1 OTTOBRE 2022
 
SANTA TERESA DI GESÙ BAMBINO, VERGINE E DOTTORE DELLA CHIESA – MEMORIA
 
Gb 42,1-3.5-6.12-16; Salmo Responsoriale dal Salmo 118 (119); Lc 10,17-24
 
Colletta
O Dio, che apri le porte del tuo regno agli umili e ai piccoli,
fa’ che seguiamo con fiducia
la via tracciata da santa Teresa [di Gesù Bambino],
perché, per sua intercessione, ci sia rivelata la tua gloria eterna.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Papa Francesco (Udienza Generale 18 Maggio 2022): Il brano biblico che abbiamo ascoltato chiude il Libro di Giobbe, un vertice della letteratura universale. Noi incontriamo Giobbe nel nostro cammino di catechesi sulla vecchiaia: lo incontriamo come testimone della fede che non accetta una “caricatura” di Dio, ma grida la sua protesta di fronte al male, finché Dio risponda e riveli il suo volto. E Dio alla fine risponde, come sempre in modo sorprendente: mostra a Giobbe la sua gloria ma senza schiacciarlo, anzi, con sovrana tenerezza, come fa Dio, sempre, con tenerezza. Bisogna leggere bene le pagine di questo libro, senza pregiudizi, senza luoghi comuni, per cogliere la forza del grido di Giobbe. Ci farà bene metterci alla sua scuola, per vincere la tentazione del moralismo davanti all’esasperazione e all’avvilimento per il dolore di aver perso tutto.
In questo passaggio conclusivo del libro – noi ricordiamo la storia, Giobbe che perde tutto nella vita, perde le ricchezze, perde la famiglia, perde il figlio e perde anche la salute e rimane lì, piagato, in dialogo con tre amici, poi un quarto, che vengono a salutarlo: questa è la storia – e in questo passaggio di oggi, il passaggio conclusivo del libro, quando Dio finalmente prende la parola (e questo dialogo di Giobbe con i suoi amici è come una strada per arrivare al momento che Dio dia la sua parola) Giobbe viene lodato perché ha compreso il mistero della tenerezza di Dio nascosta dietro il suo silenzio. Dio rimprovera gli amici di Giobbe che presumevano di sapere tutto, sapere di Dio e del dolore, e, venuti per consolare Giobbe, avevano finito per giudicarlo con i loro schemi precostituiti. Dio ci preservi da questo pietismo ipocrita e presuntuoso! Dio ci preservi da quella religiosità moralistica e quella religiosità di precetti che ci dà una certa presunzione e porta al fariseismo e all’ipocrisia.
Ecco come si esprime il Signore nei loro confronti. Così dice il Signore: «La mia ira si è accesa contro di [voi][…], perché non avete detto di me cose rette come il mio servo Giobbe. […]»: questo è quello che dice il Signore agli amici di Giobbe. «Il mio servo Giobbe pregherà per voi, affinché io, per riguardo a lui, non punisca la vostra stoltezza, perché non avete detto di me cose rette come il mio servo Giobbe» (42,7-8). La dichiarazione di Dio ci sorprende, perché abbiamo letto le pagine infuocate della protesta di Giobbe, che ci hanno lasciato sgomenti. Eppure – dice il Signore – Giobbe ha parlato bene, anche quando era arrabbiato e anche arrabbiato contro Dio, ma ha parlato bene, perché ha rifiutato di accettare che Dio sia un “Persecutore”, Dio è un’altra cosa. E in premio Dio restituisce a Giobbe il doppio di tutti i suoi beni, dopo avergli chiesto di pregare per quei suoi cattivi amici.
Il punto di svolta della conversione della fede avviene proprio al culmine dello sfogo di Giobbe, là dove dice: «Io so che il mio redentore è vivo / e che, ultimo, si ergerà sulla polvere! / Dopo che questa mia pelle sarà strappata via, / senza la mia carne, vedrò Dio. / Io lo vedrò, io stesso, / i miei occhi lo contempleranno e non un altro». (19,25-27). Questo passaggio è bellissimo. A me viene in mente la fine di quell’oratorio geniale di Haendel, il Messia, dopo quella festa dell’Alleluja lentamente il soprano canta questo passaggio: “Io so che il mio Redentore vive”, con pace. E così, dopo tutta questa cosa di dolore e di gioia di Giobbe, la voce del Signore è un’altra cosa. “Io so che il mio Redentore vive”: è una cosa bellissima. Possiamo interpretarlo così: “Mio Dio, io so che Tu non sei il Persecutore. Il mio Dio verrà e mi renderà giustizia”. È la fede semplice nella risurrezione di Dio, la fede semplice in Gesù Cristo, la fede semplice che il Signore sempre ci aspetta e verrà.
 
I Lettura: Giobbe, confessando e riconoscendo che tutto è guidato dalla sapienza e dalla onnipotenza di Dio, ritratta le accuse che aveva precedentemente mosso contro i disegni e la provvidenza di Dio. In conclusione, Giobbe ha saputo con la sua fede dare al lettore la soluzione al problema del giusto che soffre, e al problema del male che nonostante tutto, per permissione di Dio, impera nel mondo.
Giobbe ebbe anche sette figli e tre figlie. Alla prima mise nome Colomba, alla seconda Cassia e alla terza Argentea: I nomi “intendono mettere in luce la bellezza delle tre figlie e si riferiscono al triplice regno: animale, vegetale e minerale. Colomba è l’appellativo che lo sposo, affascinato e innamorato, dà alla sua donna [Ct 2,14; 5,2; 6,9]. Cassia, essenza aromatica derivata da una pianta orientale, è uno dei tre profumi citati dal Sal 45 nel descrivere le vesti di nozze del re [Sal 45,9]. Argentea vorrebbe rendere, per un lettore moderno, il significato di un’espressione ebraica piuttosto oscura, tradotta talvolta con “Fiala di stibio”; lo stibio [o antimonio], minerale dal colore argenteo, veniva usato dalle donne del Vicino oriente per rendere più splendente il loro volto.” (Bibbia di Gerusalemme, nota a Gb 42,14).
 
Vangelo
Rallegratevi perché i vostri nomi sono scritti nei cieli.
 
Il vero motivo della gioia dei missionari non va cercato nel loro potere sulle forze infernali, ma nel fatto che Dio ha scritto i loro nomi nel libro della vita. Pieno di gioia per la venuta del regno testimoniata dalla sconfitta di Satana, Gesù eleva allora un rendimento di grazie al Padre, che si rivela ai piccoli. I sapienti e i dotti sono i rabbini e farisei che per il loro orgoglio religioso restano ciechi di fronte all’annuncio di Gesù, i piccoli, invece, sono gli uomini senza cultura, senza competenza religiosa, i poveri delle beatitudini che per la loro umiltà sanno aprirsi alla novità del Vangelo.
 
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 10,17-24
 
In quel tempo, i settantadue tornarono pieni di gioia, dicendo: «Signore, anche i demòni si sottomettono a noi nel tuo nome».
Egli disse loro: «Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore. Ecco, io vi ho dato il potere di camminare sopra serpenti e scorpioni e sopra tutta la potenza del nemico: nulla potrà danneggiarvi. Non rallegratevi però perché i demòni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli».
In quella stessa ora Gesù esultò di gioia nello Spirito Santo e disse: «Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio e nessuno sa chi è il Figlio se non il Padre, né chi è il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo».
E, rivolto ai discepoli, in disparte, disse: «Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete. Io vi dico che molti profeti e re hanno voluto vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono».
Parola del Signore.
 
Il Vangelo di Luca trasuda di gioia. La prima pagina è foriera di gioia, la nascita del Verbo, così l’ultima pagina, la risurrezione e l’Ascensione di Gesù, figlio di Maria, concepito per opera dello Spirito Santo, Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero, generato non creato. I discepoli sono colmi di gioia perché hanno visto Satana sottomettersi alla potenza del Cristo, Gesù è contento perché il Padre ha nascosto i misteri del regno ai sapienti e ai dotti e li ha rivelati ai piccoli. Mai stanco di mettere in evidenza la gioia evangelica, Luca suggerisce quale è la vera gioia: per i discepoli sta nel fatto che i loro nomi sono scritti nei cieli, per Gesù perché finalmente le porte della sua eterna dimora sono state spalancate agli uomini, e in modo particolare ai piccoli, cioè ai suoi discepoli, a tutti coloro che si porranno alla sua sequela. Ma c’è da aggiungere che alla gioia si assomma la beatitudine. Gioia e beatitudine sono sinonimi, ma gioia è sinonimo anche di allegria, felicità, contentezza, e beatitudine di esultanza, appagamento, ed è davvero molto bello che per i piccoli gioia e beatitudine, al di là delle sfumature, inizino quaggiù su questa terra, inzuppata di lacrime e di sangue, per continuare in Cielo quando vedranno Dio faccia a faccia (1Cor 13,12), così come Egli è (1Gv 3,2). E sarà grande festa. Ma è gioia e festa grande anche per Gesù perché la sua missione terrena, che non è finita su una Croce, ma in una tomba vuota, ha raggiunto il suo obiettivo, quello di aver aperto all’uomo le porte del Paradiso e quello di aver rivelato “il volto del Padre suo e Padre nostro. In fondo, per questo Egli è venuto nel mondo: per parlarci del Padre; per farlo conoscere a noi, figli smarriti, e risuscitare nei nostri cuori la gioia di appartenergli, la speranza di essere perdonati e restituiti alla nostra piena dignità, il desiderio di abitare per sempre nella sua casa, che è anche la nostra casa.” (Benedetto XVI, Angelus, 16 Settembre 2007). Abitare per sempre nella sua casa, questa è la più grande gioia, quella gioia che Dio ha riservato ai suoi piccoli.
 
Gianfranco Ravasi (Giobbe in Schede Bibliche Pastorali - Vol. IV): «Io ti conoscevo per sentito dire: ora i miei occhi ti hanno veduto!» (42,5). Questa è la vera finale del libro, questo è il vero scopo dell’itinerario di Giobbe, al di là della conclusione consolatoria dell’antica leggenda citata nelle ultime righe del volume (42,7ss).
Giobbe è anche il centro di una ininterrotta catena di interrogativi che si levano dall’umanità tutte le volte che essa si scontra col mistero dell’esistenza e soprattutto del male. Si usa perciò parlare di una tradizione-Giobbe che ha secoli di vita prima della stessa opera biblica ma che prosegue fino ai nostri giorni e che prende il nome proprio dal suo massimo rappresentante, il Giobbe biblico. Questo «figlio dell’oriente» appare col suo grido di protesta e con la sua speranza già nel citato e lontano Dialogo di un suicida con la sua anima, nato nel mondo egiziano, appare a Sumer, a Babilonia, in Arabia, persino col Prometeo greco. Ma continua a pervadere anche la nostra ricerca: è velato nel Re Lear shakespeariano, è l’anima della riflessione di Kierkegaard, è il destinatario della famosa e discussa Risposta a Giobbe di Jung, uno dei padri della psicanalisi. Giobbe e il suo male si compendiano nel simbolo mostruoso del Moby Dick di Melville o nell’atmosfera sognante eppur tragica del ghetto polacco di J. Roth e di LB. Singer, il Nobel 1978 della letteratura. Giobbe diventa ateo nella Peste di Camus, è ribelle nel «filo rosso» dell’Ateismo nel Cristianesimo del filosofo marxista eterodosso E. Bloch. È il
Giobbe del già citato Morselli, è il nostalgico Giobbe del Coccio di terracotta di Bacchelli, è il Giobbe ironizzato da alcuni testi teatrali dell’americana Broadway, è il Giobbe interrogato dai «nouveaux philosophes» francesi Nemo e Lévy.
Giobbe, attraverso la conoscenza paziente ed esaltante delle sue pagine e attraverso lo scavo nel mondo dei suoi «fratelli» letterari ed umani, deve trasformarsi veramente nella nostra biografia, in quella di nostro padre e di nostro figlio, in quella di ogni uomo posto davanti al mistero del vivere, del credere e del soffrire.
 
Santa Teresa del Bambino Gesù, Dottore della Chiesa: Giovanni Paolo II (Omelia, 19 Ottobre 1997): Santa Teresa di Lisieux non ha potuto frequentare una Università e neppure studi sistematici. Morì in giovane età: e tuttavia da oggi in poi sarà onorata come Dottore della Chiesa, qualificato riconoscimento che la innalza nella considerazione dell’intera comunità cristiana ben al di là di quanto possa farlo un “titolo accademico”. Quando, infatti, il Magistero proclama qualcuno Dottore della Chiesa, intende segnalare a tutti i fedeli, e in modo speciale a quanti rendono nella Chiesa il fondamentale servizio della predicazione o svolgono il delicato compito della ricerca e dell’insegnamento teologico, che la dottrina professata e proclamata da una certa persona può essere un punto di riferimento, non solo perché conforme alla verità rivelata, ma anche perché porta nuova luce sui misteri della fede, una più profonda comprensione del mistero di Cristo. Il Concilio ci ha ricordato che, sotto l’assistenza dello Spirito Santo, cresce continuamente nella Chiesa la comprensione del “depositum fidei”, e a tale processo di crescita contribuisce non solo lo studio ricco di contemplazione cui sono chiamati i teologi, né solo il Magistero dei Pastori, dotati del “carisma certo di verità”, ma anche quella “profonda intelligenza delle cose spirituali” che è data per via di esperienza, con ricchezza e diversità di doni, a quanti si lasciano guidare docilmente dallo Spirito di Dio (cfr. Dei Verbum, 8). La Lumen gentium, da parte sua, insegna che nei Santi “Dio stesso ci parla” (n. 50). È per questo che, al fine dell’approfondimento dei divini misteri, che rimangono sempre più grandi dei nostri pensieri, va attribuito speciale valore all’esperienza spirituale dei Santi, e non a caso la Chiesa sceglie unicamente tra essi quanti intende insignire del titolo di “Dottore”. Tra i “Dottori della Chiesa” Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo è la più giovane, ma il suo cammino spirituale è così maturo ed ardito, le intuizioni di fede presenti nei suoi scritti sono così vaste e profonde, da meritarle un posto tra i grandi maestri dello spirito. 
 
I discepoli non si devono rallegrare per gli onori apostolici - Cirillo di Alessandria, Commento a Luca, omelia 64: Rallegrarsi solo del fatto che erano in grado di operare miracoli e di sconfiggere le mandrie dei demoni verosimilmente avrebbe potuto produrre in loro il desiderio dell’arroganza. Il vicino e il parente di questa passione è regolarmente l’orgoglio. È stato utilissimo che il Salvatore di tutti respingesse il primo vantarsi e tagliasse rapidamente la radice che era spuntata in loro, il vergognoso amore della gloria. Egli stava imitando i buoni agricoltori che quando vedono un’erbaccia che spunta nei loro parchi e nei loro giardini immediatamente la tolgono con la lama della loro zappa, prima che spinga in profondità la sua radice.
 
Il Santo del giorno - 1 Ottobre 2022 - Santa Teresa di Gesù Bambino, Vergine e Dottore della Chiesa (Alençon (Francia), 2 gennaio 1873 - Lisieux, 30 settembre 1897): Martirologio Romano: entrata ancora adolescente nel Carmelo di Lisieux in Francia, divenne per purezza e semplicità di vita maestra di santità in Cristo, insegnando la via dell’infanzia spirituale per giungere alla perfezione cristiana e ponendo ogni mistica sollecitudine al servizio della salvezza delle anime e della crescita della Chiesa. Concluse la sua vita il 30 settembre, all’età di venticinque anni. 

Il sacramento che abbiamo ricevuto, o Signore,
accenda in noi la forza di quell’amore
che spinse santa Teresa [di Gesù Bambino] ad affidarsi
interamente a te e a invocare per tutti la tua misericordia.
Per Cristo nostro Signore.
 
 30 SETTEMBRE 2022
 
SAN GIROLAMO, PRESBITERO E DOTTORE DELLA CHIESA – MEMORIA
 
Gb 38,1.12-21; 40,3-5; Salmo Responsoriale dal Salmo 138 (139); Lc 10,13-16
 
Colletta
O Dio, che hai dato al santo presbitero Girolamo
un amore soave e vivo per la Sacra Scrittura,
fa’ che il tuo popolo si nutra sempre più largamente
della tua parola e trovi in essa la fonte della vita.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
San Girolamo: Benedetto XVI (Udienza Generale 14 novembre 2007): Per Girolamo un fondamentale criterio di metodo nell’interpretazione delle Scritture era la sintonia con il Magistero della Chiesa. Non possiamo mai da soli leggere la Scrittura. Troviamo troppe porte chiuse e scivoliamo facilmente nell’errore. La Bibbia è stata scritta dal Popolo di Dio e per il Popolo di Dio, sotto l’ispirazione dello Spirito Santo. Solo in questa comunione col Popolo di Dio possiamo realmente entrare con il «noi» nel nucleo della verità che Dio stesso ci vuol dire. Per il grande esegeta un’autentica interpretazione della Bibbia doveva essere sempre in armonica concordanza con la fede della Chiesa cattolica. Non si tratta di un’esigenza imposta a questo Libro dall’esterno; il Libro è proprio la voce del Popolo di Dio pellegrinante, e solo nella fede di questo Popolo siamo, per così dire, nella tonalità giusta per capire la Sacra Scrittura. Perciò Girolamo ammoniva un sacerdote: «Rimani fermamente attaccato alla dottrina tradizionale che ti è stata insegnata, affinché tu possa esortare secondo la sana dottrina e confutare coloro che la contraddicono» (Ep. 52,7). In particolare, dato che Gesù Cristo ha fondato la sua Chiesa su Pietro, ogni cristiano – egli concludeva - deve essere in comunione «con la Cattedra di san Pietro. Io so che su questa pietra è edificata la Chiesa» (Ep. 15,2). Conseguentemente, senza mezzi termini, dichiarava: «Io sono con chiunque sia unito alla Cattedra di san Pietro» (Ep. 16).
 
I Lettura: Giobbe nel rispondere al Signore riconosce la sua totale incapacità di capire le vie del Signore. Giobbe sa di aver parlato da stolto, ora non gli resta che mettersi la mano sulla bocca. Un gesto che ripara la sua insipienza, ma è anche un mettersi in ascolto di Dio, che parla con parole sapienti. Giobbe ha parlato una volta, ma non replicherà, due volte ha parlato, ma non continuerà, il vero maestro è Dio, ed è lui solo ad allargare i cuori e le menti alla conoscenza delle sue vie.
 
Vangelo
Chi disprezza me, disprezza colui che mi ha mandato.
 
Nell’ascoltare il Vangelo sul nostro cuore scende un velo di tristezza: Gesù, che è la Verità, ci dice che v’è il rischio che gli uomini possano rigettare il Vangelo e andare incontro a un terribile castigo, e nessuno è escluso da questo rischio. Dinanzi a questa triste eventualità risuona chiara la parola di Gesù: “Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me. E chi disprezza me disprezza colui che mi ha mandato”. Gesù ha affidato alla Chiesa il Vangelo, un tesoro inestimabile, la via maestra che conduce alla salvezza, e vuole che tutti gli uomini lo conoscano.
 
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 10,13-16
 
In quel tempo, Gesù disse:
«Guai a te, Corazìn, guai a te, Betsàida! Perché, se a Tiro e a Sidòne fossero avvenuti i prodigi che avvennero in mezzo a voi, già da tempo, vestite di sacco e cosparse di cenere, si sarebbero convertite. Ebbene, nel giudizio, Tiro e Sidòne saranno trattate meno duramente di voi.
E tu, Cafàrnao, sarai forse innalzata fino al cielo? Fino agli inferi precipiterai!
Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me. E chi disprezza me disprezza colui che mi ha mandato».
Parola del Signore.

Benedetto Prete (I Quattro Vangeli): Guai a te, Corozein! Luca inserisce nel presente passo le minacce rivolte a tre città della Galilea (Corozein, Bethsaida e Cafarnao); queste invettive sono richiamate all’evangelista dalla dura condanna pronunziata contro la città che si è rifiutata di accogliere i missionari inviati da Gesù. Il passo appare come un corpo estraneo al contesto, perché contiene la condanna comminata contro città evangelizzate dal Maestro, non già contro quelle visitate dai suoi messi. I presenti versetti sono paralleli a quelli ricordati da Matteo,11, 21-24; in ambedue i testi si osserva lo stesso ordine delle invettive, come pure la stessa inquadratura, anche se Matteo pone alla fine delle invettive(Mt., 11,24) l’accenno al trattamento di Sodoma nel giorno del giudizio, accenno che nel vangelo lucano è posto all’inizio di esse (cf vers. 12). Il fatto prova che i due evangelisti hanno attinto dalla stessa fonte informativa. E tu Cafarnao...; a questa città che sorgeva sulla sponda del lago è rivolta una acerba invettiva, perché Gesù l’aveva scelta come «sua città» (Mt., 9,1) all’inizio della vita pubblica; essa viene ricordata perché, pur avendo ricevuto questo trattamento di privilegio, non vi ha corrisposto affatto; la città sorda ed ingrata, invece di essere esaltata, verrà profondamente umiliata nel giorno del giudizio con un castigo duro e pesante [...].
Chi ascolta voi, ascolta me...; anche in Matteo questo detto chiude il discorso missionario (cf. Mt.,10,40). L’affermazione non intende illustrare l’ordine secondo il quale si attua, per così dire, l’investitura missionaria (il Padre invia il Figlio, il quale a sua volta manda i discepoli), essa invece ha lo scopo di accentuare la condanna riservata nel giudizio a tutti coloro che rigettano gli inviati di Cristo.
 
Carlo Ghidelli (Luca): Sodoma ... Corazin ... Betsàida ... Tiro e Sidone ... Cafarnao: qui vengono indicati in primo luogo i riflessi escatologici di un rifiuto così radicale. Non si tratta però di una maledizione, ma piuttosto di un lamento profetico di Gesù, che forse lascia trapelare un ultimo invito alla penitenza (cfr 6,24-26). In effetti, le città qui menzionate non sono solo quelle che visiteranno i discepoli, ma anche quelle che Gesù stesso ha visitato. Gesù dunque riconosce che i suoi miracoli non hanno ottenuto la conversione dei suoi uditori (cfr 16,31) di Corazin (non si sa nulla di un ministero di Gesù in questa città), di Betsàida, e di Cafarnao (che Gesù aveva scelto fin dall’inizio come la sua città: Mt 9,1). La loro incredulità e il loro rifiuto alla penitenza le rendono ancora più colpevoli delle città pagane di Tiro e Sidone (contro di esse cfr le invettive di Is 23; Ger 25,22; Ez 26-28). L’ipotesi del v. 13 ci lascia intuire l’idea che sono più sensibili all’invito evangelico i popoli pagani che non i giudei: il che farebbe scatenare la gelosia del popolo giudaico. Eppure questo il giudizio, duro ma sicuro, di Gesù che Lc condivide in pieno e che Paolo porrà alla base delle sue decisioni personali e delle sue invettive apostoliche (cfr At 13,46-48; 1Ts 2,15s; Rm 2). A Cafarnao viene lanciata la minaccia più grave (per la quale cfr Is 14,13-15 dove il profeta la usa per il re di Babilonia): avendo ricevuto di più e grave e avendo corrisposto di meno essa si merita il più grave dei castighi.
 
Fino agli inferi precipiterai! - Hans Bietenhard: In base al NT l’inferno è considerato luogo di punizione solo dopo il giudizio universale. Però sotto l’influsso di concezioni extrabibliche subentrò, nell’insegnamento cristiano, la metafisica dell’eternità al posto dell’escatologia: il luogo di punizione futura si trasformò in luogo di punizione dell’aldilà; l’anima immortale è sottoposta al giudizio subito dopo la morte e, se trovata colpevole, sottoposta alla punizione. Questo luogo di castigo nell’aldilà venne descritto in modo fantastico, con l’aiuto di concezioni extrabibliche. Per il periodo che seguì, ebbe molta importanza, per es., l’apocalisse di Pietro (2 sec. d.C.) che esercitò il suo influsso anche sulla «Divina Commedia» di Dante. Questo tema ha sempre eccitato in modo vivace la pietà e la fantasia popolare. Soprattutto il fuoco dell’inferno ha avuto una grande attrazione (nelle saghe delle alpi svizzere incontriamo invece l’idea che l’inferno o il purgatorio siano un ghiacciaio, il ghiacciaio Aletsh!, ove le «povere anime» devono sopportare la loro punizione). I predicatori si servivano di queste immagini per suscitare nei loro uditori la paura dell’inferno, e spingerli alla conversione (cf. anche gli esercizi spirituali di Ignazio di Loyola). La predicazione dovrebbe impegnarsi a ripulire da tutte le escrescenze tradizionali il contenuto dei concetti biblici e far capire che nella bibbia «regno dei morti» e inferno sono due cose diverse. Per molti sarebbe utile sapere che le sadiche e fantastiche e spesso ridicole descrizioni delle pene dell’inferno non hanno alcun aggancio con il NT. L’opposizione al discorso «popolare» sull’inferno è molto più profonda. Molti cristiani considerano urtante questo discorso e non sono in grado di conciliarlo con il messaggio di un Dio benigno e buono, manifestatosi in Gesù Cristo. Per essi il discorso delle pene eterne dell’inferno contrasta con il messaggio di Dio che è amore. Ma allora, per poter trasmettere il messaggio dell’amore di Dio è forse necessario eliminare dalla predicazione il discorso sull’inferno, come non cristiano, oppure come poco cristiano? Chi pensa in questo modo, abbia ben chiaro che il messaggio dell’amore di Dio non significa un impoverimento di Dio né può diventare tale: Dio è e resta un Dio santo. Anche nel messaggio di Gesù incontriamo una chiarezza estrema: si tratta della salvezza temporale ed eterna. Accogliere o rifiutare il messaggio di Gesù ha conseguenze temporali ed eterne, conduce alla gioia del regno di Dio oppure allontana da essa. La meta della vita può acquistare o perdere il suo ultimo, profondo significato. Gesù descrive l’estrema serietà di questa decisione parlando di «tenebre che ci sono fuori e ove ci saranno gemiti e stridore di denti» (Mt 8, 12). In questo detto non c’è la parola inferno e neppure la descrizione di tormenti. Il terribile sta nella definitiva esclusione dalla salvezza e dalla comunità con Dio e con Cristo: questo è l’inferno
 
L’inferno - Catechismo della Chiesa Cattolica: n. 1034 Gesù parla ripetutamente della “Geenna”, del “fuoco inestinguibile”, che è riservato a chi sino alla fine della vita rifiuta di credere e di convertirsi, e dove possono perire sia l’anima che il corpo. Gesù annunzia con parole severe che egli “manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno... tutti gli operatori di iniquità e li getteranno nella fornace ardente” (Mt 13,41-42), e che pronunzierà la condanna: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno!” (Mt 25,41).
n. 1035 La Chiesa nel suo insegnamento afferma l’esistenza dell’inferno e la sua eternità. Le anime di coloro che muoiono in stato di peccato mortale, dopo la morte discendono immediatamente negli inferi, dove subiscono le pene dell’inferno, “il fuoco eterno” . La pena principale dell’inferno consiste nella separazione eterna da Dio, nel quale soltanto l’uomo può avere la vita e la felicità per le quali è stato creato e alle quali aspira.
n. 1036 Le affermazioni della Sacra Scrittura e gli insegnamenti della Chiesa riguardanti l’inferno sono un appello alla responsabilità con la quale l’uomo deve usare la propria libertà in vista del proprio destino eterno. Costituiscono nello stesso tempo un pressante appello alla conversione: “Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che entrano per essa; quanto stretta invece è la porta e angusta la via che conduce alla Vita, e quanto pochi sono quelli che la trovano!” (Mt 7,13-14). Siccome non conosciamo né il giorno né l’ora, bisogna, come ci avvisa il Signore, che vegliamo assiduamente, affinché, finito l’unico corso della nostra vita terrena, meritiamo con lui di entrare al banchetto nuziale ed essere annoverati tra i beati, né ci si comandi, come a servi cattivi e pigri, di andare al fuoco eterno, nelle tenebre esteriori dove “ci sarà pianto e stridore di denti”.
n. 1037 Dio non predestina nessuno ad andare all’inferno; questo è la conseguenza di una avversione volontaria a Dio (un peccato mortale), in cui si persiste sino alla fine. Nella liturgia eucaristica e nelle preghiere quotidiane dei fedeli, la Chiesa implora la misericordia di Dio, il quale non vuole “che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi” (2Pt 3,9): Accetta con benevolenza, o Signore, l’offerta che ti presentiamo noi tuoi ministri e tutta la tua famiglia: disponi nella tua pace i nostri giorni, salvaci dalla dannazione eterna, e accoglici nel gregge degli eletti.
 
Fino agli inferi precipiterai: “Non ingannatevi, o diletti. Se, infatti, non vi fosse la geenna in qual modo gli apostoli giudicheranno le dodici tribù di Israele? Per qual motivo Paolo direbbe: Non sapete che giudicheremo gli angeli? Quanto più le cose del mondo [1Cor 6,3]? Come Cristo avrebbe potuto dire: I niniviti sorgeranno nel giudizio e condanneranno questa generazione [Mt 12,41]? E: Nel giorno del giudizio Sodoma sarà trattata con maggior demenza [Mt 11,24)? Perché, dunque, scherzi e ti trastulli? Perché inganni te stesso e illudi la tua anima, o uomo? Per quale motivo combatti contro la bontà di Dio? Egli, infatti, ha preparato e minacciato la geenna, non perché noi vi cadessimo, ma affinché, grazie alla paura di essa, divenissimo migliori Vi sarà, infatti, un accurato esame delle più piccole cose, tanto per quanto concerne i peccati che le buone azioni. Dovremo rendere, perciò, ragione degli sguardi impuri, della parola oziosa e ridicola, della crapula, dell’ira e dell’ubriachezza; viceversa, riceveremo la mercede per le opere buone: per un bicchiere d’acqua fresca, per una parola buona e per una sola lacrima... Come, dunque, osi affermare che colui che passa in rassegna con tanta cura le nostre azioni, abbia minacciato invano la caduta nella geenna? Te ne scongiuro, non mandare in perdizione te stesso e coloro che credono in te con una speranza così vana. Se non credi alle nostre parole, infatti, esamina i giudei, i greci, tutti gli eretici, e tutti ti risponderanno a una voce che vi sarà il giudizio e la retribuzione. Non bastano gli uomini? Interroga gli stessi demoni e li udrai gridare: Perché sei venuto qui prima del tempo a tormentarci? [Mt 8,29]. Grazie alla comune testimonianza di tutti costoro, perciò, persuadi la tua mente a non vaneggiare affinché non impari per sua esperienza che la geenna esiste, ravvedendoti, invece, potrai sfuggire a quei tormenti e conseguire i beni futuri.” (Giovanni Crisostomo, Omelie sulla Lettera ai Romani, 31,4-5).
 
Il Santo del Giorno - San Girolamo, Presbitero e Dottore della Chiesa - La passione per la verità resa accessibile a tutti: Esegeta dal carattere acceso e determinato, profondo conoscitore del mondo, amante della vita ritirata e apostolo del Vangelo per il suo mondo: i tratti del profilo di san Girolamo (o Gerolamo) lo rendono un testimone affascinante e attuale e ci ricordano che la fede cristiana non è ipocrita buonismo ma ardente passione per la verità. Passione la cui fonte, la Parola di Dio, volle rendere accessibile a tutti, mettendo mano a una traduzione della Bibbia divenuta quella “ufficiale” della Chiesa per molti secoli dopo di lui, la cosiddetta “Vulgata”. L’intento era quello di usare il linguaggio del popolo (il volgo, appunto) a così far arrivare alle donne e agli uomini del suo tempo il messaggio del Risorto. Girolamo era nato in Dalmazia nel 347 e aveva studiato ad Aquileia, dove coltivò anche l’ideale della vita comunitaria. Battezzato nel 366, fu eremita in Oriente.
Dopo un periodo a Roma e poi in Egitto, si stabilì a Betlemme nel 285 e diede vita a un monastero femminile, vero e proprio laboratorio che lo affiancò nell’opera di traduzione della Bibbia. Morì nel 419 o 420; è dottore della Chiesa. (Matteo Liut)
 
I divini misteri che abbiamo ricevuto
nella gioiosa memoria di san Girolamo
risveglino, o Signore, i cuori dei tuoi fedeli,
perché, meditando i santi insegnamenti,
comprendano il cammino da seguire
e, seguendolo, ottengano la vita eterna.
Per Cristo nostro Signore.
 
 29 SETTEMBRE 2022
 
Santi Michele, Gabriele e Raffaele, Arcangeli
 
Dn 7,9-10.13-14 oppure Ap 12,7-12a; Salmo Responsoriale dal Salmo 137 (136); Gv 1,47-51
 
Colletta
O Dio, che con ordine mirabile
affidi agli angeli e agli uomini la loro missione,
fa’ che la nostra vita sia difesa sulla terra
da coloro che in cielo
stanno sempre davanti a te per servirti.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Ma che cosa è un Angelo? - Benedetto XVI (Omelia, 29 settembre 2007): La Sacra Scrittura e la tradizione della Chiesa ci lasciano scorgere due aspetti. Da una parte, l’Angelo è una creatura che sta davanti a Dio, orientata con l’intero suo essere verso Dio. Tutti e tre i nomi degli Arcangeli finiscono con la parola “El”, che significa “Dio”. Dio è iscritto nei loro nomi, nella loro natura. La loro vera natura è l’esistenza in vista di Lui e per Lui. Proprio così si spiega anche il secondo aspetto che caratterizza gli Angeli: essi sono messaggeri di Dio. Portano Dio agli uomini, aprono il cielo e così aprono la terra. Proprio perché sono presso Dio, possono essere anche molto vicini all’uomo. Dio, infatti, è più intimo a ciascuno di noi di quanto non lo siamo noi stessi. Gli Angeli parlano all’uomo di ciò che costituisce il suo vero essere, di ciò che nella sua vita tanto spesso è coperto e sepolto. Essi lo chiamano a rientrare in se stesso, toccandolo da parte di Dio. In questo senso anche noi esseri umani dovremmo sempre di nuovo diventare angeli gli uni per gli altri - angeli che ci distolgono da vie sbagliate e ci orientano sempre di nuovo verso Dio.
 
I Lettura: In questa seconda parte del libro di Daniele predominano un linguaggio e uno stile che vengono definiti apocalittici (rivelazione). Le visioni sono caratterizzate da simboli complessi, per questo si ha spesso l’intervento di un angelo che le interpreta per Daniele. I troni che vengono collocati sono i troni dei giudici, i santi di Dio che vengono chiamati a giudicare con lui. Il fiume di fuoco che scorre dinanzi al vegliardo (Dio), simboleggia l’ira di Dio, quale fuoco divorante i suoi nemici. Il titolo Figlio dell’uomo (aramaico bar nasha’, o l’ebraico ben ‘adam) equivale in primo luogo a «uomo» (cfr. Sal 8,5). Ma l’espressione ha qui un senso particolare, eminente, per cui designa un uomo che supera misteriosamente la condizione umana. Nei vangeli indica Gesù. Una lettura delle visioni notturne alla luce del Nuovo Testamento fa comprendere che il testo parla di un futuro molto lontano dal tempo di Daniele, un futuro nel quale i cieli sono aperti.
 
Vangelo
Vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sopra il Figlio dell’uomo. 
 
... io ti ho visto quando eri sotto l’albero di fichi: un’espressione difficile da interpretare e che “in questo contesto può alludere a un luogo di riposo, simbolicamente evocativo della prosperità e della pace messianica [cfr. 1Re 4,25; Is 36,16; Mi 4,4; Zc 3,10], oppure a un luogo di raccoglimento per la meditazione delle Scritture e per la preghiera” (Il Nuovo Testamento, Ed. Paoline). Ma al di là di queste interpretazioni, è da sottolineare come Gesù conosca soprannaturalmente gli uomini e gli avvenimenti: Mentre era a Gerusalemme per la Pasqua, durante la festa, molti, vedendo i segni che egli compiva, credettero nel suo nome. Ma lui, Gesù, non si fidava di loro, perché conosceva tutti e non aveva bisogno che alcuno desse testimonianza sull’uomo. Egli infatti conosceva quello che c’è nell’uomo (Gv 2,24-25). Allo stupore segue la professione di fede: Rabbi, tu sei figlio di Dio. Gesù replica a Natanaele ricordando la visione di Giacobbe: gli Angeli sono sempre al servizio del Figlio dell’uomo, ma anche al servizio degli uomini. Essi ci aiutano ad avere un senso più profondo della santità e maestà Dio e contemporaneamente un senso di grande fiducia in quanto sono nostri amici e inseparabili compagni di viaggio.
 
Dal Vangelo secondo Giovanni
Gv 1,47-51
 
In quel tempo, Gesù, visto Natanaèle che gli veniva incontro, disse di lui: «Ecco davvero un Israelita in cui non c’è falsità». Natanaèle gli domandò: «Come mi conosci?». Gli rispose Gesù: «Prima che Filippo ti chiamasse, io ti ho visto quando eri sotto l’albero di fichi». Gli replicò Natanaèle: «Rabbì, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re d’Israele!». Gli rispose Gesù: «Perché ti ho detto che ti avevo visto sotto l’albero di fichi, tu credi?
Vedrai cose più grandi di queste!».
Poi gli disse: «In verità, in verità io vi dico: vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sopra il Figlio dell’uomo».
Parola del Signore
 
Mario Galizzi (Vangelo secondo Giovanni): L’incontro Gesù-Natanaele è ben descritto. Gesù gli fa capire che lo conosce in profondità; anzi, che l’ha conosciuto e visto, e perciò scelto, prima ancora che Filippo lo chiamasse. Gesù già sapeva che Natanaele era un vero israelita, cioè che apparteneva a quel resto di Israele, povero e umile, che viveva, alimentandosi alle Scritture, l’ansiosa attesa del Messia.
Di fronte a questa esperienza Natanaele pronuncia il suo atto di fede, premettendo di riconoscersi discepolo. Egli chiama Gesù «Rabbi», cioè «Maestro», e poi aggiunge: «Tu sei il Figlio di Dio; tu sei il re d’Israele». Il suo atto di fede è unicamente fondato sulle Scritture ed è strettamente legato alle profezie messianiche davidiche. L’espressione «Figlio di Dio» non ha qui la solennità di 1,34. Qui è spiegata dall’espressione: «Tu sei il re d’Israele». Il Messia, attese come discendente di Davide, era, secondo la promessa, chiamato «Figlio di Dio» (2Sam 7,14; Sal 89,4-5.27-28). Natanaele si mantiene come Filippo, in un orizzonte puramente nazionalistico. È Gesù che lo porta a conoscere il di più: «Vedrai cose maggiori di queste»; e poi passa all’uso del plurale, chiaro indizio che qui Natanaele è visto come tipo di un gruppo: «Vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sul Figlio dell’uomo» (l,51).
Natanaele, sentendo Gesù, è subito riportato alle Scritture, a quanto scrisse Mosè; in particolare al sogno di Giacobbe (Gn 28,10-22). Ora però, si parla di «cielo aperto», e non si parla di «terra»; perciò non si può dire con Giacobbe: «Quanto è terribile questo luogo! Questa è la casa di Dio; questa è la porta del cielo». Ora questo luogo, questa casa, questa porta è il Figlio dell’uomo, come ama chiamarsi Gesù; ed è lui che apre la via del cielo.
È difficile dire che cosa, quel giorno, abbia capito Natanaele, ma è certo che per l’evangelista e la comunità cristiana Gesù è il tempio di Dio, il luogo di incontro tra Dio e l’umanità, tra Dio e ciascun uomo. Certamente le Scritture (per noi cristiani l’ Antico Testamento) ci parlano e ci conducono a Gesù, come hanno condotto Filippo e Natanaele. Il compimento delle Scritture, però, va oltre il previsto: la realtà supera sempre la promessa.
 
Angelo - Gottfried Hermann: Gli scritti biblici conoscono diversi angeli, che si distinguono per il modo di apparire e soprattutto di agire. La maggior parte delle volte gli angeli appaiono come messaggeri e portavoce di Dio: il malak JHWH comanda ad Abramo di risparmiare suo figlio (Gen 22,11). Questo angelo di JHWH a volte non è distinguibile dallo stesso JHWH (Gen 18). Agli angeli viene spesso attribuito un potere di devastazione o di castigo, per es. all’angelo sterminatore, oppure allo spirito che causa dissidi politici, Gdc 9,23. In questo caso non si possono separare gli angeli dalla sventura che essi portano; questo è particolarmente chiaro nel Sal 78,49. Talvolta gli angeli sono visti come cherubim, cioè esseri ibridi alati, come quelli noti soprattutto a Babilonia: Gen 3,24 è uno di questi angeli che fa la guardia all’albero della vita; nel Sal 18,11 esso è colui che accompagna JHWH che discende dai cieli. Ezechiele si è servito in modo particolare di questa immagine. Altri angeli costituiscono una corte celeste che celebra JHWH (Is 6), a lo consiglia (Gb l,6ss). Soltanto più tardi gli angeli hanno un nome (Daniele, Tobia) e sono visti ora come angeli custodi personali (Raffaele per Tobia), come protettori dei popoli (On 10,11ss), come intercessori presso Dio (Zc 3), come interpreti dei progetti divini (Zc l,9.11ss). Nell’apocalittica tardogiudaica, ma anche nell’Apocalisse neotestamentaria, essi svolgono un ruolo molto importante. La credenza veterotestamentaria negli angeli è una mescolanza variopinta e disarmonica di antica fede popolare (cf. Gen 6,1-4), dèi stranieri denigrati (Lv 16,8ss)e divinità sbiadite (serpente di rame) d’influenza babilonese e (più tardi) iraniana. Come dimostra Rm 8,38s, Paolo condivide ancora la concezione degli angeli di sventura; parlando di “troni” e “dominazioni” (Col 1,16) Paolo intende angeli dei popoli, cioè soprattutto la potenza della Roma pagana. Soltanto nei Sinottici gli angeli, in quanto messaggeri di Dio e interpreti dell’evento della salvezza (Le 1; 2; At l,10s), vengono separati dai demoni quali cause di malattia e di possessione (Mc 3,23-27). Gesù, manifestandosi padrone dei demoni dimostra di essere colui che possiede la potenza del creatore e introduce il regno di Dio escatologico (Mc 3,27).
 
1. Gli angeli di Iahve e l’Angelo di Iahve - Pierre-Marie Galopin e Pierre Grelot (Dizionario di Teologia Biblica): Riprendendo un elemento corrente nelle mitologie orientali, ma adattandolo alla rivelazione del Dio unico, il VT rappresenta sovente Dio come un sovrano orientale (1 Re 22,19; Is 6,1 ss). I membri della sua corte sono pure i suoi servi (Giob 4,18); sono anche chiamati i santi (Giob 5,1; 15,15; Sal 89,6; Dan 4, io: oppure i figli di Dio (Sal 29,1; 89,7; Deut 32,8). Tra essi, i Cherubini (il cui nome è di origine mesopotamica) sostengono il suo trono (Sal 80,2; 99,1), tirano il suo carro (Ez 10,1 s), gli servono da cavalcatura (Sal 18,11) oppure custodiscono l’ingresso del suo dominio per interdirlo ai profani (Gen 3,24); i serafini (gli «ardenti») cantano la sua gloria (Is 6,2s), ed uno di essi purifica le labbra di Isaia durante la sua visione inaugurale (Is 6,7). Si ritrovano i cherubini nella iconografia del tempio, dove riparano l’arca con le loro ali (1Re 6,23-29; Es 25,18s). Tutto un esercito celeste (1Re 22,19; Sal 148,2; Neem 9,6) fa cosi risaltare la gloria di Dio, ed è a sua disposizione per governare il mondo ed eseguire i suoi ordini (Sal 103,20); stabilisce un legame tra il cielo e la terra (Gen 28,12).
Tuttavia, a fianco di questi messaggeri enigmatici, gli antichi racconti biblici conoscono pure un Angelo di Jahve (Gen 16,7; 22,11; Es 3,2; Giud 2,1), che non è diverso da Jahve stesso, manifestato quaggiù in una forma visibile (Gen 16, 13; Es 3,2): abitando in una luce inaccessibile (1Tim 6,16), Dio non può lasciar vedere la sua faccia (Es 33,20); gli uomini non ne scorgono mai se non un misterioso riflesso. L’ Angelo di Jahve dei testi antichi serve quindi ad esprimere una teologia ancora arcaica che, con l’appellativo «Angelo del Signore» lascia tracce fin nel NT (Mt 1,20.24; 2,13.19; Lc 1, 11; 2,9), e persino nella patristica.
Tuttavia, a misura che la rivelazione progredisce, la sua funzione è sempre più devoluta agli angeli, messaggeri ordinari di Dio.
 
San Michele: “Per quanto frammentarie, le notizie della Rivelazione sulla personalità ed il ruolo di San Michele sono molto eloquenti. Egli è l’Arcangelo che rivendica i diritti inalienabili di Dio. È uno dei principi del Cielo eletto alla custodia del Popolo di Dio, da cui uscirà il Salvatore. Ora il nuovo popolo di Dio è la Chiesa. Ecco la ragione per cui Essa lo considera come proprio protettore e sostenitore in tutte le sue lotte per la difesa e la diffusione del regno di Dio sulla terra. È vero che «le porte degli inferi non prevarranno», secondo l’assicurazione del Signore, ma questo non significa che siamo esenti dalle prove e dalle battaglie contro le insidie del maligno. In questa lotta, l’Arcangelo Michele è a fianco della Chiesa per difenderla contro tutte le nequizie del secolo, per aiutare i credenti a resistere al Demonio che «come leone ruggente va in giro cercando chi divorare». Questa lotta contro il Demonio, che contraddistingue la figura dell’Arcangelo Michele, è attuale anche oggi, perché il Demonio è tuttora vivo ed operante nel mondo. Infatti il male che è in esso, il disordine che si riscontra nella società, l’incoerenza dell’uomo, la frattura interiore della quale è vittima non sono solo le conseguenze del peccato originale, ma anche effetto dell’azione infestatrice ed oscura del Satana, di questo insidiatore dell’equilibrio morale dell’uomo, che San Paolo non esita a chiamare «il dio di questo mondo», in quanto si manifesta come astuto incantatore, che sa insinuarsi nel gioco del nostro operare per introdurvi deviazioni tanto nocive, quanto all’apparenza conformi alle nostre istintive aspirazioni. Per questo l’Apostolo delle Genti mette i cristiani in guardia dalle insidie del Demonio e dei suoi innumerevoli satelliti, quando esorta gli abitanti di Efeso a rivestirsi «dell’armatura di Dio per poter affrontare le insidie del Diavolo, poiché la nostra lotta non è soltanto col sangue e con la carne, ma contro i Principati e le Potestà, contro i Dominatori delle tenebre, contro gli spiriti maligni dell’aria».” (Giovanni Paolo II, Discorso, 24 maggio 1987).
San Gabriele: Gabriele [forza di Dio] è il messaggero della buona novella e viene inviato per annunciare agli uomini gli interventi straordinari dell’Eterno. A Daniele svela il piano di Dio [Dn 8,16; 9,21s];  a Zaccaria annuncia la nascita di Giovanni Battista [Lc 1,11-20]; a Maria, il mistero dell’Incarnazione [Lc 1,26-38] nella mirabile icona lucana della casa di Nazareth. In merito all’annunciazione, «era ben giusto che per questa missione fosse inviato un angelo tra i maggiori, per recare il più grande degli annunzi… Gabriele veniva per annunziare colui che si degnò di apparire nell’umiltà per debellare le potenze maligne dell’aria. Dove dunque essere annunziato da “fortezza” colui che veniva quale signore degli eserciti e forte guerriero» [S. Gregorio Magno]. «Come sono belli i passi di colui che reca un lieto annunzio», esclamiamo con parole bibliche. Il nostro pensiero va certamente a Gabriele, ma anche a tutte le persone che disseminano parole e sentimenti di pace e di speranza. Esse ci ricordano anche che ciascuno di noi cristiano è inviato a portare il lieto annuncio della liberazione da ogni forma di schiavitù, specialmente morale. Mi sovviene un canto intitolato «Meraviglioso» dove si parla di un angelo vestito da passante. Quando lungo le strade, nelle nostre piazze vediamo dei poliziotti ci sentiamo più sicuri e protetti. Sappiamo tuttavia che la loro presenza, mentre rassicura noi scatena in alcuni reazioni che rendono sempre più pericoloso il loro ministero. Ma, a parte questo, dovremmo essere tutti, l’un per l’altro, motivo di rassicurazione e di aiuto, differentemente da come la logica dominante e la prassi imperante ci costringe: sparlare, calunniare, trinciare giudizi, spargere parole amare. Se riscoprissimo la forza liberante vivificante e trasfigurante delle parole benevoli!” (Mons. Lucio A. M. Renna, Vescovo Emerito, Omelia, 29 Settembre 2013).
San Raffaele: “San Raffaele ci viene presentato soprattutto nel Libro di Tobia come l’Angelo a cui è affidata la mansione di guarire. Quando Gesù invia i suoi discepoli in missione, al compito dell’annuncio del Vangelo vien sempre collegato anche quello di guarire. Il buon Samaritano, accogliendo e guarendo la persona ferita giacente al margine della strada, diventa senza parole un testimone dell’amore di Dio. Quest’uomo ferito, bisognoso di essere guarito, siamo tutti noi. Annunciare il Vangelo, significa già di per sé guarire, perché l’uomo necessita soprattutto della verità e dell’amore. Dell’Arcangelo Raffaele si riferiscono nel Libro di Tobia due compiti emblematici di guarigione. Egli guarisce la comunione disturbata tra uomo e donna. Guarisce il loro amore. Scaccia i demoni che, sempre di nuovo, stracciano e distruggono il loro amore. Purifica l’atmosfera tra i due e dona loro la capacità di accogliersi a vicenda per sempre. Nel racconto di Tobia questa guarigione viene riferita con immagini leggendarie. Nel Nuovo Testamento, l’ordine del matrimonio, stabilito nella creazione e minacciato in modo molteplice dal peccato, viene guarito dal fatto che Cristo lo accoglie nel suo amore redentore. Egli fa del matrimonio un sacramento: il suo amore, salito per noi sulla croce, è la forza risanatrice che, in tutte le confusioni, dona la capacità della riconciliazione, purifica l’atmosfera e guarisce le ferite. Al sacerdote è affidato il compito di condurre gli uomini sempre di nuovo incontro alla forza riconciliatrice dell’amore di Cristo. Deve essere «l’angelo» risanatore che li aiuta ad ancorare il loro amore al sacramento e a viverlo con impegno sempre rinnovato a partire da esso” (Benedetto XVI (Omelia, 29 Settembre 2007).
 
La presenza degli angeli - Origene, Comment. in Luc., 23, 8-9: Quanto a me, non esito affatto a pensare che gli angeli siano presenti anche nella nostra assemblea, in quanto essi vegliano non soltanto su tutta la Chiesa presa nel suo insieme, ma anche su ciascuno di noi. È di essi che parla il Salvatore, quando dice: I loro angeli vedono sempre il volto del Padre mio che è nei cieli (Mt 18,10). Ci sono qui due Chiese: quella degli uomini e quella degli angeli. Se quanto noi diciamo è conforme al pensiero divino e all’intenzione delle Scritture, gli angeli ne godono e pregano per noi. Ed è perché gli angeli sono presenti nelle Chiese, in tutte, o almeno in quelle che lo meritano e che appartengono a Cristo, che è prescritto alle donne, durante la preghiera, di avere un velo sulla testa a causa degli angeli (1Cor 11,10). Di quali angeli si tratta? Senza alcun dubbio degli angeli che assistono i santi e si rallegrano nella Chiesa; angeli che noi non vediamo perché il fango del peccato ci copre gli occhi, ma che vedono gli apostoli di Gesù ai quali il Signore dice: In verità, in verità vi dico: voi vedrete i cieli aperti e gli angeli di Dio che salgono e discendono sul Figlio dell’uomo (Gv l,51).
Se io avessi la grazia di vederli come gli apostoli e di guardarli come li contemplò Paolo, scorgerei senza dubbio ora la folla di angeli che vedeva Eliseo e che Gihezi, che era al suo fianco, non vedeva affatto. Gihezi aveva paura di essere catturato dai nemici, perché vedeva Eliseo tutto solo. Ma Eliseo, in quanto era profeta del Signore, si mise a pregare e disse: O Signore, apri gli occhi di questo servo in modo che egli veda che ci sono più con noi che con loro (2Re 6,17). E subito, alla preghiera di quel santo, Gihezi vide gli angeli che non vedeva prima.
 
Il Santo del Giorno - 29 Settembre 2022: Festa dei santi Michele, Gabriele e Raffaele, arcangeli. Il Martirologio commemora insieme i santi arcangeli Michele, Gabriele e Raffaele. La Bibbia li ricorda con specifiche missioni: Michele avversario di Satana, Gabriele annunciatore e Raffaele soccorritore. Prima della riforma del 1969 si ricordava in questo giorno solamente san Michele arcangelo in memoria della consacrazione del celebre santuario sul monte Gargano a lui dedicato. Il titolo di arcangelo deriva dall’idea di una corte celeste in cui gli angeli sono presenti secondo gradi e dignità differenti. Gli arcangeli Michele, Gabriele e Raffaele occupano le sfere più elevate delle gerarchie angeliche. Queste hanno il compito di preservare la trascendenza e il mistero di Dio. Nello stesso tempo, rendono presente e percepibile la sua vicinanza salvifica.
 
Nutriti con il pane del cielo,
ti preghiamo, o Signore, perché, rinvigoriti dalla sua forza,
sotto la fedele custodia dei tuoi angeli
progrediamo con coraggio nella via della salvezza.
Per Cristo nostro Signore.
 
 28 SETTEMBRE 2022
 
Mercoledì XXVI Settimana T. O.
 
Gb 9,1-12.14-16; Salmo Responsoriale dal Salmo 87 (88); Lc 9,57-62
 
Colletta
O Dio, che riveli la tua onnipotenza
soprattutto con la misericordia e il perdono,
continua a effondere su di noi la tua grazia,
perché, affrettandoci verso i beni da te promessi,
diventiamo partecipi della felicità eterna.
Per il nostro Signore Gesù Cristo. 
 
Papa Francesco (Angelus 27 Giugno 2010): Le letture bibliche della santa Messa di questa domenica mi danno l’opportunità di riprendere il tema della chiamata di Cristo e delle sue esigenze, tema sul quale mi sono soffermato anche una settimana fa, in occasione delle Ordinazioni dei nuovi presbiteri della Diocesi di Roma.
In effetti, chi ha la fortuna di conoscere un giovane o una ragazza che lascia la famiglia di origine, gli studi o il lavoro per consacrarsi a Dio, sa bene di che cosa si tratta, perché ha davanti un esempio vivente di risposta radicale alla vocazione divina. È questa una delle esperienze più belle che si fanno nella Chiesa: vedere, toccare con mano l’azione del Signore nella vita delle persone; sperimentare che Dio non è un’entità astratta, ma una Realtà così grande e forte da riempire in modo sovrabbondante il cuore dell’uomo, una Persona vivente e vicina, che ci ama e chiede di essere amata.
L’evangelista Luca ci presenta Gesù che, mentre cammina per la strada, diretto a Gerusalemme, incontra alcuni uomini, probabilmente giovani, i quali promettono di seguirlo dovunque vada. Con costoro Egli si mostra molto esigente, avvertendoli che “il Figlio dell’uomo - cioè Lui, il Messia - non ha dove posare il capo”, vale a dire non ha una propria dimora stabile, e che chi sceglie di lavorare con Lui nel campo di Dio non può più tirarsi indietro (cfr Lc 9,57-58.61-62). Ad un altro invece Cristo stesso dice: “Seguimi”, chiedendogli un taglio netto dei legami familiari (cfr Lc 9,59-60). Queste esigenze possono apparire troppo dure, ma in realtà esprimono la novità e la priorità assoluta del Regno di Dio che si fa presente nella Persona stessa di Gesù Cristo. In ultima analisi, si tratta di quella radicalità che è dovuta all’Amore di Dio, al quale Gesù stesso per primo obbedisce. Chi rinuncia a tutto, persino a se stesso, per seguire Gesù, entra in una nuova dimensione della libertà, che san Paolo definisce “camminare secondo lo Spirito” (cfr Gal 5,16). “Cristo ci ha liberati per la libertà!” - scrive l’Apostolo - e spiega che questa nuova forma di libertà acquistataci da Cristo consiste nell’essere “a servizio gli uni degli altri” (Gal 5,1.13). Libertà e amore coincidono! Al contrario, obbedire al proprio egoismo conduce a rivalità e conflitti.
 
I Lettura: Da una parte Dio, il creatore, dall’altra parte l’uomo, la creatura. Solo Dio può chiedere conto all’uomo delle sue azioni, e non viceversa. Questo Giobbe lo sa, e pur nella consapevolezza di essere “giusto”, sa anche che soltanto Dio può emettere sull’uomo un veritiero giudizio o di condanna o di misericordia.
 
Vangelo
Ti seguirò dovunque tu vada.
 
Il Vangelo racconta di tre uomini che dichiarano la loro disponibilità a divenire discepoli di Cristo. Al primo Gesù prospetta la sequela come una rinuncia alla casa, alla famiglia e a tutto ciò che dà sicurezza, dal secondo esige di essere seguito subito e al terzo dice in modo assai esplicito che per i suoi discepoli non c’è spazio per i rimpianti di quanto si lascia. Tre racconti di vocazioni che sono accomunate da una sola esigenza: lasciare tutto, anche gli affetti più cari per seguire Cristo.
 
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 9,57-62
 
In quel tempo, mentre camminavano per la strada, un tale disse a Gesù: «Ti seguirò dovunque tu vada». E Gesù gli rispose: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo».
A un altro disse: «Seguimi». E costui rispose: «Signore, permettimi di andare prima a seppellire mio padre».
Gli replicò: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu invece va’ e annuncia il regno di Dio».
Un altro disse: «Ti seguirò, Signore; prima però lascia che io mi congedi da quelli di casa mia». Ma Gesù gli rispose: «Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro è adatto per il regno di Dio».
 
Parola del Signore.
 
Le tre vocazioni sono accomunate da un’unica radicale esigenza: lasciare tutto. Bisogna comunque ammettere che Gesù tale radicalità non l’ha richiesta a tutti i discepoli. Non a tutti chiese l’abbandono dei beni (Cf. Lc 8,13). Per esempio non lo chiese a Zaccheo (Lc 19,1-10). Non a tutti chiese la rinuncia al matrimonio (Mt 19,3-12).
Nella prima scena è un uomo a prendere l’iniziativa e Gesù con la sua risposta, il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo, vuole sottolineare che egli «è profugo e ramingo, peggio degli animali, perché è rifiutato dai suoi compaesani, dai samaritani e infine dai giudei; è ricercato da Erode come pericoloso [Cf. 13,31-33]. La sua vera povertà è l’insicurezza, la situazione precaria in cui si trova, privo di alleanze e di protezioni. Il discepolo che si mette al suo seguito deve sapere che condividerà questo destino in cui non è possibile avere una stabilità o un insediamento protettivo nelle strutture mondane» (Rinaldo Fabris).
Nella seconda e nella terza chiamata le esigenze vocazionali si fanno più radicali: neppure i legami filiali e gli obblighi più sacri, come la sepoltura del padre, possono ritardare la risposta dell’uomo.
Gesù è più esigente degli antichi profeti, e in modo particolare del profeta Elia (cfr. la vocazione di Eliseo: 1Re 19,19ss): per chi vuol farsi discepolo del Cristo tutto deve passare in secondo piano, nessuna cosa al mondo può distrarlo dalla proclamazione del Regno di Dio. Tantomeno, una volta imboccata la strada del discepolato, è possibile tornare indietro.
Gesù «si dimostra assai più esigente dell’antico profeta Elia: egli non vuole solo coraggio e prontezza nel raccogliere l’invito-comando suo, ma esige anche fermezza e costanza nel portare avanti il proprio impegno, senza operare sconti e senza rimpianti o pentimenti. Egli non vuole discepoli nostalgici!» (Carlo Guidelli).
Alla luce della proposta dei figli di Zebedeo, l’insegnamento di Gesù suona come monito anche per chi è già entrato a fare parte del suo entourage.
 
Richard Gutzwiller (Meditazioni su Luca): Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro è adatto per il regno di Dio: È significativo che tutte e tre le risposte del Signore riguardino l’abitare in famiglia.
Al primo è detto che non gli è permesso dimorare praticamente in famiglia. Il secondo non deve restare in  famiglia, fino a quando non possa staccarsene, senza dare scandalo. Ed il terzo non deve avere nessun riguardo per la famiglia. Non è un caso che in tutte e tre le risposte venga fuori lo stesso elemento. Poiché i congiunti sono sempre più convinti di poter far valere i loro diritti. E si scandalizzano e si urtano sempre più, quando la chiamata di Dio toglie un membro dalla famiglia. Spesso genitori e fratelli non comprenderanno come un figlio o una figlia possa seguire la chiamata di Dio senza condizioni. Ed il figlio o la figlia devono chiudere un occhio su questa incomprensione e sopportare. Dio è più grande. Quando mette la mano su un uomo, quest’uomo appartiene esclusivamente a lui. Niente mezzi termini, nessuna divisione, nessun compromesso. E proprio perché la rinunzia riesce spesso difficile, e lo strappo è doloroso, Gesù formula la sua risposta in termini secchi e duri. C’è una sola alternativa. Chi vuole andare con lui, deve essere con lui. E lui è essenzialmente solo. Perciò il discepolo deve dividere la sua solitudine.
 
Ti seguirò: Veritatis splendor 21: Seguire Cristo non è una imitazione esteriore, perché tocca l’uomo nella sua profonda interiorità. Essere discepoli di Gesù significa essere resi conformi a Lui, che si è fatto servo fino al dono di sé sulla croce (cf Fil 2,5-8). Mediante la fede, Cristo abita nel cuore del credente (cf Ef 3,17), e così il discepolo è assimilato al suo Signore e a Lui configurato. Questo è frutto della grazia,della presenza operante dello Spirito Santo in noi. Inserito in Cristo, il cristiano diventa membro del suo Corpo, che è la Chiesa (cf 1 Cor 12,13.27). Sotto l’impulso dello Spirito, il Battesimo configura radicalmente il fedele a Cristo nel mistero pasquale della morte e risurrezione, lo «riveste» di Cristo (cfr. Gal 3,27): «Rallegriamoci e ringraziamo - esclama sant’Agostino rivolgendosi ai battezzati -: siamo diventati non solo cristiani, ma Cristo (...). Stupite e gioite: Cristo siamo diventati!». Morto al peccato, il battezzato riceve la vita nuova (cfr. Rm 6,3-11): vivente per Dio in Cristo Gesù, è chiamato a camminare secondo lo Spirito e a manifestarne nella vita i frutti (cfr. Gal 5,16-25). La partecipazione poi all’Eucaristia, sacramento della Nuova Alleanza (cfr. 1Cor 11,23-29), è vertice dell’assimilazione a Cristo, fonte di «vita eterna» (cfr Gv 6,51-58), principio e forza del dono totale di sé, di cui Gesù secondo la testimonianza tramandata da Paolo comanda di far memoria nella celebrazione e nella vita: «Ogni volta che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga» (1Cor 11,26).
 
Le condizioni poste da Gesù per diventare suoi discepoli - Filosseno di Mabbug (Hom., 9, 306-307.312-313): “Colui che mette mano all’aratro e poi si gira indietro non è adatto per il Regno di Dio” (Lc 9,62). Colui che svolge con cura questo lavoro della natura e guida l’aratro e i buoi secondo le regole umane, non smette mai di guardare davanti a sé; non guarda mai all’indietro perché un tal modo di lavorare non sarebbe farlo con cura, non potrebbe camminare avanti a sé, i suoi solchi non sarebbero aperti in linea diritta, e i buoi non procederebbero innanzi; e questo, per quanto si tratti di lavoro materiale e chi lo vede appartenga del pari all’ordine corporale. Ora, il lavoro del mio discepolo è diverso dall’altro, così come un mondo differisce dall’altro, e una vita dall’altra, e gli esseri immortali dai mortali, e Dio dagli uomini. Se dunque assumi il giogo della mia disciplina nella tua anima e nel tuo corpo, svolgi con cura il lavoro dei miei precetti...
Molti si fanno discepoli per fregiarsi del nome di Cristo e non per onorare Cristo; si lasciano ingaggiare da lui per rimanere nei piaceri corporei e non per portare le austerità dei suoi comandamenti. Altri si avvicinano a questa regola che esige rinuncia, spinti dal desiderio di Mammona, e per acquistare fuori dal mondo quello che non possono avere standovi dentro. Attraverso quell’unico discepolo di cui parla il Vangelo del nostro Salvatore, Gesù ha stigmatizzato questo pensiero iniquo in tutti gli altri: “Maestro, ti seguirò dovunque andrai; e Gesù gli rispose: Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo” (Mt 8,20; Lc 9,58). Lungi da me, discepolo d’iniquità! Io non posso darti quello che tu desideri e tu non puoi ricevere quello che io ti do; conosco ciò che chiedi e io non ti do ciò che cerchi; hai creduto di venire a me per amore della ricchezza; sei andato a cercare le tenebre nella luce, la povertà nel possesso autentico, e la morte nella vita; tu vuoi acquistare venendo a me quanto io chiedo a tutti di lasciare per seguirmi; la porta per la quale sei spinto ad entrare per seguirmi è la stessa per la quale voglio farti uscire. Ecco perché non ti accolgo. Io sono povero per la mia condizione pubblica, e, per tal motivo, non detengo pubbliche ricchezze da elargire nel mondo in cui sono venuto. Io sono visto come uno straniero e non ho né casa né tetto, e chi vuole essere mio discepolo eredita da me la povertà: perché vuoi acquistare da me ciò che ti faccio rinunciare a possedere?
 
Il Santo del Giorno - 28 Settembre 2022 - San Venceslao. Duca di Boemia e martire, guida saggia per la sua terra: La Parola di Dio e l’annuncio del Risorto sono verità “scomode” per il mondo, che preferisce le logiche del potere, degli interessi personali e della prevaricazione del più forte sul più debole. San Venceslao, sovrano boemo vissuto nel X secolo pagò in prima persona il coraggio di opporsi alle dinamiche dei potenti.
Era nato a Praga forse nel 907, in un tempo in cui nella sua terra la fede cristiana era osteggiata dalla forte presenza pagana. Figlio del duca di Boemia, fu cresciuto alla luce del Vangelo dalla nonna paterna, Ludmilla. Dopo la morte del padre Venceslao si ritrovò, giovanissimo, a governare, impegnandosi, tra l’altro, a diffondere la fede. La sua opera di evangelizzazione, però, trovò l’opposizione della nobiltà pagana, che era appoggiata dal fratello di Venceslao, Boleslao. E fu proprio quest’ultimo, assieme a un gruppo di sicari ad attaccare Venceslao una mattina dell’anno 935, mentre si recava in chiesa a Stara Boleslav: difesosi dalla spada del fratello, il duca fu ucciso dagli altri nobili.
 
Questo sacramento di vita eterna
ci rinnovi, o Padre, nell’anima e nel corpo,
perché, annunciando la morte del tuo Figlio,
partecipiamo alla sua passione
per diventare eredi con lui nella gloria.
Egli vive e regna nei secoli dei secoli.