XVIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO
Es 16,2-4.12-15 ; Sal 77 (78); Ef 4,17.20-24; Gv 6,24-35
Colletta: Mostra la tua continua benevolenza, o Padre, e assisti il tuo popolo, che ti riconosce creatore e guida; rinnova l’opera della tua creazione e custodisci ciò che hai rinnovato. Per il nostro Signore Gesù Cristo.
I Lettura: L’episodio raccontato nella prima lettura conserva alcuni elementi di tradizione jahvista in un insieme di tradizione sacerdotale. La manna e le quaglie, riunite nello stesso racconto, pongono però alcune difficoltà. La manna, raccolta nei mesi di maggio-giugno, è una secrezione di insetti che vivono su certe tamerici, ma solo nella regione centrale del Sinai. Le quaglie, sfinite dalla traversata del Mediterraneo di ritorno dalla loro migrazione in Europa, verso settembre, si abbattono in grande quantità sulla costa, a nord della penisola, spinte dal vento di ovest (Cf. Num 11,31). Questo racconto può quindi aver combinato i ricordi di due gruppi che hanno lasciato separatamente l’Egitto e i cui itinerari furono diversi (Cf. Es 7,8; 11,1; 13,17). Difficoltà che in ogni caso servono a mettere in evidenza la Provvidenza squisitamente paterna di Dio per il suo popolo. La manna diventerà, per la tradizione cristiana, la figura dell’eucaristia, nutrimento spirituale della Chiesa, il vero Israele, durante il suo esodo terrestre.
II lettura: Paolo invita i cristiani di Efeso a rinnovarsi nello spirito della loro mente e a rivestire l’«uomo nuovo», Cristo Gesù (Cf. Ef 2,15), per essere ricreati in lui (Cf. Gal 3,27; Rom 13,14 ).
Vangelo: Alla folla, affamata di pane e di «segni» analoghi a quello della manna (6,30-31), Gesù ha manifestato il suo potere divino con la moltiplicazione dei pani (6,1-15), ai discepoli camminando sul mare (6,16-21), ora, con il discorso del pane della vita, rivela la sua identità (6,22-59). Gesù, invitando i giudei a darsi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna, li esorta a darsi da fare a credere in Lui, pane vero disceso del cielo. Come la Sapienza invita gli uomini a mangiare il suo pane e a bere il suo vino (Cf. Pr 9,1-6; Sir 24,19-22), così Gesù invita a mangiare la sua carne, il pane vero che dà la vita al mondo e a bere il suo sangue, «versato per tutti gli uomini, in remissione dei peccati» (Mt 26,28). Gesù, Sapienza increata, invita la folla a porsi alla sua sequela: Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai! Solo Gesù può dare un cibo e una bevanda veramente capaci di donare la vita eterna, in quanto superano la fragilità temporale e creaturale.
Dal Vangelo secondo Giovanni 6,24-35: In quel tempo, quando la folla vide che Gesù non era più là e nemmeno i suoi discepoli, salì sulle barche e si diresse alla volta di Cafàrnao alla ricerca di Gesù. Lo trovarono di là dal mare e gli dissero: «Rabbì, quando sei venuto qua?». Gesù rispose loro: «In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo». Gli dissero allora: «Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?». Gesù rispose loro: «Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato». Allora gli dissero: «Quale segno tu compi perché vediamo e ti crediamo? Quale opera fai? I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto, come sta scritto: “Diede loro da mangiare un pane dal cielo”». Rispose loro Gesù: «In verità, in verità io vi dico: non è Mosè che vi ha dato il pane dal cielo, ma è il Padre mio che vi dà il pane dal cielo, quello vero. Infatti il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo». Allora gli dissero: «Signore, dacci sempre questo pane». Gesù rispose loro: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!».
Io sono il pane della vita - La folla sazia del pane miracoloso (Cf. Gv 6,1ss), affascinata dalla parola del Maestro (Cf. Lc 19,48), conquistata dalla dolcezza di Gesù (Cf. Mt 11,28-30), si mette alla ricerca del giovane Rabbi. Un entusiasmo non gradito, così invece di accoglienza trova un rimprovero: «Gesù rimprovera al popolo, che lo cerca, la incomprensione del miracolo come segno in cui leggere mediante la fede la rivelazione della sua persona. La loro comprensione è ancora solo naturale, materiale» (Giuseppe Segalla).
Al rimprovero segue una esortazione: Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna. Queste parole allargano gli angusti spazi spirituali del giudaismo: il pane, alimento che perisce, dà soltanto una vita che muore, il pane che il Figlio dell’uomo darà agli uomini spalanca le porte dell’eternità. L’eternità insegnata da Cristo era certamente una categoria religiosa assai lontana dalla teologia dei sadducei e dei farisei, anche se quest’ultimi, a differenza dei primi, credevano nella risurrezione.
Il Figlio dell’uomo darà questo pane perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo. Forse è un riferimento al Battesimo ricevuto da Giovanni nel fiume Giordano: potrebbe riferirsi alla voce del Padre che rivela al mondo Gesù come Figlio suo prediletto (Cf. Mt 3,17), oppure allo Spirito Santo disceso su di lui appena battezzato (Cf. Mt 3,16; Rom 4,11), potenza di Dio per effettuare i «segni» (Cf. Mt 12,28; At 10,38; Ef 1,13.30; 2Cor 1,22).
Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio? I giudei ammettono la loro ignoranza: comprendono la necessità di lavorare per avere il pane terreno, comprendono che devono darsi da fare per il cibo che rimane per la vita eterna, ma non conoscono le condizioni che Dio pone per concederlo. Qui gioca molto la loro mentalità legalista, credono che Dio ponga un prezzo ai suoi doni e credono di poterlo pagare osservando qualche regola o precetto. Praticamente, una sorta di baratto, così come erano avvezzi a credere e a insegnare a motivo di una imperfetta educazione religiosa.
La correzione non tarda ad arrivare. L’amore di Dio e i suoi doni sono gratuiti. L’opera che Gesù vuole è unica: credere in lui.
Ma chi è Gesù perché possano credere in lui? Per i giudei non basta la moltiplicazione dei pani, ed è poca cosa che in un convito nuziale abbia mutato l’acqua in vino, per credere in lui ora vogliono qualcosa di più. Se vuole accreditarsi come Messia rinnovi i prodigi dell’esodo. Come Mosè, Gesù dia al popolo da mangiare un pane dal cielo. Questo è il segno tangibile che i giudei chiedono, perché vedano e possano credere in lui.
«La risposta di Gesù è tagliente: la loro fede [dei giudei] è illusoria. Soltanto suo Padre dà il vero pane del cielo. La manna è cosa del passato; il pane di Dio è presente, una comunicazione permanente di vita che egli dona al mondo. Questo pane scende dal cielo, come la manna pioveva dall’alto, ma senza cessare; e non si limita a dar vita a un popolo, ma all’umanità intera. Dato che è Gesù a dare questo pane [Gv 6,27], si afferma qui la comunicazione continua della vita di Dio all’uomo attraverso Gesù» (J. Mateos - J. Barreto).
Gesù sottolinea che il datore del pane del cielo è Dio e non Mosé e chiamandolo Padre mio si prepara ad identificarsi con il pane di Dio.
A queste parole, i giudei mostrano allegrezza, felici di aver trovato un tesoro senza la necessità di lavorare, e così chiedono di ricevere il pane del cielo. Poiché hanno omesso la condizione posta dal giovane Rabbi, e siccome Gesù non accetta le scorciatoie, ribadisce che soltanto lui è il pane della vita e per riceverlo bisogna credere in lui. Questa è l’unica condizione posta dal Padre e dal Figlio perché l’uomo non abbia più a soffrire la fame e la sete. La risposta di Gesù si oppone nettamente a quanto dice di se stessa la Sapienza: «Quanti si nutrono di me avranno ancora fame e quanti bevono di me avranno ancora sete» (Sir 24,21).
Solo Gesù, pane della vita, può soddisfare pienamente l’uomo, nell’anima e nel corpo: risuscitandolo certamente dalla morte e aprendolo alla contemplazione della luce della Trinità.
Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà - Marco Galizzi (Vangelo secondo Giovanni): «Datevi da fare (letteralmente: «operate, lavorate») non per il cibo che perisce, ma per il cibo che rimane per la vita eterna, quello che il Figlio dell’uomo vi darà» (6,27). Gesù ha messo a confronto due cibi: uno che perisce, uno che è sorgente di vita eterna. E la gente, sentendo che bisogna «darsi da fare» per ottenerlo, subito pensa alle molte opere che la Legge prescriveva per avere la vita (Dt 30,15-16). La domanda che fanno a Gesù sembra ovvia: «Che cosa dobbiamo fare per compiere le opere che Dio esige da noi?» (6,28). Com’è difficile buttare giù una mentalità legalista, una concezione della vita che impedisce all’uomo di aprirsi al «dono»! Ebbene, Gesù tenta di farlo e indica la condizione per entrare nel definitivo disegno salvifico di Dio. L’opera che Dio, oggi, esige è una sola: credere in colui che egli ha mandato (6,29). La gente capisce che Gesù sta parlando di sé e che non è possibile compiere l’opera di Dio e avere il nutrimento di vita eterna senza una totale adesione a lui per qualcosa che non può dare ora, ma che darà più tardi, quale Figlio dell’uomo (6,27). Per ora debbono credere che la darà e i segni miracolosi da lui compiuti sono più che sufficienti per dire che Dio Padre ha messo su di lui il suo sigillo (6,27). A questo punto la gente non ci sta. La posta in gioco è troppo alta. Ci vuole ben altro per credere, e glielo dicono: «Quale segno prodigioso fai tu? Puoi forse ripetere il miracolo della manna, secondo quanto c’è scritto: Diede loro da mangiare pane dal cielo?». Nel testo biblico (Es 16,15) il verbo «diede» ha come soggetto Dio. Gesù, invece, suppone «Mose» come soggetto. Se Gesù corregge, significa che la gente lo sta mettendo a confronto con Mose, mentre egli vuole parlare loro dell’agire di Dio (Gesù lo chiama: il Padre mio) che «vi darà il vero pane dal cielo». Potrebbe aggiungere «ve lo dà, perché Dio ha tanto amato il mondo» (Gv 3,16).
Essere disposti a perdere tutto per guadagnare Cristo - Guerric d’Igny, Sermo de resurrect., 2, 3: Uomini avidi! Perché restate avvinti al desiderio di guadagno? Perché non apprendere l’arte? Perché non disprezzate ciò che è privo di valore, o meglio, svantaggio e sozzura, per guadagnare Cristo? “Perché spendete denaro per ciò che non è pane e il vostro patrimonio per ciò che non sazia?” (Is 55,2). A me sembra che ai vostri occhi “il pane disceso dal cielo per dare la vita al mondo” (Gv 6,33) abbia meno valore del vostro denaro!... Se l’avaro stimasse almeno la propria persona più preziosa della propria fortuna! Se potesse non mettere in vendita la propria anima per amore del denaro, e fintanto che resta in vita, non strapparsi le viscere (cf. Sir 10,10)! È per contro un commerciante avveduto, un esperto attento al valore delle cose, colui che - parlo evidentemente di Paolo - stimava che la propria anima - ovvero la vita animale e sensibile - non valesse più di lui (cf. At 20,24), e cioè del suo spirito, con il quale costituiva un tutt’uno e per il quale aderiva a Cristo. Era pronto a perdere la sua anima, al fine di poterla conservare per la vita eterna (cf. Gv 12,25).
Accompagna con la tua continua protezione, o Signore,
i tuoi fedeli che nutri con il pane del cielo,
e rendi degni della salvezza eterna
coloro che non privi del tuo aiuto.
Per Cristo nostro Signore.