1 Aprile 2019

Lunedì della IV Settimana di Quaresima


Oggi Gesù ci dice: “Cercate il bene e non il male, se volete vivere, e il Signore sarà con voi. (Cfr. Am 5,14 - Acclamazione al Vangelo).

Dal Vangelo secondo Giovanni 4,43-54: Gesù abbandona la Samaria: in questa terra ostica e pagana, ad una donna aveva rivelato di essere il Messia, e i samaritani avevano accolto con gioia la parola del giovane rabbi di Nazareth: «Molti Samaritani di quella città credettero in lui per la parola della donna, che testimoniava: “Mi ha detto tutto quello che ho fatto”. E quando i Samaritani giunsero da lui, lo pregavano di rimanere da loro ed egli rimase là due giorni. Molti di più credettero per la sua parola e alla donna dicevano: “Non è più per i tuoi discorsi che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo”» (Gv 4,39-42).
Credono per la sua parola: “non c’è bisogno di miracoli per aderire a Cristo e credere nella sua missione [4,48]; la parola che ci trasmette da parte di Dio [12,49] deve essere sufficiente per convertirci [6,66-69; 15,22]” (Bibbia di Gerusalemme).
Giunto a Cana di Galilea, la sua compassione verso i malati lo muove a pietà ed esaudisce la preghiera di un funzionario del re, “gli chiedeva di scendere a guarire suo figlio, perché stava per morire”.
Accoglienza che non è scevra da un aperto rimprovero: “Se non vedete segni e prodigi, voi non credete»”.
Il racconto evangelico si chiude felicemente: la conversione di questa famiglia è un seme di speranza, è il fuoco nascosto sotto la cenerà che divamperà subito dopo la morte e la risurrezione di Gesù. Molti crederanno in Gesù, si convertiranno, lo seguiranno una pletora di discepoli lo seguirà fin sulla Croce, immolando, soci di Cristo, la loro vita per la conversione e salvezza del mondo.

Vi era un funzionario del re, che aveva un figlio malato a Cafàrnao - Alain Marchadur (Vangelo di Giovanni): La situazione angosciosa (vv. 46-47). Da Cana a Cafarnao ci sono circa venticinque chilometri. Il padre del ragazzo malato è designato con una parola che caratterizza spesso una persona di sangue reale, o semplicemente al servizio di un re (qui Erode il tetrarca). Può essere anche un soldato: in questo caso, non sarebbe un giudeo. Suo figlio è dunque lontano e sta per morire (vv. 47-49).
Il dialogo (vv. 48-50). Alla supplica dell’uomo, Gesù risponde con una massima più generale sulla fede imper­fetta di quelli che vogliono «segni e prodigi» (espressione frequente nell’Antico Testamento che si rivolge qui a una fede troppo legata alla spettacolarità). Per mettere alla prova la fede dell’uomo, Gesù prende le distanze dalla sua domanda, come aveva fatto con la propria madre (2,4). Alla seconda richiesta dell’uomo, Gesù risponde accordandogli non la sua presenza, ma la sua parola: «Va’! Tuo figlio vive» (v. 50). L’uomo credette alla parola, il che lo distingue dagli scettici del versetto 48.
Il miracolo accertato (vv. 51-53). L’efficacia della parola di Gesù è verificata: nell’ora in cui Gesù diceva «tuo figlio vive», il ragazzo viveva. Da allora il funzionario regio credette in maniera assoluta, nza riserve e incondizionatamente (con la sua famiglia al completo).
Conclusione (v. 54). La fine del racconto si ricollega al primo segno di Cana, come già l’inizio (v. 46). La struttura dei due miracoli è del resto molto simile: Gesù arriva in Galilea; gli viene fatta una richiesta; a prima vista, egli sembra rifiutare; l’interlocutore di Gesù insiste nella sua domanda; Gesù compie allora un segno clamoroso; ne consegue la fede di un gruppo più numeroso. Nessun discorso commenta il miracolo che si realizza nel mistero e nel segreto.
Intento teologico di Giovanni. Questo segno è descritto chiaramente come un’opera indiscutibile di Gesù, al pari della guarigione del cieco (cap. 9) a della risurrezione di Lazzaro (cap. 11). Il segno è constatato da parecchie persone. Gesù è veramente il Signore della vita, la luce del mondo. Bisogna però andare oltre la dimensione prodigio a dei segni per giungere a una fede totale nel ignare: si deve superare la fede legata ai segni per accedere alla ala fede, la fede nella parola di Gesù.

Va’, tuo figlio vive - Marco Galizzi (Vangelo secondo Giovanni): Per due volte si ripete: «Il tuo bambino vive... Il figlio tuo vive»: e questo viene chiamato «segno» (4,54). Come la prima volta a Cana. è rivelazione della gloria di Gesù, qui di Gesù donatore di vita.
Un bambino riceve di nuovo la vita, rivive. Nella dinamica del vangelo questo è «segno» che Gesù può davvero donare «la vita eterna», cioè la vita definitiva a chi crede in lui, a chi accoglie la sua testimonianza, a chi lo accetta come il definitivo Rivelatore di Dio, come colui che Dio ha mandato «perché chiunque crede in lui - nel Figlio - abbia la vita eterna» (3,19.36). E questa è ora la situazione dell’ufficiale regio e di tutta la sua famiglia: Egli credette, e tutta la sua famiglia. «Credette», detto cosi senza spiegazione alcuna indica adesione totale a Gesù. Il discepolo è colui che crede.
«Venne tra la sua gente». La maggioranza non lo accolse, ma alcuni lo accolsero e si aprirono al dono di Dio. È una verità che vale in modo particolare per Israele, ma anche per il mondo intero (vedi 3,16-21).

La malattia - Gaetano Favaro: La malattia nella tradizione ebraico-cristiana è una delle for­me del male e del dolore che col­piscono l’esistenza. Dio non vuole la malattia, perché quello che ha fatto è buono (Gn 1,31; Sap 1,13-14) ed egli è amante della vita (Sap 11,26). La malattia è, in ultima analisi, legata a una caduta dell’uomo (Gn 3) e può indurre l’uomo a interrogare Dio e a vederlo come un avversario crudele (Gb 10,16-17). Dio non dà una risposta esauriente ai problemi speculativi sul male dell’esistenza, ma conduce l’uomo a intuire la sua bontà anche nell’esperienza della malattia e del dolore (Gb 42,5). Gesù è venuto per liberare l’uo­mo da ogni male (Mc 5), perdona il peccato e guarisce dalle malat­tie (Mc 2,1-12); egli nega che la malattia sia dovuta al peccato della persona che ne è colpita (Gv 9). Le guarigioni di Gesù sono un segno della sua vittoria su Satana, il peccato e la morte (Lc 13,10-17) e dell’irruzione del Regno di Dio. A questa missione egli ha associato gli apostoli e i discepoli (Lc 10,9; Mt 10,1; Mc 6,13; Lc 9,1-6; Mc 16,17s.). Anche Giacomo (Gc 5,14), Paolo (1Cor 12,28-30) e la Chiesa apostolica hanno assunto tale orientamento (cfr. At 3,11ss.; 9,32ss.; 14,8ss.; 19,11s). In questo contesto la guarigione e la salute richiamano e rimandano alla salvezza degli ultimi tempi (Col 1,24; Rm 8,19-21). La risurrezione di Cristo è il segno escatologico della méta verso cui la storia è orientata. Gli esseri umani, creati a immagine di Cristo, sono chiamati a partecipare alla pienezza della vita del Risorto. Malattia e salute sono mistero perché rimandano a una totalità che supera l’oggetto delle analisi sperimentali. La malattia rivela il continuo morire dell’uomo e offre al credente ulteriori possibilità di salvezza totale, di senso e di speranza che vanno al di là del desiderio di vita.

L’ospedale ha sempre qualcosa del Calvario - Giovanni Paolo II (Insegnamenti, 4 Febbraio 1985). Ogni grave malattia solitamente attraversa periodi di scoraggiamento radicale, nei quali sorge la domanda sul perché della vita, proprio perché ci si sente da essa sradicati. In queste circostanze, la presenza silenziosa e orante degli amici ci sostiene fermamente. Ma in ultima istanza solo l’incontro con Dio sarà in grado di rivolgere anche al cuore più profondamente ferito ineffabili parole di speranza.
Quando noi, come Gesù, afflitti dalla nostra situazione, gridiamo interiormente: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Sal 22,2), solo da lui possiamo ricevere la risposta che acquieta e conforta a un tempo. È la consolazione che riscontriamo nel servo di Dio in mezzo al dolore: “Quando offrirà se stesso in espiazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore” (Is 53,10).
La croce di Cristo proietta pertanto un raggio di luce sul mistero del dolore umano; solo nella croce l’uomo può avere una risposta all’angustiato appello che nasce dal cuore di chi soffre. Lo hanno ben compreso i santi, che hanno saputo accettare il dolore e, talvolta, lo hanno ardentemente desiderato per associarsi alla passione del Signore, facendo proprie le parole dell’apostolo: “Completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Col 1,24). Identificato con Cristo sulla croce l’uomo può sperimentare che il dolore è un tesoro e la morte un guadagno (Fil 1,2); può verificare come l’amore dignifica, rende dolce il dolore e redime (cfr. “Salvifici Doloris”, 24).
Questa è la consolazione dei credenti, quando la grazia di Dio ci fa vivere di fede, sorregge la nostra speranza e infiamma la nostra carità. così diviene già realtà in noi la liberazione che ci ha ottenuto Gesù, giacché, in maniera misteriosa ma efficace, in un certo senso, la morte diventa vita per noi. E’ la morte generosa del grano che produce il raccolto abbondante della redenzione (cfr. Gv 12,24). È ciò che esprime il cantico di Isaia in modo così vivo: “Dopo il suo intimo tormento... il giusto mio servo giustificherà molti... perciò io gli darò in premio le moltitudini” (Is 53,11.12). L’ospedale ha sempre qualcosa del Calvario, poiché, unite al sacrificio del Redentore, vi si offrono le vite per la redenzione del mondo: come Gesù, il nostro “Agnello immolato” (cfr. Ap 5,6) offri la sua al Padre per tutti noi peccatori, e per quanti soffrono e si associano alla sua sofferenza e al mistero della sua redenzione.

Benedetto XVI (Messaggio, 21 Novembre 2010): Cari ammalati e sofferenti, è proprio attraverso le piaghe del Cristo che noi possiamo vedere, con occhi di speranza, tutti i mali che affliggono l’umanità. Risorgendo, il Signore non ha tolto la sofferenza e il male dal mondo, ma li ha vinti alla radice. Alla prepotenza del Male ha opposto l’onnipotenza del suo Amore. Ci ha indicato, allora, che la via della pace e della gioia è l’Amore: “Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri” (Gv 13,34). Cristo, vincitore della morte, è vivo in mezzo a noi. E mentre con san Tommaso diciamo anche noi: “Mio Signore e mio Dio!”, seguiamo il nostro Maestro nella disponibilità a spendere la vita per i nostri fratelli (cfr 1Gv 3,16), diventando messaggeri di una gioia che non teme il dolore, la gioia della Risurrezione.
San Bernardo afferma: “Dio non può patire, ma può compatire”. Dio, la Verità e l’Amore in persona, ha voluto soffrire per noi e con noi; si è fatto uomo per poter compatire con l’uomo, in modo reale, in carne e sangue. In ogni sofferenza umana, allora, è entrato Uno che condivide la sofferenza e la sopportazione; in ogni sofferenza si diffonde la consolatio, la consolazione dell’amore partecipe di Dio per far sorgere la stella della speranza (cfr Lett. enc. Spe salvi, 39).
A voi, cari fratelli e sorelle, ripeto questo messaggio, perché ne siate testimoni attraverso la vostra sofferenza, la vostra vita e la vostra fede.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
**** “Dio non può patire, ma può compatire”.
Questa parola cosa ti suggerisce?
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: O Dio, che rinnovi il mondo con i tuoi sacramenti, fa’ che la comunità dei tuoi figli si edifichi con questi segni misteriosi della tua presenza e non resti priva del tuo aiuto per la vita di ogni giorno. Per il nostro Signore Gesù Cristo...
 



31 Marzo 2019

Quarta Domenica di Quaresima


Oggi Gesù ci dice: «Rallégrati, figlio mio, perché tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». (Lc 15,32 - Antifona alla comunione)

I Lettura - Gs 5,9a.10-12 «Ho allontanato da voi l’infamia dell’Egitto»: poiché questo testo va compreso alla luce dell’ordine divino di circoncidere gli Israeliti (Cf. Gs 5,2), l’«infamia» consisteva nell’essere non circoncisi. La circoncisione fu imposta ad Abramo dal Signore come segno dell’alleanza che Egli concludeva con il suo popolo (Cf. Gen 17,9-27). Osservata dai patriarchi (Cf. Gen 31,13-24) e ripresa dopo l’entrata nella Terra promessa, acquistò tutta la sua importanza solo a partire dall’esilio (Cf. 1Mac l,60ss; 2Mac 6,10). La Pasqua, un’antica festa celebrata dai pastori durante la transumanza, nel libro dell’Esodo viene messa in relazione con la decima piaga, la morte dei primogeniti egiziani, e l’uscita dall’Egitto. La Pasqua ebraica, memoriale della liberazione dalla schiavitù egiziana, nel Nuovo Testamento, da Gesù viene insignita di un nuovo e profondo significato: la liberazione dal peccato e dalla morte.

Salmo Responsoriale: Dal Salmo 33 (34): Messaggio di gioia e di speranza di un umile agli altri umili, del povero del Signore agli altri poveri. Ad essi egli racconta la sua meravigliosa esperienza di Dio. Credete a me, egli dice, io ho cercato il Signore, ed egli mi ha risposto davvero: io, questo povero, grido, e trovo nientemeno che il Signore ad ascoltarmi. Su, fate la prova anche voi: toccherete con mano quanto è buono il Signore! Egli è vicino a chi ha il cuore ferito, egli salva gli spiriti affranti.

I Lettura - 2Cor 5,17-21: Essere «creatura nuova» è un dono del tutto gratuito «che viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo». Con il dono della sua vita, Gesù libera l’uomo dalla morte e dal peccato, rendendolo «creatura nuova». In virtù del sacrificio di Cristo e del dono dello Spirito Santo, gli uomini non sono più schiavi, ma figli ed «eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo» (Rom 8,17).

Vangelo - Dal Vangelo secondo Luca 15,1-3.11-32: Luca, con le parabole della pecora e della dramma perdute e ritrovate e del figlio prodigo, vuole annunciare ai suoi lettori la misericordia di Dio per i peccatori: tre parabole «nelle quali Gesù descrive con vivezza l’infinita e paterna misericordia di Dio, nonché la sua gioia per la conversione del peccatore. Il Vangelo insegna che nessun uomo viene escluso dal perdono, e che i peccatori possono diventare figli diletti di Dio per mezzo del pentimento e della conversione. E tanto fortemente Dio desidera la conversione dei peccatori, che tutte e tre le parabole terminano con parole che esprimono, a mo’ di ritornello, la grande gioia che vi sarà in cielo per ogni peccatore pentito» (La Bibbia di Navarra).

La parabola del figlio perduto e del figlio la si trova soltanto nel Vangelo di Luca, ed è preceduta dalla parabola della “pecora perduta” e della moneta perduta”. I personaggi sono abbastanza riconoscibili: il figlio perduto è tutta quella massa di popoli considerati pagani e chi di lì a poco sarebbero entrati nella Chiesa di Gesù, e questo subito dopo la morte, la risurrezione di Cristo e il dono dello Spirito Santo nel giorno della festa di Pentecoste.
Il figlio fedele, e anche villano, è il popolo d’Israele, qui ben rappresentato dai farisei e scribi i quali, come perenne litania, mormoravano di Cristo “dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro»” (Lc 15,2), e a loro è rivolta la parabola Lc 15,3).
V’è da sottolineare che la conversione del figlio più giovane parte dallo stomaco vuoto: “Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre.” (Lc 15,16-20). Veramente le vie che Dio usa per raggiungere il cuore dell’uomo sono infinite e misteriose, tutto è grazia.
Il padre compassionevole reinserisce il figlio scapestrato nella sua dimora, non come salariato ma come figlio, e il “vestito più bello”, l’“anello”, e i “sandali” mettono in evidenza tale dignità, riacquistata solo per grazia e amore del padre. Ma se facciamo memoria di Zaccaria 1,3-5 abbiamo un altro messaggio, ancora più profondo e pregnante: e come se il padre misericordioso avesse detto al figlio ritrovato: “Ecco, io ti tolgo di dosso il peccato; fatti rivestire di abiti preziosi” (Zc 3,4).
Al termine di questa investitura, viene introdotta la nota stonata, ma scontata, “all’atteggiamento misericordioso del padre, simbolo della misericordia divina, si contrappone nel figlio maggiore l’atteggiamento dei farisei e degli scribi che si lusingano di essere «giusti» perché non trasgrediscono alcun comandamento della Legge [v. 29; cf. 18,9s]” (Bibbia di Gerusalemme). Ma anche loro, alla fine si ravvederanno, riconosceranno i loro errori e si salveranno (Rm 11,1-32).

Si alzò e torno da suo padre - Catechismo della Chiesa Cattolica 1439: Il dinamismo della conversione e della penitenza è stato meravigliosamente descritto da Gesù nella parabola detta «del figlio prodigo» il cui centro è «il padre misericordioso»: il fascino di una libertà illusoria, l’abbandono della casa paterna; la miseria estrema nella quale il figlio viene a trovarsi dopo aver dilapidato la sua fortuna; l’umiliazione profonda di vedersi costretto a pascolare i porci, e, peggio ancora, quella di desiderare di nutrirsi delle carrube che mangiavano i maiali; la riflessione sui beni perduti; il pentimento e la decisione di dichiararsi colpevole davanti a suo padre; il cammino del ritorno; l’accoglienza generosa da parte del padre; la gioia del padre: ecco alcuni tratti propri del processo di conversione. L’abito bello, l’anello e il banchetto di festa sono simboli della vita nuova, pura, dignitosa, piena di gioia che è la vita dell’uomo che ritorna a Dio e in seno alla sua famiglia, la Chiesa. Soltanto il cuore di Cristo, che conosce le profondità dell’amore di suo Padre, ha potuto rivelarci l’abisso della sua misericordia in una maniera così piena di semplicità e di bellezza.

La conversione - Benedetto XVI, Udienza Generale 21 febbraio 2007: Convertirsi, che cos’è in realtà? Convertirsi vuol dire cercare Dio, andare con Dio, seguire docilmente gli insegnamenti del suo Figlio, di Gesù Cristo; convertirsi non è uno sforzo per autorealizzare se stessi, perché l’essere umano non è l’architetto del proprio destino eterno. Non siamo noi che abbiamo fatto noi stessi. Perciò l’autorealizzazione è una contraddizione ed è anche troppo poco per noi. Abbiamo una destinazione più alta. Potremmo dire che la conversione consiste proprio nel non considerarsi i ‘creatori’ di se stessi e così scoprire la verità, perché non siamo autori di noi stessi. Conversione consiste nell’accettare liberamente e con amore di dipendere in tutto da Dio, il vero nostro Creatore, di dipendere dall’amore. Questa non è dipendenza ma libertà. Convertirsi significa allora non inseguire il proprio successo personale - che è una cosa che passa - ma, abbandonando ogni umana sicurezza, porsi con semplicità e fiducia alla sequela del Signore.

Dives in misericordia 6: Nella parabola del figliol prodigo non è usato neanche una sola volta il termine “giustizia”, così come, nel testo originale, non è usato quello di “misericordia”; tuttavia, il rapporto della giustizia con l'amore, che si manifesta come misericordia, viene con grande precisione inscritto nel contenuto della parabola evangelica. Diviene più palese che l'amore si trasforma in misericordia, quando occorre oltrepassare la precisa norma della giustizia: precisa e spesso troppo stretta. Il figliol prodigo, consumate le sostanze ricevute dal padre, merita - dopo il ritorno - di guadagnarsi da vivere lavorando nella casa paterna come mercenario, ed eventualmente, a poco a poco, di conseguire una certa provvista di beni materiali, forse però mai più nella quantità, in cui li aveva sperperati. Tale sarebbe l'esigenza dell'ordine di giustizia, tanto più che quel figlio non soltanto aveva dissipato la parte del patrimonio spettantegli, ma inoltre aveva toccato sul vivo ed offeso il padre con la sua condotta. Questa, infatti, che a suo giudizio l'aveva privato della dignità filiale, non doveva essere indifferente al padre. Doveva farlo soffrire. Doveva anche, in qualche modo, coinvolgerlo. Eppure si trattava, in fin dei conti, del proprio figlio, e tale rapporto non poteva essere né alienato, né distrutto da nessun comportamento. Il figliol prodigo ne è consapevole, ed è appunto tale consapevolezza a mostrargli chiaramente la dignità perduta ed a fargli valutare rettamente il posto, che ancora poteva spettargli nella casa del padre.

Alla luce di questa inesauribile parabola della misericordia - Reconciliatio et Paenitentia 5: La parabola del figlio prodigo è, anzitutto, l’ineffabile storia del grande amore di un Padre - Dio - che offre al figlio, tornato a lui, il dono della piena riconciliazione. Ma essa, nell’evocare, con la figura del fratello maggiore, l’egoismo che divide fra di loro i fratelli, diventa anche la storia della famiglia umana: segna la nostra situazione e indica la via da percorrere. Il figlio prodigo, nella sua ansia di conversione, di ritorno fra le braccia del padre e di perdono, raffigura coloro che avvertono nel fondo della propria coscienza la nostalgia di una riconciliazione a tutti i livelli e senza riserva, e intuiscono con intima certezza che questa è possibile soltanto se deriva da una prima e fondamentale riconciliazione: quella che porta l’uomo dalla lontananza all’amicizia filiale con Dio, del quale riconosce l’infinita misericordia. Letta però nella prospettiva dell’altro figlio, la parabola dipinge la situazione della famiglia umana divisa dagli egoismi, mette in luce la difficoltà di assecondare il desiderio e la nostalgia di una medesima famiglia riconciliata e unita; richiama, pertanto, la necessità di una profonda trasformazione dei cuori nella riscoperta della misericordia del Padre e nella vittoria sull’incomprensione e l’ostilità tra fratelli. Alla luce di questa inesauribile parabola della misericordia che cancella il peccato, la Chiesa, accogliendo l’appello in essa contenuto, comprende la sua missione di operare, sulle orme del Signore, per la conversione dei cuori e per la riconciliazione degli uomini con Dio e fra di loro, due realtà, queste, intimamente connesse.

Papa Francesco (Angelus, 6 Marzo 2016): In questa parabola [del figlio prodigo] si può intravedere anche un terzo figlio. Un terzo figlio? E dove? È nascosto! È quello che «non ritenne un privilegio l’essere come [il Padre], ma svuotò sé stesso, assumendo una condizione di servo» (Fil 2,6-7). Questo Figlio-Servo è Gesù! È l’estensione delle braccia e del cuore del Padre: Lui ha accolto il prodigo e ha lavato i suoi piedi sporchi; Lui ha preparato il banchetto per la festa del perdono. Lui, Gesù, ci insegna ad essere “misericordiosi come il Padre”. La figura del padre della parabola svela il cuore di Dio. Egli è il Padre misericordioso che in Gesù ci ama oltre ogni misura, aspetta sempre la nostra conversione ogni volta che sbagliamo; attende il nostro ritorno quando ci allontaniamo da Lui pensando di poterne fare a meno; è sempre pronto ad aprirci le sue braccia qualunque cosa sia successa. Come il padre del Vangelo, anche Dio continua a considerarci suoi figli quando ci siamo smarriti, e ci viene incontro con tenerezza quando ritorniamo a Lui. E ci parla con tanta bontà quando noi crediamo di essere giusti. Gli errori che commettiamo, anche se grandi, non scalfiscono la fedeltà del suo amore. Nel sacramento della Riconciliazione possiamo sempre di nuovo ripartire: Egli ci accoglie, ci restituisce la dignità di figli suoi e ci dice: “Vai avanti! Sii in pace! Alzati, vai avanti!”.
In questo tratto di Quaresima che ancora ci separa dalla Pasqua, siamo chiamati ad intensificare il cammino interiore di conversione. Lasciamoci raggiungere dallo sguardo pieno d’amore del nostro Padre, e ritorniamo a Lui con tutto il cuore, rigettando ogni compromesso col peccato. La Vergine Maria ci accompagni fino all’abbraccio rigenerante con la Divina Misericordia.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
**** Convertirsi vuol dire cercare Dio, andare con Dio, seguire docilmente gli insegnamenti del suo Figlio, di Gesù Cristo.
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: O Padre, che per mezzo del tuo Figlio operi mirabilmente la nostra redenzione, concedi al popolo cristiano di affrettarsi con fede viva e generoso impegno verso la Pasqua ormai vicina. Per il nostro Signore Gesù Cristo... 

Oppure: O Dio, Padre buono e grande nel perdono, accogli nellabbraccio del tuo amore tutti i figli che tornano a te con animo pentito; ricoprili delle splendide vesti di salvezza, perché possano gustare la tua gioia nella cena pasquale dell'Agnello. Per il nostro Signore Gesù Cristo...



30 Marzo 2019

Sabato Terza Settimana di Quaresima

Oggi Gesù ci dice: “Oggi non indurite il vostro cuore, ma ascoltate la voce del Signore.” (Cfr. Sal 94,8ab - Acclamazione al Vangelo)

Vangelo - Dal Vangelo secondo Luca 18,9-14: Per ben comprendere la parabola del fariseo e del pubblicano bisogna ricordare innanzitutto il rimprovero che Gesù muove ai farisei: “Voi siete quelli che si ritengono giusti davanti agli uomini, ma Dio conosce i vostri cuori: ciò che fra gli uomini viene esaltato, davanti a Dio è cosa abominevole” (Lc 16,15). Questo ci fa conoscere il loro vero DNA: avidi, ipocriti, amanti di lodi e onori umani, professionisti nel cavillare, guide cieche, sepolcri imbiancati (cfr. Mt 23,13-32).
Naturalmente tale descrizione non è l’abito di tutta la congrega dei farisei, tra essi ve ne erano di “buoni”, per esempio Nicodemo o Giuseppe d’Arimatea, i quali si dichiareranno a favore di Cristo.
E infine si deve fare memoria dell’insegnamento di Gesù sulla pratica della giustizia: “State attenti a non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere ammirati da loro, altrimenti non c’è ricompensa per voi presso il Padre vostro che è nei cieli” (Mt 6,1).
Possiamo dire che i protagonisti della parabola: sono l’orgoglio e l’umiltà. L’orgoglio del fariseo nasce dal credersi giusto: è consapevole di far parte di un popolo santo, eletto dalla misericordia di Dio, e poiché corrisponde con assoluta fedeltà a tutte le norme e leggi contenute nella Torah sa bene tenere in ordine il dare e l’avere. In questo modo il fariseo non si dichiara figlio, ma salariato, e siccome è scrupoloso osservante della Legge, pretende, come corrispettivo, l’amicizia, l’amore e il perdono di Dio per tutte le sue malefatte. L’umiltà del pubblicano nasce invece dalla povertà del peccato, ma ha un punto a favore. Confessando i suoi peccati sa che non ha nulla da offrire a Dio, sa che tutto è grazia, ha bene compreso che Dio vuole “l’amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocàusti” (cfr. I Lettura). Il pubblicano ha compreso, a differenza del fariseo, che è perdonato non per le opere da lui compiute, ma esclusivamente dall’amore misericordioso Dio, il quale, come sua eterna abitudine, volge lo sguardo sull’umile e su chi ha lo spirito contrito (Is 66,2).

Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato - Giovanni Cereti: È il termine con cui si indica la salvezza dell’uomo peccatore operata per grazia da Dio in Gesù Cristo: Iddio “ci rende giusti” ci “fa suoi figli adottivi , riconciliati con lui, resi liberi dal peccato per servire e amare. Questo concetto si fonda sul Nuovo Testamento, in particolare sulle Lettere di Paolo ai Galati e ai Romani. A coloro che pensano che la salvezza sia meritata dall’osservanza delle opere della Torà, Paolo oppone che Dio ci salva gratuitamente, comunicandoci la propria santità.
Tale salvezza si compie in virtù della croce di Gesù, del suo sangue, e cioè in virtù del dono che Gesù ha compiuto offrendosi per amore al Padre. Il compito dell’uomo è quello di aprirsi e di abbandonarsi nella fede all’azione gratuita di giustificazione e di salvezza di Dio. Se Paolo insiste sul fatto che siamo salvati per grazia mediante la fede e non per le opere che compiamo, la Lettera di Giacomo ci ricorda che la fede fiorisce nelle opere e che quindi esse costituiscono la prova di una fede viva e autentica. La convinzione che Dio ci rende giusti con la sua grazia che dà origine a un nuovo rapporto dell’uomo con Dio ha sempre costituito un punto fondamentale della concezione cristiana

L’opera di Dio negli umili - M-F. Lacan: Dio guarda gli umili e si china verso di essi (Sal 138,6; 113,6 s); infatti, non gloriandosi che della loro debolezza (2Cor 12,9), essi si aprono alla potenza della sua grazia che, in essi, non è sterile (1Cor 15,10). Non soltanto l’umile ottiene il perdono dei suoi peccati (Lc 18,14), ma la sapienza dell’onnipotente ama manifestarsi per mezzo degli umili che il mondo disprezza (1Cor 1,25.28 s). Quale umiltà in colui che il Signore manda a preparargli la via e che desidera solo scomparire (Gv 1,27; 3,28ss). Di una umile vergine, che non vuole essere che la sua ancella, Dio fa la madre del suo Figlio, nostro Signore (Lc 1,38.43).
Colui che si umilia nella prova sotto la mano onnipotente del Dio di ogni grazia e partecipa agli abbassamenti di Cristo crocifisso, sarà, al pari di Gesù, esaltato da Dio, a suo tempo, e parteciperà alla gloria del Figlio di Dio (Mt 23,12; Rom 8,17; Fil 2,9ss; 1Piet 5,6-10). Con tutti gli umili egli canterà eternamente la santità e amore del Signore che ha fatto in essi grandi cose (Lc 1,46-53; Apoc 4,8-11; 5,11-14).
Nel VT la parola di Dio porta l ‘uomo alla gloria per la via di un’umile sottomissione a Dio, suo creatore e salvatore. Nel NT la parola di Dio si fa carne per condurre l’uomo al culmine dell’umiltà che consiste nel servire Dio negli uomini, nell’umiliarsi per amore al fine di glorificare Dio salvando gli uomini.

... chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato - Giovanni Boggio e Giuseppe Barbaglio (Schede Bibliche Pastorali - Vol. VI): L’orgoglio, l’alterigia e anche la millanteria fanno parte di alcuni cataloghi neotestamentari dei vizi. In Mc 7,22 l’orgoglio è menzionato tra le espressioni malvagie che hanno la loro radice nel cuore dell’uomo, come afferma Gesù. In Rm 1,30 Paolo enumera tra i vizi del mondo pagano, conseguenza immanente del rifiuto di riconoscere il creatore, la superbia e la millanteria. Infine 2Tm 3,2 nel novero degli uomini malvagi mette gli orgogliosi.
Ma il filone più importante del Nuovo Testamento in proposito è la dialettica contrapposizione tra esaltazione orgogliosa e umiliazione imposta da Dio, che invece esalta gli umili. Siamo dunque davanti a un rovesciamento di situazioni causato dalla grazia divina. Così nel canto del Magnificat Maria glorifica il Signore perché «ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili» (Lc 1,51-52). Soprattutto da menzionare è il detto di Gesù: «Chi s’innalza sarà abbassato (da Dio) e chi si abbassa sarà innalzato (da Dio)». Ce lo testimonia Matteo in chiusura dell’esortazione di Gesù ai discepoli di non farsi chiamare né rabbi, né padri, né maestri: «Chi si innalzerà sarà abbassato e chi si abbasserà sarà innalzato» (Mt 23,12). Ma anche Luca lo sfrutta per concludere la parabola degli invitati a pranzo che si contendono i primi posti: «Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato» (Lc 14,11) e come «morale» dedotta dalla parabola del fariseo e del pubblicano: «Perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato» (Lc 18,14).
Simile è l’idea espressa da Gc 4,6 che, rifacendosi espressamente a Pro 3,34 LXX. dice: «Dio resiste ai superbi; agli umili invece dà la sua grazia». Lo stesso passo veterotestamentario viene citato anche da 1Pt 5,5 per motivare l’esortazione ai credenti di essere umili verso gli altri. In 1Tm 6,17 l’autore esorta i ricchi a non essere orgogliosi.
Paolo poi in Rm 11,20 riprende gli orgogliosi credenti di estrazione pagana di Roma perché non si inorgogliscano pensando ai giudei che hanno rifiutato il Vangelo, mentre essi si sono dimostrati fedeli alla chiamata divina: «Dirai certamente: Ma i rami sono stati tagliati perché vi fossi innestato io! Bene; essi sono stati tagliati a causa dell’infedeltà, mentre tu resti lì in ragione della fede. Non montare dunque in superbia, ma temi! Se infatti Dio non ha risparmiato quelli che erano rami naturali, tanto meno risparmierà te!».
Infine sembra di poter menzionare la disputa sorta tra i discepoli storici di Gesù su chi fosse il più grande e il primo e la relativa risposta del maestro: «Fra voi però non è così [come con il re e i grandi del mondo] ; ma chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti» (Mc 10,43-44 e par). Non ricorre alcune termine indicativo del vizio della superbia, ma certo vi è in gioco l’ambizione orgogliosa dei discepoli, cui si contrappone la prospettiva di Gesù.

Tutto è grazia - Gianni Calzani: Nella teologia cristiana, la grazia è l’azione libera e gratuita con cui Dio in Cristo chiama l’uomo alla comunione con sé. Il termine corrispondente al latino gratia è il greco chàris, che traduce abitualmente i termini ebraici chen e chesed. Essi indicano non tanto un singolo gesto di benevolenza, quanto l’atteggiamento di fondo da cui questi gesti scaturiscono.
La fede biblica presenta Dio come “il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà, che conserva il suo favore per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato" (Es 34,6 s.). Questa presentazione parla di Dio come di colui che si china sull’uomo con amore e benevolenza. Questa vicinanza amorosa da una parte ricorda che Dio non rimane semplicemente misterioso e incomprensibile, ma cerca la comunione con l’uomo, e dall’altra ribadisce che in questa comunicazione non solo Dio non è sottomesso all’uomo, ma, nella sua libera e sorprendente iniziativa, ne è il Salvatore. La nozione di grazia indica Dio nel suo comunicarsi, nel suo libero donarsi. La grazia non è una realtà intermedia tra Dio e l’uomo, ma è Dio stesso nel suo libero autocomunicarsi. Dio è un Dio di grazia che trova in se stesso le ragioni della sua misericordia e che, di conseguenza, si mostra benigno e favorevole verso l’uomo. A tal punto l’agire benigno e misericordioso qualifica l’agire di Dio da poter concludere che la benignità è il modo proprio di essere di Dio: la sua stessa potenza è potenza di amore.

Veritatis Splendor 104: Mentre è umano che l’uomo, avendo peccato, riconosca la sua debolezza e chieda misericordia per la propria colpa, è invece inaccettabile l’atteggiamento di chi fa della propria debolezza il criterio della verità sul bene, in modo da potersi sentire giustificato da solo, anche senza bisogno di ricorrere a Dio e alla sua misericordia. Un simile atteggiamento corrompe la moralità dell’intera società, perché insegna a dubitare dell’oggettività della legge morale in generale e a rifiutare l’assolutezza dei divieti morali circa determinati atti umani, e finisce con il confondere tutti i giudizi di valore.
Dobbiamo, invece, raccogliere il messaggio che ci viene dalla parabola evangelica del fariseo e del pubblicano (cf Lc 18,9-14). Il pubblicano poteva forse avere qualche giustificazione per i peccati commessi, tale da diminuire la sua responsabilità. Non è però su queste giustificazioni che si sofferma la sua preghiera, ma sulla propria indegnità davanti all’infinita santità di Dio: «O Dio, abbi pietà di me peccatore» (Lc 18,13). Il fariseo, invece, si è giustificato da solo, trovando forse per ognuna delle sue mancanze una scusa. Siamo così messi a confronto con due diversi atteggiamenti della coscienza morale dell’uomo di tutti i tempi. Il pubblicano ci presenta una coscienza «penitente», che è pienamente consapevole della fragilità della propria natura e che vede nelle proprie mancanze, quali che ne siano le giustificazioni soggettive, una conferma del proprio essere bisognoso di redenzione. Il fariseo ci presenta una coscienza «soddisfatta di se stessa», che si illude di poter osservare la legge senza l’aiuto della grazia ed è convinta di non aver bisogno della misericordia.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
****  Il fariseo ci presenta una coscienza «soddisfatta di se stessa», che si illude di poter osservare la legge senza l’aiuto della grazia ed è convinta di non aver bisogno della misericordia.
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: O Dio, nostro Padre, che nella celebrazione della Quaresima ci fai pregustare la gioia della Pasqua, donaci di approfondire e vivere i misteri della redenzione per godere la pienezza dei suoi frutti. Per il nostro Signore Gesù Cristo...


29 Marzo 2019 

Venerdì Terza Settimana di Quaresima


Oggi Gesù ci dice: “Convertitevi perché il regno dei cieli è vicino.” (Mt 4,17).


Vangelo - Dal Vangelo secondo Marco 12,28b-34: Gesù fonde due comandamenti che sono il cuore del messaggio evangelico. Il primo, “Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”, è già testimoniato nell’Antico testamento, ed era il fondamento della fede del popolo d’Israele, il secondo, “Amerai il tuo prossimo come te stesso”, nell’insegnamento di Gesù, supera il nazionalismo ebraico.
Vi erano delle leggi che suggerivano al popolo eletto di amare lo straniero, o di aiutare, in caso di necessità, il nemico, ma non si spingevano oltre e spesso erano disattese. Gesù apre i confini dell’amore per raggiungere tutta l’umanità, e a ricordarlo saranno le sue braccia spalancate sulla Croce, come se volessero abbracciare l’universo intero. L’insegnamento di Gesù sarà annunciato dagli Apostoli, e da tutti i credenti slanciati nella evangelizzazione del mondo. Nel Nuovo Testamento l’amore avrà i bei colori dell’agape (in latino caritas). A “differenza dell’amore passionale ed egoistico, la carità [agape] è un amore di dilezione che vuole il bene altrui” (Bibbia di Gerusalemme); la caritas è l’amore fraterno, gratuito, disinteressato, e allo stesso tempo è l’amore infinito e paziente di Dio nei confronti dell’umanità. Per l’apostolo Paolo la carità è tra “i carismi più grandi è la via più sublime”: “La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine” (1Cor 4-8).

In quel tempo, si avvicinò a Gesù uno degli scribi e gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?» - Giuseppe Barbaglio: Nel Nuovo Testamento s’impone subito all’attenzione nostra un detto di Gesù che, rispondendo alla domanda di un rabbino circa il comandamento più importante, anzitutto riporta letteralmente dal libro del Deuteronomio il comandamento dell’amore totale di Dio, ma poi aggiunge la citazione del comandamento dell’amore del prossimo di Lv 19,18 (cf. Mt 22,34-40; Mc 12,28-34; Lc 10,25-28). La conclusione del dialogo appare diversa nei tre sinottici: Luca esorta alla pratica dei due comandamenti necessaria per la vita eterna (10,28). Marco fa sussumere il rabbino che mostra il suo accordo con la risposta di Gesù e ne riceve un lusinghiero encomio (12,32-34). Matteo invece riporta il seguente detto conclusivo di Gesù: «Da questi due comandamenti dipende tutta la Legge e i Profeti» (22,40).
Già nell’Antico Testamento era presente la problematica del comandamento più importante. Nello schema della conclusione dell’alleanza era prevista la proclamazione della stipulazione fondamentale che precedeva l’elenco delle condizioni secondarie. Nel Deuteronomio  il comandamento dell’amore di Dio era inteso appunto come stipulazione principale. Gesù dunque nella prima parte della sua risposta non fa che ripetere un luogo tradizionale. Più originale invece si mostra nell’abbinare il comandamento dell’amore del prossimo.
Infatti, è vero che nel giudaismo questa prescrizione del Levitico era intesa come sintesi di tutta la legge e che non erano mancate voci che avevano accostato i due comandamenti. Ma prima di Gesù nessuno li aveva equiparati con tanta chiarezza e forza.
Ma che cosa significa di fatto parlare del comandamento più grande? Vuol dire che le esigenze divine sono ricondotte ad unità. Cristo è venuto come portavoce autorizzato della parola definitiva del Padre all’umanità: parola che, a suo giudizio, ruota attorno al perno dell’amore di Dio è dell’amore del prossimo, Il confronto di chi si apre nella fede alla prospettiva del regno annunciato da Cristo non avviene sulla base di numerose prescrizioni e proibizioni, ma in rapporto a un atteggiamento fondamentale capace di dare coesione alla vita religiosa ed etica della persona.

L’amore come scelta e come dono - Giovanni Cereti: L’amore attinge il suo vertice quando l’uomo, per dono dall’alto, giunge a orientare tutta la propria vita a Dio. Sotto l’azione della grazia, l’uomo che vive nell’amore compie una scelta fondamentale per Dio, e l’approfondisce continuamente. In questo senso l’amore, l’unico amore a Dio e al prossimo, costituisce anche l’anima, la “forma” di tutte le virtù morali, che senza di esso perderebbero ogni valore (1Cor 13,1-1), Esso non costituisce una dimensione a parte nella nostra vita; non esiste una separazione fra un mondo sacro, il mondo del culto e del rapporto con Dio, e un mondo profano, che sarebbe quello dell’esistenza quotidiana. Dio è amato in ogni forma di amore autentico, e in ogni istante e circostanza della nostra vita.
L’amore costituisce così la grande forza di umanizzazione del mondo, la grande energia volta a creare quella pienezza di comunione fra Dio e gli uomini e degli uomini fra loro e con il cosmo, alla quale tende il progetto di Dio per la creazione e per l’umanità. Tutta l’opera di educazione deve essere considerata un’educazione all’amore. L’uomo non nasce infatti già capace di amare. La capacità di amare, sul piano naturale, è il frutto di un processo di graduale maturazione. E nel cammino verso l’amore non si può mai dire di essere giunti al termine. Tutta l’esistenza terrena può essere letta come un grande apprendistato dell’amore, non solo per i singoli, ma per l’intera umanità. La pienezza dell’amore si raggiungerà solo alla conclusione del cammino. L’amore è infatti l’unica realtà della nostra esperienza terrena che secondo la fede cristiana ci accom­pagnerà, trasfigurata, nel mondo nuovo (1Cor 13,8).

La carità contenuto fondamentale della rivelazione - Gianni Colzani: La carità non va vista solo sotto il profilo della prassi, ma anche sotto quello della fede: non è solo un agire trasformante, ma è anche Rivela­zione di Dio e della sua opera salvifica. Non è solo il centro dell’esperienza cristiana, ma anche della Rivelazione di Dio. È Gesù, con la sua morte e risurrezione, a dare volto alla carità: il suo contenuto è quella comunione di vita con il Padre da cui scaturisce il dono di sé ai fratelli. La comunione con il Padre si fa vita nell’attenzione prestata ai piccoli e ai poveri, agli emarginati e ai peccatori: esige un vivere per l’altro fino ad annullare ogni distanza da lui. Attraverso la carità “l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (Rm 5,5). La carità, quindi, e innanzitutto il contenuto fondamentale della Rivelazione. Il criterio per conoscere Dio non è il creato, ma il Vangelo del Regno e della Pasqua, il Vangelo della carità. E la vita di Cristo a rivelarci che la carità è, insieme, singolare prossimità di Dio agli uomini e sua radicale diversità da noi. Nella carità di Gesù, infatti, non è Dio a essere a misura dei nostri bisogni, ma siamo noi a essere a misura della sua volontà di comunione; nella carità di Gesù la trascendenza di Dio è tanto vicina da assumere la nostra finitezza senza che mai, per questo, egli diventi a nostra misura. Alla luce dell’Incarnazione la nostra umanità scopre di avere nel Padre il proprio senso ultimo. Di questa singolare rivelazione della carità divina Gesù è il volto concreto: in lui la carità divina coincide con la libertà di un’esistenza che si fa dono trovandovi la sua pienezza. Questo è il Vangelo di Gesù: poiché il Padre non vive per sé ma donandosi, abbiamo qui ormai la svolta della storia, la svolta del mondo.
Dono di Dio, la carità investe l’uomo di qualcosa che non proviene da lui: attorno alla carità nasce l’uomo nuovo che rende vecchi e superati tutti i precedenti modi di esistere. Ormai solo nella condivisione della carità di­vina, solo in forza della grazia, l’uomo giungerà a realizzare se stesso: da una parte ciò che gli è necessario non gli appartiene ma lo può solo accogliere, dall’altra ciò che gli è donato si inserisce così profondamente in lui da condurlo a pienezza e verità. Di conseguenza, là dove l’uomo si rifiutasse a quella carità che chiarifica e illumina la sua persona, si incamminerebbe inevitabilmente verso l’idolatria, verso la dissoluzione della sua identità di creatura e di figlio di Dio. Sta qui, nella profonda correlazione tra amore divino e struttura umana, il paradosso cristiano della persona.

Deus caritas est 1: «Dio è amore; chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui » (1Gv 4,16). Queste parole della Prima Lettera di Giovanni esprimono con singolare chiarezza il centro della fede cristiana: l’immagine cristiana di Dio e anche la conseguente immagine dell’uomo e del suo cammino. Inoltre, in questo stesso versetto, Giovanni ci offre per così dire una formula sintetica dell’esistenza cristiana: «Noi abbiamo riconosciuto l’amore che Dio ha per noi e vi abbiamo creduto».
Abbiamo creduto all’amore di Dio - così il cristiano può esprimere la scelta fondamentale della sua vita. All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva. Nel suo Vangelo Giovanni aveva espresso quest’avvenimento con le seguenti parole: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui ... abbia la vita eterna» (3,16). Con la centralità dell’amore, la fede cristiana ha accolto quello che era il nucleo della fede d’Israele e al contempo ha dato a questo nucleo una nuova profondità e ampiezza. L’Israelita credente, infatti, prega ogni giorno con le parole del Libro del Deuteronomio, nelle quali egli sa che è racchiuso il centro della sua esistenza: «Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze» (6,4-5). Gesù ha unito, facendone un unico precetto, il comandamento dell’amore di Dio con quello dell’amore del prossimo, contenuto nel Libro del Levitico: «Amerai il tuo prossimo come te stesso» (19,18; cfr Mc 12,29-31). Siccome Dio ci ha amati per primo (cfr 1Gv 4,10), l’amore adesso non è più solo un «comandamento », ma è la risposta al dono dell’amore, col quale Dio ci viene incontro.
In un mondo in cui al nome di Dio viene a volte collegata la vendetta o perfino il dovere dell’odio e della violenza, questo è un messaggio di grande attualità e di significato molto concreto.
 
La carità nella vita del cristiano - Giovanni Moioli (L’esperienza spirituale): Non si tratta semplicemente di essere uomini per gli altri, ma di essere per gli altri come Cristo. A queste condizioni la carità, cioè il dono di se stessi, diventa un gesto sintetico di tutto il Vangelo. Infatti, non è possibile realizzare il Vangelo senza essere spinti a quel modo di interpretare la vita che è il modo della donazione e della donazione come Cristo. Dunque, l’uomo “nuovo” è colui al quale è comandato di amare come Cristo e questo perché prima gli è stato fatto il dono dell’amore di Cristo. In principio non sta il comandamento, ma la carità che diventa la legge del cristiano. Legge e grazia, per quanto antinomiche tra loro, possono coincidere. Infatti, la legge del cristiano è la carità e questo perché, prima di tutto, non c’è il comandamento, ma il dono.
L’interpretazione del dinamismo dell’uomo spirituale nella dialettica tra l’“antico” e il “nuovo” si esprime, nel riferimento alla carità, principalmente come tensione tra amori, come contrasto tra amori, tra maniere ostili di amare: lo stile dell’agape, che è quello di Cristo e di chi come Cristo vive nella stessa dimensione di gratuità, di amicizia e di dono, e la dimensione ad esso contraria. Giovanni, nel terzo capitolo della sua prima lettera, lo esprime con il contrasto tra Caino e Abele: due tipi fondamentali di uomo che ognuno di noi sperimenta continuamente dentro di sé. Come ben sappiamo, la carità non dimora in noi. In noi dimora la legge antica. La legge nuova, che si scrive nel cuore non a colpi di pietra come la legge antica, ma rinnovando il cuore, è precisamente il dono della carità.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
**** L’amore attinge il suo vertice quando l’uomo, per dono dall’alto, giunge a orientare tutta la propria vita a Dio.
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: Padre santo e misericordioso, infondi la tua grazia nei nostri cuori, perché possiamo salvarci dagli sbandamenti umani e restare fedeli alla tua parola di vita eterna. Per il nostro Signore Gesù Cristo...