saziati; e portarono via dodici ceste piene di pezzi avanzati. Quelli che avevano mangiato erano circa cinquemila uomini, senza contare le donne e i bambini» (Mt. 14,19-21; Cf. testi par.; Mt. 15,37 e par.; Gv. 6,12.).
In questo contesto di idee può essere posto l’invito di Gesù a chiedere nella preghiera «il pane quotidiano» (Mt. 6,11; Lc. 11,3). Il pane sembra riassumere qui tutti i doni che ci sono necessari.
Epioùsion vuol dire appunto, probabilmente, «necessario alla sussistenza». Ma comunque si traduca questo termine difficile, la cui etimologia e il cui significato sono discussi dagli esegeti, il pensiero di Gesù è chiaro: si deve chiedere a Dio l’alimento indispensabile alla vita. La maggior parte degli studiosi ritiene che si tratti qui proprio dell’alimento materiale; tuttavia è evidente il carattere «spirituale» della preghiera: i credenti attendono tutto dalla bontà del loro Padre celeste e lo chiedono in vista del regno di Dio (Mt. 6, 24-34).
Se il pane è un dono di Dio ed è necessario alla vita, esso deve essere condiviso con chi non l’ha.
Nell’ospitalità, il pane di ognuno diventa il pane dell’ospite inviato da Dio (Gen. 18,5; Lc. 11,5-8).
In Israele, soprattutto a partire dall’esilio, si insiste sulla necessità di condividere il pane con l’affamato: questa è la espressione migliore della carità fraterna (Prov. 22,9; Ez. 18,7.16; Is. 58,7; Giob. 31,17; Tob. 4,16).
Il pane è presentato anche come uno dei doni caratteristici dei tempi escatologici: un pane «sostanzioso» sarà donato a tutta la comunità degli eletti raccolta nel banchetto messianico: «Egli darà la pioggia per la semente con cui avrai seminato il suolo; il pane, prodotto della terra, sarà pingue e sostanzioso...» (Is. 30,23; Cf. Ger. 31,12). È un pane che si potrà ottenere senza fatica e senza spesa. La manna, che si otteneva nel deserto senza fatica, era già un segno di questo pane: era un dono di Iahvé, un «pane (proveniente) dal cielo» (Es. 16,4.15). Anche i pasti di Gesù con i suoi amici e discepoli preludevano già al banchetto escatologico (Mt. 11,19); in particolare, il pasto eucaristico, dove si riceve in cibo il corpo stesso di Cristo, è l’anticipazione dell’autentico dono di Dio, riservato per gli ultimi tempi: «Poi prese un pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: “Questo è il mio corpo che viene dato per voi; fate questo in memoria di me” » (Lc. 22,19).

 Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** Il pane eucaristico, «nutrimento che dura per la vita eterna» (Gv 6,27), non mancherà mai nella Chiesa: tutti ne saranno saziati e ne avanzerà.
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: O Padre, che nella Pasqua domenicale ci chiami a condividere il pane vivo disceso dal cielo, aiutaci a spezzare nella carità di Cristo anche il pane terreno, perché sia saziata ogni fame del corpo e dello spirito. Per il nostro Signore Gesù Cristo...
   



28 Luglio 2018

Sabato  XVI Settimana T. O.

Oggi Gesù ci dice: “Accogliete con docilità la Parola che è stata piantata in voi e può portarvi alla salvezza” (Gc 1,21bc).

Dal Vangelo secondo Matteo 13,24-30: Il tema del Vangelo è quello della pazienza. Se l’uomo è impaziente, Dio invece dà un’impostazione più ampia e più tollerante al suo piano di salvezza: «Il Signore non ritarda nel compiere la sua promessa, anche se alcuni parlano di lentezza. Egli invece è magnanimo con voi, perché non vuole che alcuno si perda, ma che tutti abbiano modo di pentirsi» (2Pt 3,9).

Claude Tassin (Vangelo di Matteo): Ecco qui un raccolto compromesso dall’invasione delle erbe cattive seminate da un vicino malevolo (vv. 25,27-28). A rigor di logica, nel racconto l’insistenza sul «nemico» evidenzia semplicemente un punto: il seminatore non ha seminato che del buon grano, ma il male è fatto. Il succo della parabola si trova nel seguito del dialogo.
Secondo l’impulso naturale dell’uomo e le regole dell’agricoltura, non è necessario strappare la cattiva erba subito? In questo caso, però, se ne trova davvero troppa e, sembra, esiste una specie di zizzania simile, tanto da ingannarsi, al grano ancora verde. Piuttosto che compromettere l’intero raccolto, è meglio attendere la mietitura per effettuare la scelta.
La parabola è una lezione di pazienza: è meglio tollerare la presenza del male che distruggere il ben quando non si dispone di mezzi per un efficace discernimento e lasciare questo compito a chi ne è capace («i mietitori»), Gesù applica la parabola al regno: nel corso della storia umana, i discepoli devono coltivare una paziente fiducia, accettare che il regno sia una comunità in cui si mescolano il bene e il male: il giudizio «ultimo» non è né di loro giurisdizione né di loro competenza. Più avanti (vv. 36-43) seguirà un «sermone» illuminante che sposterà in parte il culmine della parabola.

Il nemico ha fatto questo - La parabola della zizzania è propria di Matteo e forma una coppia con quella del seminatore, con la quale è affine per il contenuto. La parabola del granello di senapa è comune a tutti e tre i Sinottici.
La spiegazione della parabola della zizzania è data dallo stesso evangelista: l’uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo è il Cristo, il campo è il mondo e il buon seme i figli del regno, la mietitura è il tempo del giudizio (Cf. Ger 51,33; Gl 4,13; Os 6,11). Il nemico è il diavolo, il quale, a differenza dei servi che dormono, è l’irrequieto, l’insonne, colui che «come leone ruggente va in giro, cercando chi divorare» (1Pt 5,8). Il Figlio dell’uomo semina di giorno, il nemico di notte. Da qui si deduce che lì dove semina Dio, semina anche Satana: bisogna arrendersi «alla Parola di Dio e alle prove che la storia e la cronaca offrono ad ogni istante attraverso le edicole dei giornali, le vetrine delle librerie, il piccolo e il grande schermo. I “fiori del male” sono visibili in tutte queste aiuole; se ci sono gli effetti, ci sarà una causa, ci sarà un seminatore di zizzania e un coltivatore di malerba» (Rosario F. Esposito). Conoscere ciò è un ottimo antidoto a un falso ottimismo.
La parabola, al di là del suo vero intento, dà diversi spunti di riflessione. È un invito alla vigilanza, una buona virtù che può limitare efficacemente l’azione nefanda del «nemico» nel mondo e nella Chiesa. Ma è anche vero che i «figli di questo mondo verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce» (Lc 16,8), da qui il monito evangelico sempre attuale: noi «non apparteniamo alla notte, né alle tenebre. Non dormiamo dunque come gli altri, ma vigiliamo e siamo sobri» (1Ts 5,5-6).
Forse nella comunità cristiana, alla quale si indirizzava il Vangelo di Matteo, il «lievito dei farisei e dei sadducei» (Mt 16,6) aveva fatto fermentare un po’ di farina e i cristiani, emuli delle «guide cieche» del popolo di Dio (Cf. Mt 23,16.24), avevano preso gusto a tranciare giudizi, mettendo da una parte i buoni, qualificati così chissà da quali metri di giudizio, e dall’altra i cattivi, chissà per quali falli o peccati, occulti o manifesti. Proprio da tanto spettacolo di nequizia nasceva il desiderio di voler anticipare il giudizio finale di Dio. Una cosa, invece, è certa: il regno, finché dura questo mondo, è composto da grano e zizzania. In questa luce, nell’insegnamento evangelico della parabola del grano e della zizzania è nascosta «una lezione di pazienza perché non sta a noi decidere chi è il buono e chi è il cattivo, anche perché la parabola ci sottolinea l’aspetto escatologico della crescita, quando si realizzerà il vero discernimento; ma vi è anche la consapevolezza del valore del “seme”, da parte del padrone, perché sa bene che alla “fine” la zizzania sarà estirpata e bruciata» (G. Carata). A conclusione, il discepolo deve imparare ad avere e ad usare pazienza, predicare il pentimento e il perdono, imitando il buon Dio, il quale non gode «della morte dell’empio, ma che l’empio desista dalla sua condotta e viva» (Ez 33,11).

I Giorni del Signore (Commento delle Letture Domenicali): «Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura». Dio non ha premura di fare la cernita tra la zizzania e il grano: ci penserà al momento della mietitura. Prima di allora, siamo nel tempo della crescita e della speranza. Dio, si potrebbe dire, ha un’esperienza più lunga dei suoi servi. Egli sa che nel campo del regno, germogli vigorosi di zizzania possono scomparire prima di arrivare a maturazione; che alcuni semi di grano producono spighe più tardi di altri; che certi semi sviluppano le loro spighe appena prima della mietitura. Ma sa altresì che, al contrario, germogli di grano che erano spuntati rapidamente possono disseccarsi; che altri non riescono a superare il primo stadio di crescita e non arrivano alle spighe, e che una certa parte di queste si rivelano assai poco ricche di chicchi di grano maturo. Ora tutto questo - come ha ricordato la parabola della semente e dei diversi terreni - non dipende dai rischi stagionali. E non si può neppure dare la colpa ai semi, tutti di alta qualità, e nemmeno a uno sbaglio del seminatore: non è stato lui a seminare la zizzania nel campo, è stato il suo nemico. La responsabilità sta nel cuore dell’uomo: è lui che ha accolto la zizzania, che ha o non ha permesso alla zizzania di dare i suoi frutti. La pazienza, il temporeggiamento di Dio insegnati dalla parabola vengono perciò dalla sua chiaroveggenza, dalla sua misericordia che non dispera mai, dal fatto, insomma, che sino al giorno della mietitura egli dà a ciascuno la grazia che può fare miracoli.

Raymond Deville: Nei confronti sia del suo popolo «dalla dura cervice», sia delle nazioni peccatrici, Dio si rivela paziente perché li ama e li vuole salvare. L’uomo dovrà imitare questa pazienza divina, di cui Gesù dà la rivelazione suprema ed il modello perfette (Ef 5,1; Mt 5,45). Sull’esempio del suo maestro il discepolo dovrà affrontare la persecuzione e le prove con una fedeltà costante e lieta, piena di speranza; più umilmente, dovrà pure sopportare ogni giorno i difetti degli altri nella mitezza e nella carità.
I. LA PAZIENZA DI DIO - Antico Testamento - «Dio afferma la sua giustizia non tenendo conto dei peccati commessi una volta al tempo della pazienza divina» (Rom 3,2s).
L’Antico Testamento è così concepito da S. Paolo come un tempo in cui Dio sopportava i peccati del suo popolo e quelli delle nazioni al fine di manifestare la sua giustizia salvifica «nel tempo presente» (cfr. 1Piet 3,20; Rom 9,22ss). Nel corso della sua storia il popolo santo ha preso coscienza sempre più profonda di questa pazienza di Dio.
Nella rivelazione fatta a Mosè, Jahve proclama: «Dio di tenerezza e di pietà, tardo all’ira, grande in grazia e fedeltà, che esercita la sua grazia verso migliaia, perdona colpe e trasgressioni e peccati»; ma è pure colui che «non lascia nulla impunito e castiga le colpe dei padri sui figli e sui nipoti fino alla terza ed alla quarta generazione» (Es 34,6s; cfr. Num 14,18). Le successive rivelazioni insisteranno sempre più sulla pazienza, sull’amore misericordioso del Padre, il quale «sa di che cosa siamo impastati; tardo all’ira, e pieno di amore, egli non ci tratta secondo le nostre colpe» (Sal 103,8; cfr. Eccli 18,8-14). Se i temi dell’ira e del giudizio non scompaiono mai, i profeti mettono maggiormente l’accento sul perdono divino, e taluni testi mostrano Dio pronto a pentirsi delle sue minacce (Gioe 2,13s: Giona 4,2). Ma questa pazienza di Dio non è mai debolezza: è appello alla conversione: «Ritornate a Jahve vostro Dio perché egli è tenerezza e pietà, tardo all’ira, grande in grazia ... » (Gioe 2,13; cfr. Is 55,6). Israele comprende pure a poco a poco di non essere il solo beneficiario di questa pazienza: anche le nazioni sono amate da Jahve; la storia di Giona ricorda che la misericordia di Dio è aperta a tutti gli uomini che fanno penitenza.
Nuovo Testamento - 1. Gesù, con il suo atteggiamento nei confronti dei peccatori e con i suoi insegnamenti, illustra ed incarna la pazienza divina; rimprovera i suoi discepoli impazienti e vendicativi (Lc 9,55); le parabole del fico sterile (13, 6-9) e del figliol prodigo (15), quella del servo spietato (Mt 18,23-35) sono nello stesso tempo rivelazioni della pazienza di Dio, che vuole salvare i peccatori, e lezioni di pazienza e di amore ad uso dei suoi discepoli. Il coraggio di Gesù nella sua passione, posto in rilievo specialmente nel racconto di Luca, diventerà il modello di ogni pazienza per l’uomo esposto alle persecuzioni, ma che incomincia a comprendere ora il significato ed il valore redentore di queste sofferenze.
2. Gli apostoli, nell’apparente tardare del ritorno di Gesù, vedono una manifestazione della longanimità divina: «Il Signore non ritarda il compimento di ciò che ha promesso, ma usa pazienza verso di voi, volendo che nessuno perisca, ma che tutti giungano al pentimento» (2Piet 3,9.15). Ma se l’uomo disprezza questi «tesori di bontà, di pazienza, di longanimità di Dio», «accumula contro di sé, con il suo indurimento e con l’impenitenza del suo cuore, un tesoro di ira, nel giorno dell’ira, in cui si rivelerà il giusto giudizio di Dio» (Rom 2,5).
Perciò, finché dura l’oggi della pazienza di Dio e della sua chiamata, gli eletti devono ascoltare la sua parola e sforzarsi di entrare nel riposo di Dio (Ebr 3,7- 4,11).

Il mistero dei buoni e dei cattivi nel mondo: oggi particolarmente attuale - Sac Dolindo Ruotolo (I Quattro Vangeli): In questa parabola è prospettato uno dei problemi più gravi nella vita della Chiesa, come si è detto: nel campo del mondo c’è la buona semente, seminata dal Signore, cioè ci sono i buoni, i figli del regno, quelli che crescono per dare un frutto di bene, e per godere poi l’eterna ricompensa, e c’è la zizzania seminata dal diavolo, la quale rappresenta i cattivi, i figli del maligno. Quelli che traviano dalla Legge del Signore, benché chiamati anch’essi all’eterna gloria come tutti gli uomini, si rendono figli di satana comunicando alla sua vita ed alla sua malizia. Come Gesù Cristo forma i figli del regno comunicando loro la sua vita per i Sacramenti e per l’Eucaristia, così satana forma i figli delle tenebre invasandoli con le sue suggestioni e con le sue tentazioni esterne.
Il mondo con le sue illusioni, e la carne con le sue prepotenze sono le vie per le quali satana raggiunge le anime, e sotto quella specie di morte comunica loro la propria malignità, e le lancia poi nella Chiesa come elemento di dissensione e di scandalo. Il peccato è proprio dell’umana fragilità, ma certe forme di delinquenza non sono semplicemente dei malanni dello spirito, sono delle vere possessioni diaboliche che mutano il buon seme in zizzania, e poi lo gettano nel campo di Dio per turbarne lo sviluppo.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** “Accogliete con docilità la Parola che è stata piantata in voi e può portarvi alla salvezza” (Gc 1,21bc).  
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: Sii propizio a noi tuoi fedeli, Signore, e donaci i tesori della tua grazia, perché, ardenti di speranza, fede e carità, restiamo sempre fedeli ai tuoi comandamenti. Per il nostro Signore Gesù Cristo…