1 Novembre 2019


TUTTI I SANTI - SOLENNITÀ

Ap 7,2-4.9-14; Sal 23 (24); 1Gv 3,1-3; Mt 5,1-12a

Dal Martirologio: Solennità di tutti i Santi uniti con Cristo nella gloria: oggi, in un unico giubilo di festa la Chiesa ancora pellegrina sulla terra venera la memoria di coloro della cui compagnia esulta il cielo, per essere incitata dal loro esempio, allietata dalla loro protezione e coronata dalla loro vittoria davanti alla maestà divina nei secoli eterni.

“Celebrare la Solennità di Tutti i Santi vuol dire annunciare il mistero pasquale nei santi, che soffrirono insieme con Cristo ed insieme con lui furono glorificati. La santità cristiana consiste infatti nella imitazione e nella partecipazione a quell’unico amore che aveva Cristo nell’offrire al Padre la sua vita per gli uomini. La santità cristiana consiste nella vita paziente di ogni giorno nello spirito delle beatitudini; è nello stesso tempo l’adempimento della perenne vocazione dell’uomo alla perfezione. La chiamata alla santità riecheggiava nel Vecchio Testamento. Cristo dirà ai suoi: siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste (Mt 5,48). San Paolo ricorderà ai Tessalonicesi: questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione (cf. 1Ts 4,3).
Cambiano i tempi e le condizioni in cui vive la Chiesa, ma la chiamata alla santità non viene meno. La santità si manifesta esteriormente in modi diversi, viene realizzata dagli uomini secondo le doti della natura, i carismi, i tempi e le circostanze della vita. A base però della santità sta un’unica cosa: l’amore. Il santo camminava per la vita praticando il comandamento nuovo lasciato da Cristo. Oggi, la Chiesa contempla con gli occhi di Giovanni apostolo «una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua; tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello» (Ap 7,9) ed esulta con grande gioia. Contempla la Città santa, la Gerusalemme celeste dove un gran numero dei nostri fratelli glorifica già adesso il nome del Signore. In questo giorno solenne, la Chiesa manifesta ai suoi figli ancora pellegrinanti sulla terra il loro esempio di vita. Ai nostri fratelli, che sono già arrivati alla patria celeste, la Chiesa chiede aiuto e sostegno per coloro che sono ancora in via.” (Fonte: La Bibbia e i padri della Chiesa [I Padri vivi]).

Colletta: Dio onnipotente ed eterno, che doni alla tua Chiesa la gioia di celebrare in un’unica festa i meriti e la gloria di tutti i Santi, concedi al tuo popolo, per la comune intercessione di tanti nostri fratelli, l’abbondanza della tua misericordia. Per il nostro Signore Gesù Cristo..

La parola chiave del brano evangelico è beati, e ha il senso di una esclamazione di gioia. Gesù Maestro «indica ai suoi seguaci come si dovrebbe vivere: non semplicemente in conformità a una serie di regole, ma rivoluzionando dall’interno il proprio atteggiamento e la propria mentalità. La cosa straordinaria è che egli ha dato all’uomo la capacità di vivere questo ideale apparentemente impossibile» (Howard Marshall).

Dal Vangelo secondo Matteo 5,1-12a: In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli».

Gesù salì sul monte: si pose a sedere. Due note da non trascurare. Il monte per i semiti è il luogo che Dio preferenzialmente sceglie per manifestarsi ai suoi eletti: ai lettori ebrei per assonanza sarà venuto in mente il monte Sinai. Su quella montagna Dio si era rivelato a Mosè e aveva dato al popolo d’Israele la Legge (Cf. Es 19). Il sedersi è invece la postura propria del Maestro ai cui piedi si congregano i discepoli. Le intenzioni dell’evangelista Matteo quindi sono chiare: Gesù è Dio che si manifesta ai suoi discepoli sul monte ed è il Maestro che dona al “nuovo Israele” la nuova Legge, la “Magna Charta” del Regno di Dio.
Beati è una formula ricorrente nei Salmi, nei libri sapienziali e nel Nuovo Testamento, soprattutto nel libro dell’Apocalisse. Beato è l’uomo che cammina nella legge del Signore e per questo è ricolmo delle benedizioni di Dio, dei suoi favori e delle sue consolazioni divine soprattutto nei momenti cruciali in cui deve sopportare umiliazioni, affanni e persecuzioni.
Gesù apre il suo discorso proclamando beati i “poveri in spirito”, una aggiunta questa che fa bene intendere che il Maestro fa riferimento non agli indigenti, ma ai “poveri di Iahvé”, cioè a coloro che nonostante tutto restano fedeli al Signore, anzi le prove sono spinte a fidarsi di Dio, a chiudersi nel suo cuore, a rinserrarsi tra le sue braccia. I “poveri in spirito” sono coloro che fanno del dolore una scala per salire fino a Dio. Sono coloro che restano nonostante tutto saldi nelle promesse di Dio (Cf. Mt 27,39-44). In questa ottica sono beati quelli che sono nel pianto, i perseguitati per la giustizia, i diffamati. Ai miti fanno corona coloro che hanno fame e sete della giustizia, cioè coloro che amano vivere all’ombra della volontà di Dio, attuandola nella loro vita e mettendola sempre al primo posto.
Beati sono i misericordiosi cioè coloro che imitano la bontà, la pietà e la misericordia di Dio soprattutto a favore dei più infelici e dei più bisognosi. I puri di cuore sono beati per la purezza delle intenzioni, l’onestà della vita, perché sempre disponibili ai progetti divini. E infine, gli operatori di pace, che «nella Bibbia esprime la comunione con Dio e con gli uomini ed è il dono che riassume il vangelo [Cf. Lc 2,14], sono i più evidenti figli del Padre celeste» (S. Garofalo).
Il “discorso della Montagna” si chiude con due beatitudini rivolte ai perseguitati. Israele in tutta la sua storia aveva dovuto fare i conti con numerosi persecutori e se, quasi sempre, aveva accettato l’umiliazione delle catene, della tortura fisica e  dell’esilio, come purificazione e liberazione dal peccato, mai avrebbe pensato alla persecuzione come a una fonte di gioia e di felicità. Il discorso di Gesù va poi collocato proprio in un momento doloroso della storia ebraica: Israele gemeva sotto il durissimo e spietato giogo di Roma.
Nel nuovo Regno bandito da Gesù di Nazaret invece la persecuzione, e anche la calunnia, l’ingiustizia o l’odio gratuito, sono sorgenti di felicità se sopportate per «causa sua». Ancora di più, la sofferenza vicaria dà «compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa» (Col 1,24). Solo in questa prospettiva la persecuzione è la via grande, spaziosa e larga, spalancata al dono della salvezza e apportatrice di ogni bene e dono: «Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli». Un discorso che è rivolto a tutti: ai discepoli e alla folla, nessuno escluso.

Beati - J.-L. D’Aragon e e X. Léon-Dufour: Gesù non è semplicemente un sapiente di grande esperienza, ma è colui che vive pienamente la beatitudine che propone.
1. Le «beatitudini», poste all’inizio del discorso inaugurale di Gesù, offrono, secondo Mt 5,3-12, il programma della felicità cristiana. Nella recensione di Luca, esse sono abbinate a delle constatazioni di sventura, esaltando in tal modo il valore superiore di certe condizioni di vita (Lc 6, 20-26). Queste due interpretazioni tuttavia non possono essere ricondotte alla beatificazione di virtù o stati di vita. Si compensano a vicenda; soprattutto esprimono la verità in esse contenuta solo a condizione che venga loro attribuito quel significato che Gesù aveva dato loro. Gesù infatti è venuto da parte di Dio a pronunciare un solenne sì alle promesse del Antico Testamento; il regno dei cieli è lì, le necessità e le afflizioni sono soppresse, la misericordia e la vita, concesse da Dio. Effettivamente, se certe beatitudini sono pronunciate al futuro, la prima («Beati i poveri...»), che contiene virtualmente le altre, intende attualizzarsi fin d’ora. C’è di più. Le beatitudini sono un sì detto da Dio in Gesù. Mentre l’Antico Testamento giungeva ad identificare la beatitudine con Dio stesso, Gesù si presenta a sua volta come colui che porta a compimento l’aspirazione alla felicità: il regno dei cieli è presente in lui. Più ancora, Gesù ha voluto «incarnare» le beatitudini vivendole perfettamente, mostrandosi «mite ed umile di cuore» (Mt 11, 29).
2. Le altre proclamazioni evangeliche tendono tutte parimenti a dimostrare che Gesù è al centro della beatitudine. Maria è «proclamata beata» per aver dato alla luce il Salvatore (Lc 1,48; 11,27), perché ha creduto (1,45); con ciò essa annunzia la beatitudine di tutti coloro che, ascoltando la parola di Dio (11,28), crederanno senza aver visto (Gv 20,29). Guai ai farisei (Mt 23,13-32), a Giuda (26,24), alle città incredule (1,21)! Beato Simone, al quale il Padre ha rivelato in Gesù il Figlio del Dio vivente (Mt 16,17)! Beati gli occhi che hanno visto Gesù (13,16)! Beati soprattutto i discepoli che, in attesa del ritorno del Signore, saranno fedeli, vigilanti (Mt 24,46), tutti dediti al servizio reciproco (Gv 13,17).

I santi - J. De Vaulx: Usata in senso assoluto, questa parola era eccezionale nel Antico Testamento; era riservata agli eletti dei tempi escatologici. Nel Nuovo Testamento digna designa i cristiani. Attribuita dapprima ai membri della comunità primitiva di Gerusalemme ed in modo speciale al piccolo gruppo della Pentecoste (Atti 9,13; 1Cor 16,1; Ef 3,5), essa fu estesa ai fratelli di Giuda (Atti 9,31-41), poi a tutti i fedeli (Rom 16,2; 2Cor 1,1; 13,12). Mediante lo Spirito Santo il cristiano partecipa di fatto alla santità stessa divina. Formando la vera «nazione santa» ed il «sacerdozio regale», costituendo il «tempio santo» (1Piet 2,9; Ef 2,21), i cristiani devono rendere a Dio il vero culto, offrendosi con Cristo in «sacrificio santo» (Rom 12,1; 15,16; Fil 2,17). Infine la santità dei cristiani, che proviene da una elezione (Rom 1,7; 1 Cor 1,2), esige da essi la rottura col peccato e con i costumi pagani (1Tess 4,3): essi devono agire «secondo la santità che viene da Dio e non secondo una sapienza carnale» (2Cor 1,12; cfr. 1Cor 6,9ss; Ef 4,30-5,1; Tito 3,4-7; Rom 6,19). Questa esigenza di vita santa sta alla base di tutta la tradizione ascetica cristiana; si fonda non sull’ideale di una legge ancora esterna, ma sul fatto che il Cristiano «afferrato da Cristo» deve «partecipare alle sue sofferenze ed alla sua morte per giungere alla sua risurrezione» (Fil 3,10-14).

Benedetto XVI (Angelus, 1 novembre 2011): La Solennità di Tutti i Santi è occasione propizia per elevare lo sguardo dalle realtà terrene, scandite dal tempo, alla dimensione di Dio, la dimensione dell’eternità e della santità. La Liturgia ci ricorda oggi che la santità è l’originaria vocazione di ogni battezzato (cfr. Lumen gentium, 40). Cristo infatti, che col Padre e con lo Spirito è il solo Santo (cfr. Ap 15,4), ha amato la Chiesa come sua sposa e ha dato se stesso per lei, al fine di santificarla (cfr. Ef 5,25-26). Per questa ragione tutti i membri del Popolo di Dio sono chiamati a diventare santi, secondo l’affermazione dell’apostolo Paolo: «Questa infatti è la volontà di Dio, la vostra santificazione» (1Ts 4,3). Siamo dunque invitati a guardare la Chiesa non nel suo aspetto solo temporale ed umano, segnato dalla fragilità, ma come Cristo l’ha voluta, cioè «comunione dei santi» (Catechismo della Chiesa Cattolica, 946). Nel Credo professiamo la Chiesa «santa», santa in quanto è il Corpo di Cristo, è strumento di partecipazione ai santi Misteri - in primo luogo l’Eucaristia - e famiglia dei Santi, alla cui protezione veniamo affidati nel giorno del Battesimo. Oggi veneriamo proprio questa innumerevole comunità di Tutti i Santi, i quali, attraverso i loro differenti percorsi di vita, ci indicano diverse strade di santità, accomunate da un unico denominatore: seguire Cristo e conformarsi a Lui, fine ultimo della nostra vicenda umana. Tutti gli stati di vita, infatti, possono diventare, con l’azione della grazia e con l’impegno e la perseveranza di ciascuno, vie di santificazione.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** La santità non consiste nel dire cose belle, non consiste neppure nel pensarle o nel sentirle. La santità consiste nel soffrire e nel soffrire di tutto” (Santa Teresa del Bambino Gesù).
Nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

O Padre, unica fonte di ogni santità, mirabile in tutti i tuoi Santi,
fa’ che raggiungiamo anche noi la pienezza del tuo amore,
per passare da questa mensa eucaristica,
che ci sostiene nel pellegrinaggio terreno, al festoso banchetto del cielo.
Per Cristo nostro Signore.



31 Ottobre 2019

Giovedì XXX Settimana T. O.

 Rm 8,31b-39; Sal 108 (109); Lc 13,31-35

Colletta: Dio onnipotente ed eterno, accresci in noi la fede, la speranza e la carità, e perché possiamo ottenere ciò che prometti, fa’ che amiamo ciò che comandi. Per il nostro Signore Gesù Cristo...   

Alcuni farisei di buona pasta avvisano Gesù che Erode vuole ucciderlo, e le minacce di questo uomo non vanno prese alla leggera. Erode Antipa, tetrarca della Galilea e della Perea, è uomo dissoluto e sanguinario. Figlio di Erode il grande, al pari del padre, è un uomo lussurioso, scaltro, pronto a tutto. Di tal uomo si ricorderà una triste e perversa vicenda: accalappiato da una ballerina non esiterà a far decapitare Giovanni il Battista.
Il perché Erode voglia uccidere Gesù non viene detto, ma la notizia, conoscendo il personaggio, è da ritenere veritiera.
Invece di fuggire, Gesù manda un messaggio molte eloquente ad Erode: Andate a dire a quella volpe. Il lemma alopex (volpe) sia nella letteratura ellenistica che in quella rabbinica era sinonimo di astuzia e di malizia.
Ecco, io scaccio demòni e compio guarigioni oggi e domani; e il terzo giorno la mia opera è compiuta, questa espressione molto comune in aramaico, esprime un breve lasso di tempo, e ricorda Os 6,2. La risposta ai farisei fa intendere che il destino di Gesù non appeso ai sotterfugi di Erode, la libertà di Gesù è piena.
Però è necessario, sarà Gesù, quando sul quadrante della volontà di Dio scoccherà l’ora, a consegnasi nelle mani dei carnefici per portare a compimento il progetto di salvezza tracciato ab aeterno a favore di tutti gli uomini. Naturalmente i tre giorni  stanno ad indicare anche i giorni della passione-morte di Gesù, della sepoltura, e, al terzo giorno, della risurrezione.
Gerusalemme, Gerusalemme, Gesù ancora una volta denuncia la perfidia degli israeliti, sempre pronti ad armarsi di pietre per scagliare contro chi ragiona diversamente, è la sorte che è toccata ai profeti scomodi, la stessa sorte toccherà a Gesù.
Il lamento su Gerusalemme è composto da un riferimento veterotestamentario, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una chioccia i suoi pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto, un’immagine che ricorda l’affetto paterno di Dio verso il suo popolo (cfr. Sal 90 [91],4; Dt 32,11) e da una profezia la vostra casa è abbandonata a voi: una profezia oscura, indeterminabile, ma che si possono approntare due soluzioni. La prima, se l’affermazione allude a Ger 22,1-9, la casa non si riferirebbe al tempio di Gerusalemme, né “deserta” alla sua distruzione, avvenuta nel 70, ma alla casa del re di Giuda. La seconda ipotesi protenderebbe, molto probabilmente, al tempio, la casa di Dio, che sarà abbandonata dalla Gloria di Dio e abbandonato nelle mani dei pagani che lo distruggeranno, non lasciando pietra su pietra (cfr. Lc 21,5).

Dal Vangelo secondo Luca 13,31-35: In quel momento si avvicinarono a Gesù alcuni farisei a dirgli: «Parti e vattene via di qui, perché Erode ti vuole uccidere». Egli rispose loro: «Andate a dire a quella volpe: “Ecco, io scaccio demòni e compio guarigioni oggi e domani; e il terzo giorno la mia opera è compiuta. Ecco, io scaccio demòni e compio guarigioni oggi e domani; e il terzo giorno la mia opera è compiuta, che oggi, domani e il giorno seguente io prosegua nel cammino, perché non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme”. Gerusalemme, Gerusalemme, tu che uccidi i profeti e lapidi quelli che sono stati mandati a te: quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una chioccia i suoi pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto! Ecco, la vostra casa è abbandonata a voi! Vi dico infatti che non mi vedrete, finché verrà il tempo in cui direte: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore! ”».

In quel momento si avvicinarono a Gesù alcuni farisei a dirgli: «Parti e vattene via di qui, perché Erode ti vuole uccidere»: Conoscendo Erode Antipa l’avvertimento che fa giungere a Gesù tramite dei farisei può avere delle basi solide. Gesù era un profeta scomodo anche per Erode, e non volendo incorrere in qualche incidente come quello provocato da Giovanni il Battista, cerca con le minacce di farlo allontanare dai suoi territori. È non improbabile che siano proprio i farisei ad avvertirlo di mettersi al sicuro; tra le fila dei farisei ve ne erano alcuni favorevoli verso Gesù. Quindi è verosimile che il tetrarca avesse fatto ricorso a questa abile manovra, mettendo in giro tale minaccia, per non aver a che fare con Gesù; così si spiega anche l’appellativo «volpe» con il quale il Salvatore designa l’astuto monarca, svelando così il vero scopo di quel sottile ed abile raggiro.

Benedetto Prete (I Quattro Vangeli): versetto 32:  Opero guarigioni oggi e domani; il Maestro dichiara che egli deve continuare la sua attività benefica (esorcismi e guarigioni) ancora per un breve periodo («oggi e domani»), poiché, al momento attuale, la sua missione non è terminata. Con tali decise parole Gesù si mostra sicuro del piano che deve attuare e lascia chiaramente conoscere ai Farisei che nessuna minaccia lo può distogliere dalla sua opera, né può indurlo a cambiare quanto ha stabilito di fare.
Il terzo giorno poi io sono al compimento; la frase ha un tono volutamente misterioso, perché tocca lo stesso mistero della persona di Cristo. Il verbo τελειοῦμαι ha una pienezza di senso che è impossibile racchiudere in una sola parola; esso è stato differentemente tradotto a secondo degli aspetti che ogni autore intende porre in risalto; le versioni presentano quindi una notevole varietà. Esse rendono il testo nei seguenti modi: sarò al termine; io sono consumato; io debbo essere compiuto; io avrò terminato il mio compito. Si è preferita la traduzione indicata nel testo per lasciare il verbo greco nella sua indeterminatezza misteriosa che allude in pari tempo alla fine dell’attività messianica ed al compimento della salvezza. Il verbo ha indubbiamente una risonanza giovannea (cf. Gio., 19,30) e richiama una dottrina teologica che ha avuto una larga eco nella catechesi primitiva (cf. Ebrei, 2,10; 5,9). 
versetto 33: Ma oggi, domani e il giorno seguente debbo andare...; l’intero versetto riesce di difficile interpretazione, poiché non si vede il nesso con l’affermazione precedente. Per ottenere un senso soddisfacente ed evitare una contraddizione con la dichiarazione che precede, sono state indicate le seguenti interpretazioni: «il terzo giorno io ho terminato; il giorno seguente debbo andare...» (in questo caso si omette «ma oggi e domani»; il giorno seguente indica un quarto giorno e dei due versetti si fa un unico discorso); oppure: «ma oggi e domani debbo operare e il giorno seguente debbo andare per la mia via...» (in questo secondo caso si introdurrebbe nel vers. 33 il verbo «operare»). Tentativi, questi, plausibili, ma che lasciano dubbiosi. Forse, a nostro avviso, bisogna ritenere che il versetto sia indipendente e che Luca lo abbia inserito nel presente contesto, perché esso richiama in parte il senso dell’affermazione che precede e prepara la pericope che segue immediatamente; il vers. quindi è un logion di sutura, che l’evangelista ha voluto conservare nel suo scritto, senza preoccuparsi di raccordarlo interamente con il contesto; perciò il senso del detto sarebbe il seguente: io ho un breve tempo ancora per operare (l’idea della brevità è indicata dall’espressione «oggi, domani e il giorno seguente») e la mia opera sarà conclusa a Gerusalemme, fuori della quale un profeta non può morire.
Poiché non conviene ad un profeta di perire fuori di Gerusalemme; ci si domanda: la presente dichiarazione contiene un accento di ironia oppure è una riflessione seria e penosa di Cristo? La storia vetotestamentaria ha trasmesso il ricordo di profeti uccisi a Gerusalemme, capitale del popolo eletto (cf. 2 Re, 21, 16; Geremia, 26, 20-23; 2 Cronache, 24, 20-22); Gesù tuttavia, pur conoscendo questi tristi fatti, non sembra che li voglia rinfacciare qui agli Ebrei; egli piuttosto vuol dichiarare che, come la sua attività risponde ad un piano voluto da Dio («debbo andar per la mia via»), così anche la sua morte, che avverrà a Gerusalemme, rientra in questo stesso piano, attuando così un decreto superiore. Se alcuni profeti sono stati uccisi nel centro del giudaismo, a maggior ragione un profeta come lui dovrà chiudere i suoi giorni nella capitale religiosa di Israele.

Gerusalemme, Gerusalemme...: Carlo Ghidelli (Luca): è, questo, un lamento-profezia di Gesù su Gerusalemme, luogo di contraddizione. Gesù infatti vorrebbe farne segno di riconciliazione, di pace e di unità; essa invece pone gesti di violenza e di divisione. In essa sarà effuso lo Spirito Santo, vincolo di unità, ma in essa si avvererà anche la divisione delle lingue (At 2,lss). La profezia di Gesù ha due momenti: uno negativo (cfr Gr 12,7 e Le 21,6; 23,28ss) per cui Gesù si vede nella stessa tragica situazione di Geremia, di dover cioè predire la rovina di Gerusalemme e dei suoi abitanti che pur ama intensamente (si intravede nel v. 34 una forte somiglianza con la vicenda di Stefano in At 6,3.13s; 7,47-58); ed uno positivo (cfr SI 118,26 e Le 19,38; 21,24), per cui sembra che Le accenni alla conversione di Israele o all'ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme (cfr 19,37s), oppure, e più verosimilmente, alla fine dei tempi (allora qui si adombrerebbe l'insegnamento paolino di Rm 9-11, specialmente 11,25-27). - Quante volte ho voluto...!: sembra che Gesù abbia già esercitato un periodo del suo ministero in Gerusalemme. In questo caso, cadrebbe lo schema generale dei Sinottici (che accennano ad una sola salita di Gesù nella città santa); cadrebbe anche lo schema del lungo viaggio di Gesù verso Gerusalemme (9,51ss); ma avremmo un altro accenno lucano, ed una conferma, alla verosimiglianza dello schema evangelico offertoci da Giovanni (che parla di parecchie visite di Gesù a Gerusalemme).

“Parti e vattene via di qui, perché Erode ti vuole uccidere” - Don Silvio Longobardi: È solo un frammento del ministero di Gesù ma permette di capire in quali condizioni egli realizza l’opera che il Padre gli ha affidato. Le folle lo cercano, il potere lo osserva. I discepoli lo ascoltano con fiducia perché lo considerano un profeta; i farisei, invece, lo ritengono un impostore. Sono proprio i farisei che lo invitano a partire per sfuggire all’ira di Erode. In apparenza è un gesto di amicizia, in realtà cercano pretesti per liberarsi di Gesù. Lo considerano un pericolo, un rabbi che stravolge la tradizione dei padri. La minaccia ha un suo nucleo di verità. È vero, Gesù non si presenta come un agitatore politico, ma è vero anche che l’entusiasmo popolare viene visto con diffidenza, anzi con un certo fastidio, una possibile causa di sommosse popolari. Meglio allontanare un uomo come Gesù, abbiamo meno problemi. Gesù si trova ancora in Galilea ma è in cammino verso Gerusalemme (Lc 9,51). Non può rinunciare ad andare nella città santa dove troverà compimento la sua missione. Gesù considera i farisei come gli ambasciatori di Erode e chiede loro di rispondere al re con queste parole: “è necessario che oggi, domani e il giorno seguente io prosegua nel cammino, perché non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme” (13,32-33). Gesù non si lascia intimidire dalle minacce, non si nasconde, non ha intenzione di rinunciare al compito che gli è stato affidato, anzi ribadisce che andrà fino in fondo.
Queste parole invitano anche noi ad evitare ogni forma di mediocrità. Lungo il cammino incontriamo spesso ostacoli, piccoli e grandi. A volte all’esterno ma tante altre volte all’interno. Il Signore ci chiede di rimanere fedeli al compito che ci è stato affidato. C’è una storia da costruire, ci sono ancora tante pagine da scrivere, nessuno deve fermarsi a metà. Un santo eremita diceva: “Non riposarci, dopo aver incominciato, non venir meno alle fatiche, non dire abbiamo coltivato a lungo l’ascesi; accresciamo invece la prontezza della nostra volontà, come se incominciassimo ogni giorno” (Sant’Antonio Abate).

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
***  «Vi dico infatti che non mi vedrete, finché verrà il tempo in cui direte: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore!”» (Vangelo).
Nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Signore, questo sacramento della nostra fede
compia in noi ciò che esprime
e ci ottenga il possesso delle realtà eterne,
che ora celebriamo nel mistero.
Per Cristo nostro Signore.



30 Ottobre 2019

Mercoledì XXX Settimana T. O.

 Rm 8,26-30; Sal 12 (13); Lc 13,22-30

Colletta: Dio onnipotente ed eterno, accresci in noi la fede, la speranza e la carità, e perché possiamo ottenere ciò che prometti, fa’ che amiamo ciò che comandi. Per il nostro Signore Gesù Cristo...   

La domanda del tale, Signore, sono pochi quelli che si salvano?, era un tema molto presente nelle discussioni rabbiniche. Gesù non risponde a questa domanda, certamente oziosa e capziosa, e si limita a mettere l’interlocutore in guardia da simili considerazioni che non portano a nulla di concreto.
Comunque, la risposta di Gesù, pur non appagando la curiosità dell’interlocutore, è chiara ed esauriente, e offre una traccia che aiuta a comprendere se si è nel numero dei salvati. La risposta di Gesù si articola su tre moduli. Il primo è un assunto che troviamo bene espresso in questa affermazione dell’apostolo Paolo: “… è necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel regno di Dio” (At 14,22). 
Il secondo suggerisce che l’appartenenza al popolo d’Israele non giova a nulla se non vi sono frutti di sincera conversione e piena obbedienza al patto di alleanza, né tanto sarà un passaporto l’aver mangiato e bevuto in presenza di Gesù, o l’aver ascoltato i suoi insegnamenti, perché a questo deve essere seguire conversione di vita e pienezza di sequela. Infine, la presunzione di avere il diritto di entrare nella casa del Padre sarà cassata quando i sedicenti aventi diritto si vedranno fuori e altri, quelli che erano creduti perduti per sempre, entreranno nel regno d Dio: “Perciò io vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti” (Mt 21,44).
È una nota che mette bene in evidenza l’universalità della salvezza, nessuno a priori è escluso, ma vi sono regole da ottemperare.

Dal Vangelo secondo Luca 13,22-30: In quel tempo, Gesù passava insegnando per città e villaggi, mentre era in cammino verso Gerusalemme. Un tale gli chiese: «Signore, sono pochi quelli che si salvano?».
Disse loro: «Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno. Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, voi, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: “Signore, aprici!”. Ma egli vi risponderà: “Non so di dove siete”. Allora comincerete a dire: “Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze”
. Ma egli vi dichiarerà: “Voi, non so di dove siete. Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia!”. Là ci sarà pianto e stridore di denti, quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio, voi invece cacciati fuori. Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio. Ed ecco, vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi».

Signore, sono pochi quelli che si salvano? Gesù non risponde a questa domanda,  ma ne prende spunto per suggerire che per salvarsi è necessario sforzarsi di entrare per la porta stretta.
Più che sforzo il testo greco ha lotta: come dire che tutta la vita cristiana è milizia. La «lotta [agon] accentua l’impegno cosciente delle proprie forze per raggiungere una meta [...]. Il lavoro dell’apostolo non è solamente un adempi­mento fedele del dovere, ma un agon, collegato a pesi e strapazzi [Col 1,29; lTm 4,10]. Si tratta della meta ultima e immutabile, la sola che valga: [...] il premio della vittoria, che il cristiano sarà in grado di raggiungere solo se si impegna, talvolta con il sacrificio di tutta la vita e mediante la comunione con le sofferenze di Cristo [Cf. Fil 3,15]» (A. Ringward).
All’anonimo interlocutore, Gesù sta dicendo, con estrema chiarezza, che per entrare nel regno di Dio non è solo richiesto il massimo impegno, ma anche la massima rinuncia. Qui siamo molto lontano da quel Vangelo edulcorato, infantile, dove tutto si poggia su un preteso buonismo di Dio che perdona tutti e tutto. Per salvarsi non basterà aver mangiato e bevuto in sua presenza, non sarà sufficiente aver avuto l’onore di averlo ospitato come maestro nelle nostre piazze, non serviranno nemmeno i legami di razza, essere figli di Abramo non servirà a nulla per evitare l’esclusione meritata da una condotta iniqua (Cf. Lc 3,7-9; Gv 8,33s).
Quando il padrone di casa si alzerà... Il padrone di casa è Cristo Gesù, il quale «chiude la porta alla morte di ogni peccatore, il cui tempo per accumulare meriti è ormai finito, poiché la penitenza dopo la morte è infruttuosa. Per questo Egli dirà ai peccatori: Non vi conosco!» (Nicola di Lira, Postilla super Lucam, XIII).
In Luca, gli operatori di ingiustizia non sono i falsi profeti e guaritori come in Mt 7,21-23, ma i Giudei increduli e i pagani convertiti che non fanno la volontà del Padre.
Gli esclusi, quei Giudei che ritenevano di essere giusti davanti agli uomini (Lc 16,15), piangeranno come disperati e saranno in preda del risentimento e della rabbia quando vedranno i pagani sedere a mensa nel regno di Dio.
Verranno da oriente e da occidente... Quanto sognato dai profeti, cioè il raduno di tutte le genti nell’unico ovile di Cristo (Cf. Is 2,2-5; 25,6-8; 60,1ss; 66,18-21; Gv 10,16), incomincia a realizzarsi fin d’ora, nel ministero pubblico di Gesù [Cf. Lc 14,21.23,26; 15,32; 16,9], e troverà più pieno compimento nel ministero apostolico della Chiesa.
In questo modo e con queste immagini (pianto e stridore di denti... siederanno a mensa), Gesù proclama ai Giudei, che ritenevano di essere i primi e gli unici destinatari delle promesse messianiche fatte ai profeti, l’universalità della salvezza. L’unica condizione che viene chiesta è la libera e gioiosa risposta alla chiamata misericordiosa di Dio.
Alla fine, sarebbe facile metterci noi cristiani al posto dei Giudei e credere, come lo credeva Israele, che le porte ormai sono per sempre spalancate per tutti. Chi dà per scontata la propria salvezza è un illuso e un povero stolto: non «ci sarà neanche salvezza automatica per i cristiani che rimanderan­no al domani la riforma, sempre da riprendere, del loro comportamento. La porta è stretta per tutti: quelli che commettono il male non potranno appellarsi alla loro familiarità superficiale con il Cristo per farsi aprire, quando la porta sarà chiusa» (H. Cousin).

Carlo Ghidelli (Luca): Noi abbiamo mangiato e bevuto dinnanzi a te... Io non so donde siete: quelli che parlano per primi sono i giudei che hanno vissuto con Gesù (per Mt 7,22-23 sono i profeti e i taumaturghi cristiani). Colui che risponde per Matteo è Gesù che parla in prima persona, per Luca e invece è il Giudice dell’ultimo giorno. L’insegnamento che emerge richiama 8,21; 11,28: non ha importanza la conoscenza personale con Gesù terreno, quello che vale è il seguire Gesù con ogni sforzo: allora egli ci riconoscerà ed è questa la conoscenza che importerà avere! [...].
quando vedrete Abramo...: dunque non basta essere figli di Abramo, ma occorre fare le opere di Abramo per avere parte alla gioia di Abramo (cfr 3,8 e Ga 3,7; Gv 8,33-41). - e voi fuori: l’immagine che soggiace è quella di una grande sala dove si celebra il banchetto messianico (cfr Is 25,6; Le 14,15-24; 22,16.18.30). Il voi, per Luca, si riferisce non a tutti i giudei (come in Mt 8,12), ma solo agli uditori increduli di Gesù. - Verranno da Oriente e da Occidente: la visione di Is 2,2-5; 25,6-8; 60,lss; 66,18-21 incomincia a realizzarsi fin d’ora, nel ministero pubblico di Gesù (efr 14,21.23.26; 15,32; 16,9), e troverà più pieno compimento nel ministero apostolico.

La porta stretta - J. Briére: Dopo che il paradiso è stato chiuso, l’uomo non comunica più familiarmente con Dio. È il culto a stabilire una relazione tra i due mondi, quello divino e quello terreno: così Giacobbe aveva riconosciuto in Bethel «la porta del cielo» (Gen 28,17). L’israelita che si presenta alle porte del tempio desidera avvicinarsi a Jahve (Sal 100,4); ma udrà il sacerdote ricordargli le condizioni d’ingresso: la fedeltà all’alleanza, la giustizia (Sal 15; 24; Is 33,15 s; cfr. Mi 6,6-8; Zac 8,16s): «La porta di Jahve è qui, i giusti vi entreranno» (Sal 118,19s). Geremia, dal canto suo, riferendosi a queste stesse porte, dichiara che la condizione è ben lungi dall’essere adempiuta: l’incontro con Dio è illusorio, il tempio sarà respinto (Ger 7; cfr. Ez 8-11). Gerusalemme perde la propria ragion d’essere. Sarà «togliendo il male di mezzo ad essa», e non già chiudendone le porte alle nazioni, che la città sarà santa. Quando il tempio viene distrutto, Israele si rende conto che l’uomo non può salire al cielo; perciò, nella sua preghiera, chiede a Dio di squarciare i cieli e di scendere lui stesso (Is 63, 19): prenda dunque la guida del gregge e gli faccia varcare le porte (Mi 2, 12 s; cfr. Gv 10,4).
Gesù esaudisce questo desiderio; al battesimo il cielo si apre ed egli stesso diventa la vera porta del Cielo, discesa sulla terra (Gv 1,51; cfr. Gen 28,17), la porta che introduce ai pascoli dove i beni divini sono liberamente offerti (Gv 10,9), l’unico mediatore: per mezzo suo Dio si comunica agli uomini, per mezzo suo gli uomini hanno accesso al Padre (Ef 2,18; Ebr 10,19). Gesù mentre detiene la chiave di David (Apoc 3,7), nello stesso tempo stabilisce delle esigenze: l’ingresso nel regno di cui ha consegnato le chiavi a Pietro (Mt 16,19); l’ingresso nella vita, nella salvezza presentate come una città o una sala di banchetti, ingresso che è una porta angusta, la conversione (Mt 7,13s; Lc 13,24), la fede (Atti 14,27; Ef 3,12). Colui che non starà in guardia, troverà la porta chiusa (Mt 25,10; Lc 13,25). Ma Gesù, che si è impadronito della chiave della morte e dell’inferno (Apoc 1,18), è vincitore del male e ha concesso alla sua Chiesa di essere più forte delle potenze malvagie (Mi 16,18). Alla fine dei tempi, città e cielo coincidono. L’Apocalisse ci fa vedere realizzati gli annunci di Isaia, Ezechiele e Zaccaria: la Gerusalemme celeste ha dodici porte; esse sono sempre aperte, e tuttavia il male non vi entra più; sono la giustizia e la pace in pienezza; è lo scambio perfetto tra Dio e la umanità (Apoc 21,12-27 e 22,14-15). 

Benedetto XVI (Angelus 26 Agosto 2007): Anche l’odierna liturgia ci propone una parola di Cristo illuminante e al tempo stesso sconcertante. Durante la sua ultima salita verso Gerusalemme, un tale gli chiede: “Signore, sono pochi quelli che si salvano?”. E Gesù risponde: “Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, vi dico, cercheranno di entrarvi, ma non ci riusciranno” (Lc 13, 23-24). Che significa questa “porta stretta”? Perché molti non riescono ad entrarvi? Si tratta forse di un passaggio riservato solo ad alcuni eletti? In effetti, questo modo di ragionare degli interlocutori di Gesù, a ben vedere è sempre attuale: è sempre in agguato la tentazione di interpretare la pratica religiosa come fonte di privilegi o di sicurezze. In realtà, il messaggio di Cristo va proprio in senso opposto: tutti possono entrare nella vita, ma per tutti la porta è “stretta”. Non ci sono privilegiati. Il passaggio alla vita eterna è aperto a tutti, ma è “stretto” perché è esigente, richiede impegno, abnegazione, mortificazione del proprio egoismo.
Ancora una volta, come nelle scorse domeniche, il Vangelo ci invita a considerare il futuro che ci attende e al quale ci dobbiamo preparare durante il nostro pellegrinaggio sulla terra. La salvezza, che Gesù ha operato con la sua morte e risurrezione, è universale. Egli è l’unico Redentore e invita tutti al banchetto della vita immortale. Ma ad un’unica e uguale condizione: quella di sforzarsi di seguirlo ed imitarlo, prendendo su di sé, come Lui ha fatto, la propria croce e dedicando la vita al servizio dei fratelli. Unica e universale, dunque, è questa condizione per entrare nella vita celeste. Nell’ultimo giorno - ricorda ancora Gesù nel Vangelo - non è in base a presunti privilegi che saremo giudicati, ma secondo le nostre opere. Gli "operatori di iniquità" si troveranno esclusi, mentre saranno accolti quanti avranno compiuto il bene e cercato la giustizia, a costo di sacrifici. Non basterà pertanto dichiararsi “amici” di Cristo vantando falsi meriti: “Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze” (Lc 13, 26). La vera amicizia con Gesù si esprime nel modo di vivere: si esprime con la bontà del cuore, con l’umiltà, la mitezza e la misericordia, l’amore per la giustizia e la verità, l’impegno sincero ed onesto per la pace e la riconciliazione. Questa, potremmo dire, è la “carta d’identità” che ci qualifica come suoi autentici “amici”; questo è il “passaporto” che ci permetterà di entrare nella vita eterna.
Cari fratelli e sorelle, se vogliamo anche noi passare per la porta stretta, dobbiamo impegnarci ad essere piccoli, cioè umili di cuore come Gesù. Come Maria, sua e nostra Madre. Lei per prima, dietro il Figlio, ha percorso la via della Croce ed è stata assunta nella gloria del Cielo, come abbiamo ricordato qualche giorno fa. Il popolo cristiano la invoca quale Ianua Caeli, Porta del Cielo. Chiediamole di guidarci, nelle nostre scelte quotidiane, sulla strada che conduce alla “porta del Cielo”.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** «Il passaggio alla vita eterna è aperto a tutti, ma è “stretto” perché è esigente, richiede impegno, abnegazione, mortificazione del proprio egoismo» (Benedetto XVI).
Nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Signore, questo sacramento della nostra fede
compia in noi ciò che esprime
e ci ottenga il possesso delle realtà eterne,
che ora celebriamo nel mistero.
Per Cristo nostro Signore.




29 Ottobre 2019

Martedì XXX Settimana T. O.

 Rm 8,18-25; Sal 125 (126); Lc 13,18-21

Colletta: Dio onnipotente ed eterno, accresci in noi la fede, la speranza e la carità, e perché possiamo ottenere ciò che prometti, fa’ che amiamo ciò che comandi. Per il nostro Signore Gesù Cristo...   

La parabola del granello di senape, raccontata anche da Matteo e Marco, vuole mettere in evidenza la crescita dell’albero, come dire che il regno di Dio, un piccolo seme seminato in terra di Palestina, crescerà e si dilaterà sino agli estremi confini del mondo. La parabola del lievito mette in evidenza la piccolezza del lievito e la grande massa fermentata. Il regno di Dio ha avuto un inizio a un po’ di lievito, un inizio umile, nascosto, ma che bene presto si espanderà tra tutti i popoli della terra.
In questa cornice, le due parabole mettono in evidenza il sorprendente contrasto tra i piccoli inizi del regno e della sua espansione. Un monito alla pazienza e a lasciare a Dio la regolazione dei conti. È un invito ad avere fiducia nell’azione di Dio, una forza intensiva ed estensiva che arriva a trasformare e a sconvolgere l’intera vita dell’uomo.

Dal Vangelo secondo Luca 13,18-21: In quel tempo, diceva Gesù: «A che cosa è simile il regno di Dio, e a che cosa lo posso paragonare? È simile a un granello di senape, che un uomo prese e gettò nel suo giardino; crebbe, divenne un albero e gli uccelli del cielo vennero a fare il nido fra i suoi rami». E disse ancora: «A che cosa posso paragonare il regno di Dio? È simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata».   

Le due parabole, la parabola del granello di senape e del lievito, sono precedute da una serie di avvenimenti che è bene ricordare. Lc 13,1-4, ricorda come alcuni informano Gesù di due avvenimenti luttuosi, la carneficina perpetrata da Pilato e la caduta della torre di Siloe, la quale rovinando aveva ucciso 18 operai. Segue il racconto del fico infruttuoso, e la guarigione in giorno di sabato di una donna posseduta dal demonio, seguita dalle solite recriminazioni dei farisei. Alla fine di questi fatti Gesù racconta le due parabole. Il perché Luca “le abbia collocate in questo contesto è oggetto di congetture. Matteo e Marco mettono queste due piccole parabole frammischiate tra altre in discorsi parabolici più lunghi [Mc 4,3032; Mt 13,31-33]. Luca le inserisce in un contesto conflittuale alquanto teso. E lo fa di proposito, poiché le presenta a conclusione della guarigione: «Diceva dunque». Questo per noi è un invito a leggere queste parabole come un commentario ai fatti che le precedono. Entrambe le parabole contrappongono umili inizi a vistosi risultati: il piccolo seme diventa un albero; il lievito fa fermentare un'intera massa di farina. Entrambe, inoltre, contrappongono il nascosto al manifesto: il seme è nascosto nel terreno, ma diventa visibile nell'albero; il lievito è nascosto nell'impasto, ma si manifesta negli effetti di crescita che produce. Sarà la stessa cosa, ci viene dato da intendere, per quanto riguarda il regno di Dio proclamato da Gesù. È proprio in questi piccoli e nascosti atti di liberazione compiuti in questa sinagoga che la vittoria sul regno di satana incomincia a delinearsi e che la missione profetica di «proclamare ai prigionieri la liberazione» [4,18] si sta compiendo. Ma Luca vuole forse insinuare nel testo segnali ancora più sottili? Dobbiamo vedere un legame tra le diciotto persone morte sotto il muro del Tempio e i diciotto anni in cui la figlia di Abramo è stata sotto il potere di satana? E se è cosi può essere che il «raddrizzarsi» della donna sia in qualche modo una variazione del tema di Luca della «rovina e risurrezione di molti in Israele» [2,34]? Forse è così, proprio come il suo raddrizzarsi a glorificare Dio ci ricorderà il detto riguardo al ritorno del Figlio dell'uomo in 21,28: «Quando cominceranno ad accadere queste cose, alzatevi e levate il capo, perché la vostra liberazione è vicina»” (Luke Timothy Johnson, Il Vangelo di Luca).

Il regno di Dio è simile a un granello di senape - Javer Pikaza: Con parola desunta dall'antica tradizione di Gesù, si afferma che il regno è simile a un granello di senape (13,18) o a un pugno di lievito (13,21). In realtà, sullo sfondo giudaico di quel tempo, il termine di paragone non è la senape o il lievito, bensì il loro comportamento. Il granello di senape, proverbialmente piccolo e insignificante, diviene un arbusto frondoso. Il lievito che pare essersi perso nella farina, la fa fermentare e la trasforma totalmente dal di dentro.
La situazione in cui si inseriscono le parabole è chiara. Gesù parla del regno, agisce con la convinzione che il regno sta arrivando e, tuttavia, tutto ci permette di supporre che non sia cambiato nulla. Gli uomini si arrovellano in tutti i loro vecchi problemi; continuano fra loro le lotte, le divisioni, i dolori e la morte. La parola di Gesù, in realtà, non cambia nulla. Che importanza può avere una piccola speranza, la consolazione di pochi individui o un paio di miracoli sperduti in un mondo carico d'angosce, d'impurità, di sofferenza e di morte? Ebbene, a questi interrogativi rispondono le parabole.
A coloro che dicono che nulla è cambiato Gesù risponde che il piccolo seme è stato già gettato nel solco della terra. A coloro che dicono che la pasta è quella di sempre risponde che il lievito sta già facendola fermentare e la sta rinnovando tutta dal di dentro. Questa affermazione è, da un lato, una fonte di consolazione: sebbene sembri che dominino le forze del male, la vittoria decisiva è già stata iniziata; ha cominciato a realizzarsi il mondo nuovo e nulla potrà soffocarlo o sopprimerlo. Per i nemici che lo attaccano accennando all'importanza insignificante della sua opera, la parola di Gesù contiene una velata minaccia: anche se non la volete accettare, la verità del regno sta operando e trasforma tutto in modo tale, che dovrete vedere (o subire) la sua gloria.
Per comprendere queste parabole, è necessario che teniamo conto di due elementi importanti: a) la crescita del seme non è vista come un fenomeno naturale, sottomesso a leggi biologiche precise. Importa fondamentalmente il simbolo d'un granello che. pur essendo piccolo, si trasforma e fruttifica per la forza di Dio che agisce nel mondo. Orbene, una forza simile, ma infinitamente più potente, è quella che agisce nel messaggio del regno di Gesù; b) in secondo luogo dobbiamo considerare che, nella nostra situazione di credenti, il seme del regno gettato nel solco della terra è Gesù stesso, il Cristo, nel suo destino di morte e risurrezione. Gesù è il vero lievito che fa fermentare dal di dentro la massa della storia degli uomini. Il finale è velato: il trionfo è ancora nascosto, ma nel fondo di tutto agisce ormai il seme (o il lievito) che trasforma l'esistenza degli uomini e la realtà del cosmo.

La Parabola - Alice Baum (Prontuario della Bibbia): Genere retorico nel quale un determinato pensiero viene illustrato servendosi di un’immagine. Il termine greco parabolē usato nel Nuovo Testamento significa accostamento. Nelle parabole vengono accostate due realtà, una religiosa, la “metà oggettiva”, e una tratta dalla vita quotidiana dell’uomo, la “metà illustrativa”. Laddove la metà oggettiva, ciò che veramente la parabola vuol dire, rimane il più delle volte inespressa. L’uditore, o il lettore, la deve ricavare lui stesso dalla metà illustrativa. Così per esempio nella parabola del seme che spunta da solo (Mc 4,26-29) la metà oggettiva va completata con l’immagine: il regno di Dio viene in maniera così inarrestabile come la messe dopo la semina.
La parabola va distinta dall’allegoria. Mentre in un’allegoria ogni tratto dell’immagine ha un significato proprio, a ciò che è presentato nella parabola corrisponde un’unica realtà religiosa.
Nei discorsi di Gesù in parabola possiamo distinguere tre diverse forme. La parabola vera e propria si serve di un procedimento, o di un dato di fatto per esprimere una verità religiosa (parabola del granello di senape, la pecora smarrita e altre). La cosiddetta parabola è una storia inventata che racconta un caso singolo, talvolta fuori del comune (dieci vergini, Mt 25,1-13; figlio prodigo - o meglio: padre amorevole -, Lc 15,11- 32). Nel racconto esemplare non viene traslata un’immagine o una storia nella realtà religiosa, “ma un pensiero religioso-morale viene illustrato per mezzo di un caso singolo”. Non si tratta tanto della conoscenza della verità, quanto del retto agire (buon samaritano, Lc 10,30-37; fariseo e pubblicano, Lc 18,9-14). Le parabole di Gesù fanno parte dello  “strato originario della tradizione”. Per i suoi uditori non erano nulla di nuovo.
Le si trovano anche nell’Antico Testamento e nell’insegnamento rabbinico. Nuovo era il contenuto: il regno di Dio che viene e la pretesa di Gesù di esserne il portatore. Le parabole rispecchiano l’ambiente palestinese in maniera così chiara che non si può dubitare della loro autenticità. Una spiegazione obiettiva non è tuttavia possibile se non si tiene presente che le parabole hanno un triplice Sitz im Leben, vale a dire vanno comprese a partire da tre diverse situazioni: l’annuncio di Gesù, la vita della chiesa primitiva e la prospettiva teologica del singolo evangelista.

Giovanni Paolo II (Udienza Generale, 4 Novembre 1987): L’instaurazione del regno di Dio nella storia dell’umanità è lo scopo della vocazione e della missione degli apostoli - e quindi della Chiesa - in tutto il mondo (cf. Mc 16,15; Mt 28,19-20). Gesù sapeva che questa missione, al pari della sua missione messianica, avrebbe incontrato e suscitato forti opposizioni. Fin dai giorni dell’invio nei primi esperimenti di collaborazione con lui, egli avvertiva gli apostoli: “Ecco: io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe” (Mt 10,16).
Nel testo di Matteo è condensato anche ciò che Gesù avrebbe detto in seguito sulla sorte dei suoi missionari (cf. Mt 10,17-25); tema sul quale egli ritorna in uno degli ultimi discorsi polemici con “scribi e farisei”, ribadendo: “Ecco io vi mando profeti, sapienti e scribi; di questi alcuni ne ucciderete e crocifiggerete, altri ne flagellerete nelle vostre sinagoghe e li perseguiterete di città in città ...” (Mt 23,34). Sorte che del resto era già toccata ai profeti e ad altri personaggi dell’antica alleanza, ai quali accenna il testo (cf. Mt 23,35). Ma Gesù dava ai suoi seguaci la sicurezza della durata dell’opera sua e loro: “et portae inferi non praevalebunt ...”.
Malgrado le opposizioni e contraddizioni che avrebbe conosciuto nel suo svolgersi storico, il regno di Dio, instaurato una volta per sempre nel mondo con la potenza di Dio stesso mediante il Vangelo e il mistero pasquale del Figlio, avrebbe sempre portato non solo i segni della sua passione e morte, ma anche il suggello della potenza divina, sfolgorata nella risurrezione. Lo avrebbe dimostrato la storia. Ma la certezza degli apostoli e di tutti i credenti è fondata sulla rivelazione del potere divino di Cristo, storico, escatologico ed eterno, sul quale il Concilio Vaticano II insegna: “Cristo, fattosi obbediente fino alla morte e perciò esaltato dal Padre (cf. Fil 2, 8-9), entrò nella gloria del suo regno; a lui sono sottomesse tutte le cose, fino a che egli sottometta al Padre se stesso e tutte le creature affinché Dio sia tutto in tutti (cf. 1 Cor 15, 27-28)” (Lumen Gentium, 36).

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** “Il Regno che deve venire è il mondo come Dio lo sogna.” (Ermes Ronchi).
Nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Signore, questo sacramento della nostra fede
compia in noi ciò che esprime
e ci ottenga il possesso delle realtà eterne,
che ora celebriamo nel mistero.
Per Cristo nostro Signore.