1 Agosto 2023
 
Sant’Alfonso Maria De Liguori, Vescovo e Dottore della Chiesa
 
Es 33,7-11; 34,5-9.28; Salmo responsoriale dal Salmo 102 (103); Mt 13,36-43
 
Colletta
O Dio, che fai sorgere nella tua Chiesa
forme sempre nuove di santità,
fa’ che imitiamo l’ardore apostolico
del santo vescovo Alfonso Maria [de’ Liguori],
per ricevere la sua stessa ricompensa nei cieli.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.

Come dunque si raccoglie la zizzania e la si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo - Noi tutti compariremo davanti al tribunale di Cristo: Lumen gentium 48: Congiunti ... con Cristo nella Chiesa e contrassegnati dallo Spirito Santo «che è il pegno della nostra eredità» (Ef 1,14), con verità siamo chiamati figli di Dio, e lo siamo veramente (cfr. 1Gv 3,1), ma non siamo ancora apparsi con Cristo nella gloria (cfr. Col 3,4), nella quale saremo simili a Dio, perché lo vedremo qual è (cfr. 1Gv 3,2). Pertanto, «finché abitiamo in questo corpo siamo esuli lontani dal Signore» (2Cor 5,6); avendo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente (cfr. Rm 8,23) e bramiamo di essere con Cristo (cfr. Fil 1,23). Dalla stessa carità siamo spronati a vivere più intensamente per lui, il quale per noi è morto e risuscitato (cfr. 2 Cor 5,15). E per questo ci sforziamo di essere in tutto graditi al Signore (cfr. 2 Cor 5,9) e indossiamo l’armatura di Dio per potere star saldi contro gli agguati del diavolo e resistergli nel giorno cattivo (cfr. Ef 6,11-13). Siccome poi non conosciamo il giorno né l’ora, bisogna che, seguendo l’avvertimento del Signore, vegliamo assiduamente, per meritare, finito il corso irrepetibile della nostra vita terrena (cfr. Eb 9,27), di entrare con lui al banchetto nuziale ed essere annoverati fra i beati (cfr. Mt 25,31-46), e non ci venga comandato, come a servi cattivi e pigri (cfr. Mt 25,26), di andare al fuoco eterno (cfr. Mt 25,41), nelle tenebre esteriori dove «ci sarà pianto e stridore dei denti» (Mt 22,13 e 25,30). Prima infatti di regnare con Cristo glorioso, noi tutti compariremo «davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno il salario della sua vita mortale, secondo quel che avrà fatto di bene o di male» (2Cor 5,10), e alla fine del mondo «usciranno dalla tomba, chi ha operato il bene a risurrezione di vita, e chi ha operato il male a risurrezione di condanna» (Gv 5,29; cfr. Mt 25,46).
 
Prima Lettura: La preghiera di Mosè, mediatore tra Israele e Dio, salva il popolo infedele: come “tutte le mediazioni, essa ha il potere di rivelare e di nascondere. Nel mondo, Dio non è accessibile all’uomo, se non attraverso le mediazioni; in esse egli si rende presente e, insieme, resta nel mistero, poiché nessuna mediazione è così trasparente da lasciarlo vedere faccia a faccia. Grazie però a queste mediazioni, Dio viene incontro all’uomo attraverso quello stesso mondo in cui egli vive” (Angel Gonzales).
 
Vangelo
Come si raccoglie la zizzania e la si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo.
 
Angelico Poppi (I Quattro Vangeli): Dopo la prima conclusione, ha inizio una nuova sezione del discorso, riservata ai discepoli. Infatti Gesù rientrò nella casa (probabilmente di Pietro), nella sua dimora abituale a Cafarnao, dalla quale era uscito (cf. 13,1). Mt con il termine casa forse intende alludere al luogo ordinario della catechesi cristiana. Dietro richiesta dei discepoli, Gesù spiega loro la parabola della zizzania. La pericope si articola in due parti: dapprima per bocca di Gesù viene illustrato il significato simbolico d’ogni termine della parabola, che in tale maniera risulta trasformata in allegoresi (vv. 37-39); poi con un linguaggio impressionante dalle forti tinte apocalittiche si fa riferimento al giudizio finale, nel quale avrà luogo la condanna degli iniqui e la glorificazione dei giusti (vv. 40-43). Nella spiegazione della parabola il ruolo del seminatore e del giudice non viene attribuito a Dio, bensì al «Figlio dell’uomo».
La parabola, oltre che giustificare l’atteggiamento tollerante di Gesù verso i peccatori, aveva lo scopo di illustrare come la sua attività corrispondesse al tempo della semina, al quale sarebbe seguito con certezza quello discriminatorio della mietitura. La spiegazione fa convergere l’attenzione del lettore sulla separazione dei buoni dai cattivi nel giorno del giudizio finale. Nel tempo postpasquale la parabola venne riletta in senso cristologico e ecclesiale.
 
Dal Vangelo secondo Matteo
Mt 13,36-43
 
In quel tempo, Gesù congedò la folla ed entrò in casa; i suoi discepoli gli si avvicinarono per dirgli: «Spiegaci la parabola della zizzania nel campo».
Ed egli rispose: «Colui che semina il buon seme è il Figlio dell’uomo. Il campo è il mondo e il seme buono sono i figli del Regno. La zizzania sono i figli del Maligno e il nemico che l’ha seminata è il diavolo. La mietitura è la fine del mondo e i mietitori sono gli angeli. Come dunque si raccoglie la zizzania e la si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti quelli che commettono iniquità e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchi, ascolti!».
 
Parola del Signore.
 
La spiegazione della parabola della zizzania è data dallo stesso evangelista: l’uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo è il Cristo, il campo è il mondo e il buon seme i figli del regno, la mietitura è il tempo del giudizio (cfr. Ger 51,33; Gl 4,13; Os 6,11). Il nemico è il diavolo, il quale, a differenza dei servi che dormono, è l’irrequieto, l’insonne, colui che «come leone ruggente va in giro, cercando chi divorare» (1Pt 5,8). Il Figlio dell’uomo semina di giorno, il nemico di notte. Da qui si deduce che lì dove semina Dio, semina anche Satana: così è, bisogna arrendersi «alla Parola di Dio e alle prove che la storia e la cronaca offrono ad ogni istante attraverso le edicole dei giornali, le vetrine delle librerie, il piccolo e il grande schermo. I “fiori del male” sono visibili in tutte queste aiuole; se ci sono gli effetti, ci sarà una causa, ci sarà un seminatore di zizzania e un coltivatore di malerba» (Rosario F. Esposito). Conoscere ciò è un ottimo antidoto a un falso ottimismo. La parabola, al di là del suo vero intento, dà diversi spunti di riflessione. È un invito alla vigilanza, una buona virtù che può limitare efficacemente l’azione nefanda del «nemico» nel mondo e nella Chiesa. Ma è anche vero che i «figli di questo mondo verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce» (Lc 16,8), da qui il monito evangelico sempre attuale: noi «non apparteniamo alla notte, né alle tenebre. Non dormiamo dunque come gli altri, ma vigiliamo e siamo sobri» (1Ts 5,5-6). Il regno, finché dura questo mondo, è composto da grano e zizzania.
In questa luce, nell’insegnamento evangelico della parabola del grano e della zizzania è nascosta «una lezione di pazienza perché non sta a noi decidere chi è il buono e chi è il cattivo, anche perché la parabola ci sottolinea l’aspetto escatologico della crescita, quando si realizzerà il vero discernimento; ma vi è anche la consapevolezza del valore del “seme”, da parte del padrone, perché sa bene che alla “fine” la zizzania sarà estirpata e bruciata» (G. Carata). A conclusione, il discepolo deve imparare ad avere e ad usare pazienza, predicare il pentimento e il perdono, imitando il buon Dio, il quale non gode «della morte dell’empio, ma che l’empio desista dalla sua condotta e viva» (Ez 33,11).
 
Jean Corbon e Pierre Grelot (Giudizio in Dizionario di Teologia Biblica): Nel giudaismo contemporaneo a Gesù, l’attesa del giudizio di Dio, nel senso escatologico del termine, era un fatto generale, quantunque la sua rappresentazione concreta non fosse uniforme e coerente. Alle soglie del vangelo, Giovanni Battista vi fa appello quando minaccia i suoi uditori dell’*ira ventura e fa loro pressione affinché ricevano il suo battesimo in segno di penitenza (Mt 3, 7-12 par.). Pur ricollegandovisi strettamente, la predicazione di Gesù, e poi quella degli apostoli, ne modificano seriamente i dati, perché, a partire dal momento in cui Gesù appare nel mondo, gli ultimi tempi sono inaugurati: il giudizio escatologico è già in atto, quantunque occorra attendere il ritorno glorioso di Cristo per vederlo compiersi pienamente.
IL GIUDIZIO NEI VANGELI - Nei sinottici, la predicazione di Gesù si riferisce frequentemente al giudizio dell’ultimo giorno. Allora tutti gli uomini dovranno rendere conti (cfr. Mt 25, 14-30). Una condanna rigorosa attende gli scribi ipocriti (Mc 12, 40 par.), le città del lago che non hanno ascoltato la predicazione di Gesù (Mt 11, 20-24), la generazione incredula che non si è convertita alla sua voce (12, 39-42), le città che non accoglieranno i suoi inviati (10, 14 s). Il giudizio di Sodoma e Gomorra non sarà nulla in confronto al loro (10, 23 s); essi subiranno il giudizio della Geenna (23, 33). Questi insegnamenti pieni di minacce mettono in rilievo la motivazione principale del giudizio divino: l’atteggiamento assunto dagli uomini di fronte al vangelo. L’atteggiamento verso il prossimo conterà altrettanto: secondo la legge mosaica, ogni omicida era passibile di tribunale umano; secondo la legge evangelica, occorrerà molto meno per essere passibili della Geenna (Mt 5, 21 s)! Bisognerà rendere conto di ogni calunnia (12, 36). Si sarà giudicati con la stessa misura che si sarà applicata al prossimo (7, 1-5). Ed il quadro di queste assise solenni, in cui il figlio dell’uomo funzionerà da giustiziere (25, 31-46), mostra gli uomini accolti nel regno o consegnati alla pena eterna, secondo l’amore o l’indifferenza che avranno dimostrato verso il prossimo. C’è tuttavia un delitto che, più di qualunque altro, chiama il giudizio divino. È quello con cui l’incredulità umana ha raggiunto il colmo della malizia in un simulacro di giudizio legale: il processo e la condanna a morte di Gesù (Mc 14, 63 par.; cfr. Lc 24, 20; Atti 13, 28). Durante questo giudizio iniquo, Gesù si è rimesso a colui che giudica con giustizia (1 Piet 2, 23); quindi Dio, risuscitandolo, lo ha ristabilito nei suoi diritti. Ma l’esecuzione di questa sentenza ingiusta ha richiesto, in cambio, una sentenza di Dio contro l’umanità colpevole. È sintomatico il fatto che la cornice, in cui il vangelo di Matteo colloca la morte di Gesù, coincide con lo scenario tradizionale del giudizio nell’escatologia del VT (Mt 27, 45. 51 ss). La morte di Gesù è quindi il momento in cui il mondo è giudicato; la storia successiva, fino all’ultimo giorno, non farà che esplicitare questa sentenza. Essa, secondo la testimonianza di Gesù stesso, colpirà dapprima «coloro che sono in Giudea», i primi colpevoli (24, 15 ss par.); ma questo non sarà che un preludio ed un segno, che annunzierà l’avvento finale del figlio dell’uomo, giudice del grande giorno (24, 29 ss).
Il condannato della passione, vittima del peccato del mondo, pronunzierà allora contro il mondo peccatore una condanna clamorosa.
 
La continua vigilanza: «Anche questo è proprio del sistema diabolico, che consiste nel mescolare l’errore e la menzogna alla verità, in modo che, sotto la maschera ben colorata della verosimiglianza, l’errore possa apparire verità e possa facilmente sorprendere e ingannare coloro che non sanno resistere alla seduzione, o non comprendono l’insidia. Ecco perché Gesù chiama il seme del demonio «zizzania» e non con altro nome, poiché quest’erba è assai simile, in apparenza, al frumento. E subito dopo ci indica il modo in cui il diavolo attua i suoi tranelli e coglie le anime di sorpresa. “Or mentre gli uomini dormivano” [Mt 13,25]: queste parole mostrano il pericolo cui sono esposti coloro che hanno la responsabilità delle anime, ai quali in particolare è affidata la difesa del campo; non solo però costoro, ma anche i fedeli. Cristo precisa inoltre che l’errore appare dopo lo stabilirsi della verità, come anche l’esperienza dei fatti può testimoniare. Dopo i profeti sono apparsi gli pseudoprofeti, dopo gli apostoli i falsi apostoli, e dopo Cristo l’anticristo. Se il demonio non vede che cosa deve imitare, o a chi deve tendere le sue insidie, non saprebbe in qual modo nuocerci. Ma ora che ha visto la divina seminagione di Gesù fruttificare nelle anime il cento, il sessanta e il trenta per uno intraprende un’altra strada; poiché si è reso conto che non può strappare ciò che ha radici ben profonde, né può soffocarlo e neppure bruciarlo, allora tende un altro insidioso inganno, spargendo la sua semente» (Giovanni Crisostomo, In Matth., 46,1).
 
Il Santo del giorno - 1 Agosto 2023 - Martirologio Romano: Memoria di sant’Alfonso Maria de’ Liguori, vescovo e dottore della Chiesa, che rifulse per la sua premura per le anime, i suoi scritti, la sua parola e il suo esempio. Al fine di promuovere la vita cristiana nel popolo, si impegnò nella predicazione e scrisse libri, specialmente di morale, disciplina in cui è ritenuto un maestro, e, sia pure tra molti ostacoli, istituì la Congregazione del Santissimo Redentore per l’evangelizzazione dei semplici. Eletto vescovo di Sant’Agata dei Goti, si impegnò oltremodo in questo ministero, che dovette lasciare quindici anni più tardi per il sopraggiungere di gravi malattie. Passò, quindi, il resto della sua vita a Nocera dei Pagani in Campania, tra grandi sacrifici e difficoltà.  
 
O Dio, che hai fatto del santo vescovo Alfonso Maria
un fedele ministro e apostolo dell’Eucaristia,
concedi ai tuoi fedeli di parteciparvi assiduamente
per cantare in eterno la tua lode.
Per Cristo nostro Signore.
 

 31 Luglio 2023
 
Lunedì XVII Settimana T. O.
 
Sant’Ignazio di Loyola, Memoria
 
Es 32,15-24.30-34; Salmo Responsoriale Dal Salmo 105 (106); Mt 13,31-35
 
Colletta
O Dio, che hai chiamato sant’Ignazio [di Loyola]
a operare nella Chiesa per la maggior gloria del tuo nome,
concedi anche a noi, con il suo aiuto e il suo esempio,
di combattere in terra la buona battaglia della fede
per ricevere con lui in cielo la corona dei santi.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
L’adorazione del vitello d’oro: Evangelii gaudium 54-55: Per poter sostenere uno stile di vita che esclude gli altri, o per potersi entusiasmare con questo ideale egoistico, si è sviluppata una globalizzazione della indifferenza. Quasi senza accorgercene, diventiamo incapaci di provare compassione dinanzi al grido di dolore degli altri, non piangiamo più davanti al dramma degli altri né ci interessa curarci di loro, come se tutto fosse una responsabilità a noi estranea che non ci compete. La cultura del benessere ci anestetizza e perdiamo la calma se il mercato offre qualcosa che non abbiamo ancora comprato, mentre tutte queste vite stroncate per mancanza di possibilità ci sembrano un mero spettacolo che non ci turba in alcun modo. Una delle cause di questa situazione si trova nella relazione che abbiamo stabilito con il denaro, poiché accettiamo pacificamente il suo predomino su di noi e sulle nostre società. La crisi finanziaria che attraversiamo ci fa dimenticare che alla sua origine vi è una profonda crisi antropologica: la negazione del primato dell’essere umano! Abbiamo creato nuovi idoli. L’adorazione dell’antico vitello d’oro (cfr. Es 32,1-35) ha trovato una nuova e spietata versione nel feticismo del denaro e nella dittatura di una economia senza volto e senza uno scopo veramente umano. La crisi mondiale che investe la finanza e l’economia manifesta i propri squilibri e, soprattutto, la grave mancanza di un orientamento antropologico che riduce l’essere umano ad uno solo dei suoi bisogni: il consumo.
 
Prima Lettura: “Dietro il racconto, vi è forse il ricordo d’un atto d’infedeltà nel deserto, atto che non è possibile ricostruire. In sé, questa forma di culto non è propria dei nomadi, ma delle popolazioni sedentarie nella terra fertile di Canaan. Sta comunque a testimoniare un fenomeno che è reale nel deserto e in ogni situazione: l’infedeltà del popolo all’alleanza. Il popolo afferma qui un allontanamento da Dio, come cosa che va facendo fin dalla sua stessa origine” (Angel Gonzales).
 
Vangelo
Il granello di senapa diventa un albero, tanto che gli uccelli del cielo vengono a fare il nido fra i suoi rami.
 
La parabola del granello di senape e del lievito mettono in evidenza il sorprendente contrasto tra i piccoli inizi del regno e della sua espansione. Un monito alla pazienza a probabili ritardi della crescita del regno di Dio, e anche un invito ad avere fiducia nell’azione di Dio, una forza intensiva ed estensiva che arriva a trasformare e a sconvolgere l’intera vita dell’uomo.
 
Dal Vangelo secondo Matteo
Mt 13,31-35
 
In quel tempo, Gesù espose alla folla un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un granello di senape, che un uomo prese e seminò nel suo campo. Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande delle altre piante dell’orto e diventa un albero, tanto che gli uccelli del cielo vengono a fare il nido fra i suoi rami».
Disse loro un’altra parabola: «Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata».
Tutte queste cose Gesù disse alle folle con parabole e non parlava ad esse se non con parabole, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta:
«Aprirò la mia bocca con parabole, proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo».
 
Parola del Signore.
 
 
Benedetto Prete (I Quattro Vangeli): 31 Si ha la stessa formula introduttiva come in 13, 24. Un grano di senape; non il seme costituisce l’elemento comparativo, bensì l’intera situazione descritta nella parabola. Gesù richiama l’attenzione sopra una proprietà del seme (la piccolezza del grano di senape), non già sopra altre qualità, come il sapore piccante della senape. Il seme di senape è la brassica nigra dei botanici.
32 Matteo stabilisce un paragone tra il seme e la crescita di esso. L’idea fondamentale per l’evangelista consiste nel rilevare la modestia degli inizi e la grandezza dello sviluppo finale. Esso è il più piccolo di tutti i semi; Gesù non intende parlare come un botanico (infatti il grano di senape non è il seme più piccolo che l’uomo conosca), ma usa il linguaggio popolare per il quale il chicco di senape indicava proverbialmente un oggetto piccolissimo (cf. Mt., 17, 20). Diviene albero; la senape è una leguminosa, essa può raggiungere qualche metro di altezza e diviene legnosa alla base. Gli uccelli avidi del seme di senape vengono a posarsi sopra i piccoli rami dell’arbusto. L’ultima parte del versetto contiene delle reminiscenze di testi dell’Antico Testamento (cf. Ezechiele, 17, 22-24; Daniele, 4,9 [12]-18 [21]; Salmo, 104 [103], 12). La breve parabola, come ci è trasmessa da Matteo, intende insegnare che il regno dei cieli ha inizi modesti, destinati ad avere uno sviluppo imponente. L’attività del Messia, all’inizio, non appare come un evento di importanza mondiale, ma è limitata in un modesto angolo della terra; essa tuttavia si sviluppa smisuratamente ed oltre il prevedibile.
33 Il regno dei cieli è simile al lievito; il lievito indica una potenza fermentatrice che opera segretamente e penetra ovunque. Tre staia di farina; la quantità della massa da fermentare è enorme. Il σάτον (aramaico sa’ta’; ebraico: se’ah) è una terza parte dell’efah, misura di capacità, di litri 39 e frazione di litro; il sato (staia) è quindi 13 litri. Lo Jülicher ed il Loisy ritengono che al tempo di Cristo le misure avessero perduto metà del loro valore, quindi pensano ad una ventina di litri di farina. Gesù poté accentuare l’idea di misura scegliendone una iperbolica per indicare la forza fermentatrice del lievito. Fino a che il tutto non sia fermentato; il rilievo finale indica lo scopo della parabola: il lievito trasforma interiormente la massa e la rende sapida. La vicinanza della parabola del lievito con quella del grano di senape ha indotto qualche esegeta a vedere nel lievito un insegnamento simile a quello contenuto nell’immagine del chicco di senape, cioè il contrasto tra un inizio modesto ed un risultato imponente; Gesù invece nella parabola del lievito intende stabilire questo paragone: il regno dei cieli ha la virtù di trasformare tutte le anime ch’esso riesce a raggiungere. L’insegnamento contenuto nella breve parabola ha una valore incalcolabile per l’economia divina: il vangelo è un potere che trasforma interiormente le anime. S. Girolamo pensa che la donna della parabola indichi la Chiesa, la quale mette il lievito evangelico nelle anime, ma questa identificazione è ispirata dall’amore all’interpretazione allegorica.
34-35 Matteo ama rilevare che il metodo parabolico, seguito da Gesù, era stato predetto nell’Antico Testamento. La citazione è presa dal Salmo, 78 (77), 2 ed è un adattamento dell’evangelista alla situazione che egli presenta. La citazione non è secondo il testo ebraico, né secondo la versione dei LXX. Il salmista dice:
io aprirò la mia bocca alle sentenze, parlerò degli (eventi) misteriosi [dei tempi antichi. Con questa espressione l’autore del salmo intende dire che egli evocherà in esso gli avvenimenti della storia del popolo eletto. Matteo invece rifacendosi al termine ebraico mashal (che i LXX rendono con παραβολή) traduce: aprirò la mia bocca in parabole proferirò cose nascoste fin dalle [origini (del mondo).

Quando Mosè si fu avvicinato all’accampamento, vide il vitello e le danze In un certo senso la Bibbia è la storia del popolo di Dio che si stacca dagli idoli. Un giorno Jahvè ha «preso» Abramo, che «serviva altri dèi» (Gios 24, 2s; Giudit 5, 6ss). Ma questa rottura, pur essendo radicale, non è fatta una volta per sempre: i suoi discendenti la dovranno sempre rifare (Gen 35, 2ss; Gios 24, 14-23); devono rinnovare continuamente la loro opzione e seguire l’Unico, invece di «andar dietro alla vanità» (Ger 2, 2-5). Di fatto l’idolatria può insinuarsi anche all’interno del jahvismo. Già nel decalogo Israele viene a sapere che non deve fabbricare immagini (Es 20, 3ss; Deut 5, 7ss), perché l’uomo solo è l’immagine autentica di Dio (Gen 1, 26 s). Ad esempio, il vitello che egli scolpisce per simboleggiare la forza divina (Es 32; 1 Re 12, 28; cfr. Giud 17 - 18), con l’ira divina gli attirerà l’ironia sferzante dei profeti (Os 8, 5; 13, 2). Sia che si tratti di falsi dèi oppure della sua propria immagine, Dio punisce l’infedeltà (Deut 13); abbandona coloro che lo abbandonano o lo mettono in caricatura, in balia delle calamità nazionali (Giud 2, 11-15; 2 Re 17, 7-12; Ger 32, 28-35; Ez 1; 20; 23). Quando l’esilio viene a confermare tragicamente questa visione profetica della storia, il popolo rinsavisce, senza che tuttavia spariscano idolatri (Sal 31, 7) e negatori di Dio (Sal 10, 4. 11 ss). Infine, al tempo dei Maccabei, servire gli idoli (1Mac 1, 43) significa aderire ad un umanesimo pagano incompatibile con la fede che Jahvè si aspetta dai suoi: bisogna scegliere tra gli idoli ed il martirio (2Mac 6, 18-7, 42; cfr. Dan 3). Il NT traccia lo stesso itinerario. Strappati agli idoli per rivolgersi al vero Dio (1Tess 1, 9), i fedeli sono continuamente tentati di ricadere nel paganesimo che impregna la vita corrente (cfr. 1Cor 10, 25-30). Bisogna fuggire l’idolatria per entrare nel regno (1Cor 10, 14; 2Cor 6, 16; Gal 5, 20; 1Gv 5, 21; Apoc 21, 8; 22, 15). La Chiesa, nella quale continua la lotta spietata tra Gesù e il mondo, vive una storia segnata dalla tentazione di adorare «l’immagine della bestia» (Apoc 13, 14; 16, 2), di accettare che sia innalzato nel tempio 1’«idolo devastatore» (Mt 24, 15; cfr. Dan 9, 27).
 
Tutte queste cose Gesù disse alle folle con parabole e non parlava ad esse se non con parabole - Alice Baum: Parabola - Genere retorico nel quale un dato pensiero viene illustrato servendosi di una immagine. Il termine greco parabolé usato nel NT significa accostamento. Nelle parabole vengono accostate due realtà, una religiosa, la “metà oggettiva”, e una tratta dalla vita quotidiana dell’uomo, la “metà illustrativa”. Laddove la metà oggettiva, ciò che veramente la parabola vuol dire, rimane il più delle volte inespressa. L’uditore, o il lettore, la deve ricavare lui stesso dalla metà illustrativa. Così per es. nella parabola del seme che spunta da solo (Mc 4,26-29) la metà oggettiva va completata con l’immagine: il regno di Dio viene in maniera così inarrestabile come la messe dopo la semina.
La parabola va distinta dall’allegoria. Mentre in un’allegoria ogni tratto dell’immagine ha un significato proprio, a ciò che è presentato nella parabola corrisponde un’unica realtà religiosa.
Nei discorsi di Gesù in parabole possiamo distinguere tre diverse forme. La parabola vera e propria si serve di un procedimento, o di un dato di fatto per esprimere una verità religiosa (p. del granello di senape, la pecora smarrita e altre). La cosiddetta parabola è una storia inventata che racconta un caso singolo, talvolta fuori del comune (dieci vergini, Mt 25,1-13; figlio prodigo - o meglio: padre amorevole -, Lc 15,1132). Nel racconto esemplare non viene traslata un’immagine o una storia nella realtà religiosa, “ma un pensiero religioso-morale viene illustrato per mezzo di un caso singolo”. Non si tratta tanto della conoscenza della verità, quanto del retto agire (buon samaritano, Lc 10,30-37; fariseo e pubblicano, Lc 18,9-14). Le parabole di Gesù fanno parte dello “strato originario della tradizione”. Per i suoi uditori non erano nulla di nuovo. Le si trovano anche nell’AT e nell’insegnamento rabbinico. Nuovo era il contenuto: il regno di Dio che viene e la pretesa di Gesù di esserne il portatore. Le parabole rispecchiano l’ambiente palestinese in maniera così chiara che non si può dubitare della loro autenticità. Una spiegazione obiettiva non è tuttavia possibile se non si tiene presente che le parabole hanno un triplice Sitz im Leben, vale a dire vanno comprese a partire da tre diverse situazioni: l’annuncio di Gesù, la vita della chiesa primitiva e la prospettiva teologica del singolo evangelista. 
 
Giovanni Crisostomo (In Matth. 46,2): Il regno dei cieli è simile a un granello di senape che un uomo prende e semina nel suo campo” [Mt 13,31]. Siccome Gesù aveva detto che i tre quarti della semente sarebbero andati perduti, che una sola parte si sarebbe salvata e che nella parte restante si sarebbero verificati tanti gravi danni, i suoi discepoli potevano bene chiedergli: Ma quali e quanti saranno i fedeli? Egli allora toglie il loro timore inducendoli alla fede mediante la parabola del granello di senape e mostrando loro che la predicazione della buona novella si diffonderà su tutta la terra. Sceglie per questo scopo un’immagine che ben rappresenta tale verità. “È vero che esso è il più piccolo di tutti i semi; ma cresciuto che sia, è il più grande di tutti i legumi e diviene albero, tanto che gli uccelli dell’aria vengono a fare il nido tra i suoi rami” [Mt 13,32]. Cristo voleva presentare il segno, la prova della loro grandezza. Così - egli spiega - sarà anche della predicazione della buona novella. In realtà i discepoli erano i più umili e deboli tra gli uomini, inferiori a tutti; ma, siccome in loro c’era una grande forza, la loro predicazione si è diffusa in tutto il mondo.
 
Santo del giorno: 31 Luglio 2017: Sant’Ignazio di Loyola, Sacerdote: Il grande protagonista della Riforma cattolica nel XVI secolo, nacque ad Azpeitia, un paese basco, nel 1491. Era avviato alla vita del cavaliere, la conversione avvenne durante una convalescenza, quando si trovò a leggere dei libri cristiani. All’abbazia benedettina di Monserrat fece una confessione generale, si spogliò degli abiti cavallereschi e fece voto di castità perpetua. Nella cittadina di Manresa per più di un anno condusse vita di preghiera e di penitenza; fu qui che vivendo presso il fiume Cardoner decise di fondare una Compagnia di consacrati. Da solo in una grotta prese a scrivere una serie di meditazioni e di norme, che successivamente rielaborate formarono i celebri Esercizi Spirituali. L’attività dei Preti pellegrini, quelli che in seguito saranno i Gesuiti, si sviluppa un po’in tutto il mondo. Il 27 settembre 1540 papa Paolo III approvò la Compagnia di Gesù. Il 31 luglio 1556 Ignazio di Loyola morì. Fu proclamato santo il 12 marzo 1622 da papa Gregorio XV. (Avvenire)
 
Il sacrificio di lode
che ti abbiamo offerto, o Signore, in rendimento di grazie
nella memoria di sant’Ignazio,
orienti la nostra vita alla lode perenne del tuo nome.
Per Cristo nostro Signore.
 
 30 Luglio 2023
 
XVII Domenica T. O.
 
1Re 3,5.7-12; Salmo Responsoriale Dal Salmo 118 (119); Rm 8,28-30; Mt 13,44-52
 
Colletta
O Padre, fonte di sapienza,
che in Cristo ci hai svelato il tesoro nascosto
e ci hai donato la perla preziosa,
concedi a noi un cuore saggio e intelligente,
perché, fra le cose del mondo, sappiamo apprezzare
il valore inestimabile del tuo regno.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Catechismo degli Adulti - Viene il regno di Dio [106] Capita spesso di leggere o ascoltare una pagina dei Vangeli. Forse ricordiamo qualche parabola e qualche detto, che ci hanno profondamente colpito. Rischiamo però di non coglierne esattamente il significato e la portata, se non li collochiamo nella prospettiva originaria. È importante, allora, scoprire qual era l’obiettivo fondamentale di Gesù, qual era il tema centrale della sua predicazione.
[107] Gesù di Nàzaret non insegna una visione del mondo, ricavata dalla comune esperienza umana, un insieme di verità religiose e morali, frutto di riflessione particolarmente penetrante. Si presenta piuttosto come il messaggero di un avvenimento appena iniziato e in pieno svolgimento. Il suo, prima di essere un insegnamento, è un annuncio, un grido di gioia: viene il regno di Dio! Una semplice frase, collocata in apertura del vangelo di Marco, riassume tutta la sua predicazione: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo» (Mc 1,15). Questa è la buona notizia che Gesù ha da comunicare. Questa è la causa per cui vive, la ferma speranza che lo sostiene.
 
Prima Lettura: Salomone, tra i tanti re che si affacciarono sulle vicende politiche del popolo eletto, eccelse per la sua sapienza: ebbe «saggezza e intelligenza molto grandi e una mente vasta come la sabbia che è sulla spiaggia del mare» (1Re 5,9). Tanta ricchezza intellettuale e spirituale non è il frutto di sforzi umani, ma un dono di Dio. Un dono che non mette l’uomo al riparo da certi errori umani, anche fatali. Se l’avvio del regno di Salomone è glorioso, la sua condotta religiosa ed economica sarà però disastrosa. Alla sua morte (932 a.C.) il regno si divide (Cf. 1Re 12), avviando così il processo di dissoluzione della potenza militare d’Israele.
 
Seconda Lettura: Paolo sintetizza il contenuto del progetto divino. Predestinare qui ha il significato di decidere “fin dall’inizio”: Dio, fin dall’inizio, ha deciso e voluto che l’uomo sia conforme all’immagine del Figlio.
Questa volontà salvifica è un tratto dell’amore del Padre celeste verso le sue creature che vuole salve e reintrodotte come figli nel suo Regno. In ogni caso, l’uomo, per il libero arbitrio, può accettare o rifiutare la volontà salvifica divina.

Vangelo
Vende tutti i suoi averi e compra quel campo.
 
Nel Vangelo odierno vi è un chiaro nesso tra le due parabole, quella del tesoro e quella della perla, e la prima lettura, che è tratta dal primo libro dei Re: dinanzi al regno bisogna porsi con un atteggiamento sapienziale. È sapiente colui che vende tutto per venire in possesso del regno dei cieli.
 
Dal Vangelo secondo Matteo
Mt 13,44-52
 
In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: «Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo. Il regno dei cieli è simile anche a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra. Ancora, il regno dei cieli è simile a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci. Quando è piena, i pescatori la tirano a riva, si mettono a sedere, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi. Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. Avete compreso tutte queste cose?». Gli risposero: «Sì».
Ed egli disse loro: «Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche».
 
Parola del Signore.
 
Il regno dei cieli è simile - Molti, nei tempi passati, per salvare i loro averi da ruberie, soprattutto in periodo di guerre o di calamità naturali, erano soliti nasconderli sottoterra. Un contadino, un salariato, nel vangare il terreno si imbatte proprio in uno di questi tesori nascosti e per venirne in possesso lecitamente, «va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo». La parabola, comunque, non vuole dare indicazioni morali di sorta.
Nel racconto evangelico, il tesoro è il regno dei cieli per il quale l’uomo deve essere sollecito nel «vendere tutti i suoi averi». Ma il «fulcro dottrinale della parabola... non consiste per sé nei sacrifici affrontati per il regno, ma nell’invito pressante di Gesù agli uditori di riconoscere nella sua opera l’azione di Dio nel mondo per l’attuazione del regno. Questo non esclude, soprattutto nella redazione matteana, un atto decisionale, che comporta per il discepolo una scelta coraggiosa per un orientamento di vita e una condotta esemplare nel presente» (A. Poppi).
Va sottolineata la gioia, che caratterizza i sentimenti di coloro che entrano in possesso del regno.
La parola gioia corrisponde all’ebraico simhah, che vuol dire soddisfazione dell’anima. L’Antico Testamento ama esaltare anche le gioie più umili della vita: quella del cibo, del riposo, del divertimento, del vino (Cf. Sal 104,5; Sir 31,27; Is 24,11).
La gioia di essere genitori di una numerosa prole (Cf. Sal 127,3; Sir 25,7; Gv 16,21). La gioia della fedeltà della sposa, del calore della casa e quella che scaturisce da una vera amicizia. Ma «la gioia vera il giusto la trova in Dio, nella sua parola, nella sua legge, nella sua alleanza indefettibile... La gioia del pio israelita, oltre che nell’intimità con Dio, sgorga dalla contemplazione delle meraviglie da lui operate nell’universo e nella storia del suo popolo. Una delle gioie più intense per Israele proviene dall’esercizio del culto reso al Dio vivo, presente in seno al popolo nel suo tempio» (G. Manzoni).
La vera gioia inonderà il mondo con la nascita del Cristo: Giovanni Battista esulta di gioia nel grembo della madre (Cf. Lc 1,41.44); Maria, la madre di Gesù, erompe in un canto di gioia, che celebra Dio padre dei piccoli e salvatore dei poveri e degli umili (Cf. Lc 1,46-55). La nascita di Giovanni Battista rallegra il cuore degli anziani genitori e dei loro conoscenti (Cf. Lc 1,56-57). La nascita di Gesù viene annunziata ai pastori come «una grande gioia, che sarà di tutto il popolo» (Lc 2,10).
I motivi di questa gioia sono evidenti: oramai in Gesù, il regno di Dio è in mezzo agli uomini, esso, come testé ci ha ricordato Matteo, è il tesoro per il quale si deve essere disposti a dare tutto gioiosamente, «perfino la vita» (Lc 14,26).
Se, nel ritrovamento del tesoro, la fortuna ha giocato un ruolo predominante, nella parabola della perla è il mercante che va in cerca di essa. Il comportamento di quest’ultimo, comunque, è uguale a quello del salariato: «trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra ».
Per l’Antico Testamento «vale più scoprire la sapienza che le gemme» (Gb 28,18), così per il Nuovo Testamento: Gesù è la sapienza increata fatta carne (Cf. Gv 1,14; 1Cor 1,30) che si fa trovare «da chiunque la ricerca. Previene per farsi conoscere, quanti la desiderano» (Sap 6,12-13). Per porsi alla sua sequela, gli uomini devono essere pronti a rinunciare a tutto quello che possiedono (Cf. Mt 19,16-22). E poi, con somma diligenza, una volta incontrata «la sapienza non lasciarla» (Sir 6,24-31), per non scivolare nel baratro dell’infelicità e dell’eterna tristezza: «Acquista la sapienza [...], non allontanartene mai. Non abbandonarla ed essa ti custodirà, amala e veglierà su di te. Principio della sapienza: acquista la sapienza; a costo di tutto ciò che possiedi» (Prov 4,5-7).
La parabola della rete, simile alla parabola della zizzania, rimanda il lettore al giudizio finale quando i buoni saranno separati dai cattivi: i primi entreranno nel regno di Dio, i reprobi andranno «nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli» (Mt 25,31-46). Se è vero che nella fase terrena del regno i cattivi si mescoleranno ai buoni, la zizzania al grano, è anche vero che alla fine dei tempi tutti dovremo comparire «davanti al tribunale di Cristo, ciascuno per ricevere la ricompensa delle opere compiute finché era nel corpo, sia in bene che in male» (2Cor 5,10). Il detto, che conclude il racconto evangelico, è da applicare ai responsabili delle comunità. Lo scriba divenuto discepolo del regno dei cieli è colui che conosce sia l’insegnamento di Gesù, il nuovo, sia la Thorà, l’antico, interpretati e completati dal nuovo.
In questo modo, non si abolisce l’insegnamento degli scribi, un patrimonio pur sempre prezioso, ma è la fede in Cristo a dargli una ricchezza nuova.
 
J. GUILLET (Giustificazione, in Dizionario di Teologia Biblica): Giustificati in Gesù Cristo - 1. L’impotenza della legge - Il legalismo giudaico in cui fu educato il fariseo Paolo credeva, se non proprio di conseguire ciò che forse il Vecchio Testamento fa presentire, almeno di dovervi tendere: poiché la legge è l’espressione della volontà di Dio ed è alla portata dell’uomo (Cf. Deut 30,11 - infatti, alla portata della sua intelligenza: intelligibile e facile da conoscere), basta che l’uomo la osservi integralmente per potersi presentare davanti a Dio ed essere giustificato. L’errore del fariseo non sta in questo sogno di poter trattare Dio secondo la giustizia, come merita di essere trattato; sta nell’illusione di credere di potervi giungere con le proprie risorse, di voler trarre da se stesso l’atteggiamento che raggiunge Dio e che Dio attende da noi. Questa perversione essenziale del cuore, che vuole avere «il diritto di gloriarsi di fronte a Dio» (Rom 3,27), si traduce in un errore fondamentale nell’interpretazione dell’alleanza, che dissocia la legge dalle promesse, scorgendo nella legge il mezzo di essere giusto di fronte a Dio e dimenticando che questa stessa fedeltà non può essere se non opera di Dio, attuazione della sua parola.
2. Gesù Cristo - Ora Gesù Cristo fu realmente «il giusto» (Atti 3,14); fu davanti a Dio esattamente ciò che Dio attendeva, il servo nel quale il Padre poté finalmente compiacersi (Is 42,1; Mt 3,17); seppe sino alla fine «compiere ogni giustizia» (Mt 3,15) e mori affinché Dio fosse glorificato (Gv 17,1.4), cioè apparisse dinanzi al mondo in tutta la sua grandezza ed il suo merito, degno di tutti i sacrifici e capace d’essere amato più d’ogni altra cosa (Gv 14,31). In questa morte, che sembrò quella di un reprobo (Is 53,4; Mt 27,43-46), Gesù trovò in realtà la sua giustificazione, il riconoscimento da parte di Dio dell’opera compiuta (Gv 16,10), che questi proclamò risuscitandolo e mettendolo nel pieno possesso dello Spirito Santo (1Tim 3,16).
3. La grazia - Ma la risurrezione di Gesù Cristo ha come scopo la «nostra giustificazione» (Rom 4,25).
Ciò che la legge non poteva operare, anzi presentava come categoricamente escluso, ci viene donato dalla grazia di Dio, nella redenzione di Cristo (Rom 3, 23s). Questo dono non è un semplice «come se», una condiscendenza indulgente con cui Dio, vedendo il suo Figlio unico perfettamente giustificato dinanzi a sé, accetterebbe di considerarci come giustificati, per i nostri legami con lui. Per designare un semplice verdetto di grazia e di assoluzione, Paolo non avrebbe usato la parola giustificazione, che significa invece il riconoscimento positivo del diritto contestato, la conferma della giustezza della posizione presa. Non avrebbe attribuito l’atto con cui Dio ci giustifica alla sua giustizia, ma alla sua pura misericordia. Ora la verità è questa: Dio, in Cristo, «ha voluto mostrare così la sua giustizia... ed essere giusto col giustificare chi si fonda sulla fede in Gesù» (Rom 3,26).
4. Figli di Dio - Evidentemente Dio manifesta la sua giustizia in primo luogo verso il Figlio suo «consegnato per i nostri peccati» (Rom 4,25), il quale con la sua obbedienza e la sua giustizia ha meritato per una moltitudine di uomini la giustificazione e la giustizia (Rom 5,16-19). Ma se Dio concede a Gesù Cristo di meritare la nostra giustificazione, ciò non vuol dire soltanto che acconsente, per riguardo verso di lui, a trattarci come giusti: vuol dire che in Gesù Cristo ci rende capaci di assumere l’atteggiamento esatto che egli attende da noi, di trattarlo com’egli merita, di rendergli effettivamente la giustizia alla quale egli ha diritto, in una parola di essere realmente giustificati di fronte a lui. Così Dio è giusto verso se stesso, non rinunciando in nulla all’onore ed alla gloria cui ha diritto, ed è pure giusto verso le Creature, alle quali concede per pura grazia, ma per una grazia che le tocca nel più intimo del loro essere, di trovare verso di lui l’atteggiamento giusto, di trattarlo da Padre quale egli è, di essere cioè realmente suoi figli (Rom 8,1417; 1Gv 3,1s).
 
Piccolo Dizionario Biblico - Regno di Dio - Non è un luogo ma un termine per indicare un nuovo rapporto fra Dio e l’uomo. «Entrare nel Regno» non significa perciò andare in qualche parte. Il potere regale di Dio nell’Antico Testamento era provvisorio; esso si realizza definitivamente in Cristo. Perciò la predicazione del Regno di Dio è il tema centrale della predicazione di Gesù, come essa è descritta nei primi tre vangeli. Il Regno di Dio comprende pure l’appagamento di quei desideri umani che sono destati dai movimenti non cristiani. Per esempio si oppongono al Regno di Dio la malattia, la morte, la povertà opprimente, la fatica, l’oppressione politica e sociale, la guerra. Poiché il concetto di Regno di Dio è molto generale, è difficile spiegarlo con altri concetti. Ciò che è « cristianamente tipico» nel Regno di Dio è questo: la realizzazione del fine ideale non è sperata in quanto frutto dell’opera umana, ma come dono che Dio ha promesso definitivamente per mezzo di Cristo; per esso però i cristiani possono porre le premesse, e possono pre­pararne l’avvento per mezzo di una vita e di una condotta che siano secondo le intenzioni del Reno di Dio Alcuni passi ne parlano come di un fatto che sta per venire (Mc 1,15), altri come di un fatto già presente (Lc 17,21; Mt 12,28). Il cristianesimo si trova ancor oggi in questa tensione: il principio è già posto, il fine non è stato ancora raggiunto. Nel Padre Nostro i cristiani pregano: «Venga il tuo regno» (Mt 6,10). Il compito della Chiesa è creare delle vie nel mondo perché venga il Regno di Dio (cfr. Col 4,11).
 
Ilario di Poitiers (Comm. Matth., XIII, 7): Il Regno dei cieli si può paragonare ad un tesoro nascosto in un campo ... : Dio è stato trovato in un Uomo, per comprare il quale devono essere vendute tutte le ricchezze di questo mondo. Così si acquisteranno le ricchezze eterne del tesoro celeste ... Ma bisogna osservare che il tesoro è stato trovato e nascosto, mentre certo colui che lo ha trovato avrebbe potuto portarlo via in segreto nel tempo impiegato per nasconderlo. E portandoselo via avrebbe potuto evitare la necessità di comprarlo ... Il tesoro è stato nascosto, perché doveva essere comprato anche il campo. Col tesoro nel campo infatti, come abbiamo già detto, si intende il Cristo incarnato, che viene trovato gratuitamente ... Ma non può esserci altro modo di utilizzare e di possedere questo tesoro con il campo se non pagando, poiché non si possiedono le ricchezze celesti senza sacrificare il mondo.
 
Il Santo del Giorno - 30 Luglio 2023 - San Pietro Crisologo. Siamo il riflesso di Dio in mezzo al mondo: La nostra vita è radicata nel cuore di Dio: è in esso che si trova l’origine della dignità di ogni essere umano ed è da lì che viene il mandato affidato a ogni battezzato di diventare suo testimone nella storia. A ricordarci l’importanza della scelta di Dio di dimorare in mezzo a noi oggi è san Pietro Crisologo, vescovo e dottore della Chiesa, che nei suoi scritti (ci sono giunti 180 suoi sermoni) ci ha lasciato una profonda riflessione sull’origine nobile della nostra stessa natura. Nato a Imola alla fine del IV secolo, fu consacrato vescovo di Ravenna – allora capitale dell’Impero romano d’Occidente – da papa Sisto III nel 433. Tra le questioni teologiche che furono al centro della sua opera ci fu anche quella riguardante le due nature di Cristo. Di fronte alle divisioni provocate da questo dibattito egli chiese di ascoltare il successore di Pietro, divenendo così una voce autorevole di unità per tutta la Chiesa. Nei suoi scritti, inoltre, Crisologo (letteralmente “dalle parole d’oro”) spiega in maniera efficace il mistero dell’Incarnazione, le eresie di Ario e di Eutiche, il Credo apostolico. Tra le sue omelie anche una serie dedicate alla Vergine e a san Giovanni Battista. (Avvenire)
 
O Dio, nostro Padre,
che ci hai dato la grazia di partecipare a questo divino sacramento,
memoriale perpetuo della passione del tuo Figlio,
fa’ che il dono del suo ineffabile amore
giovi alla nostra salvezza.
Per Cristo nostro Signore.
 
 29 Luglio 2023
 
Santa Marta
 
1 Gv 4,7-16; Salmo Responsoriale Dal Salmo 33 (34); Gv 11,19-27 oppure Lc 10,38-42
 
Colletta
Dio onnipotente ed eterno,
il tuo Figlio ha accettato l’ospitalità nella casa di santa Marta:
per sua intercessione concedi a noi
di servire fedelmente Cristo nei fratelli,
per essere accolti da te nella dimora del cielo.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.

Dio è amore - Lumen Gentium 42: «Dio è amore e chi rimane nell’amore, rimane in Dio e Dio in lui» (1Gv 4,16). Dio ha diffuso il suo amore nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, che ci fu dato (cfr. Rm 5,5); perciò il dono primo e più necessario è la carità, con la quale amiamo Dio sopra ogni cosa e il prossimo per amore di lui. Ma perché la carità, come buon seme, cresca e nidifichi, ogni fedele deve ascoltare volentieri la parola di Dio e con l’aiuto della sua grazia compiere con le opere la sua volontà, partecipare frequentemente ai sacramenti, soprattutto all’eucaristia, e alle azioni liturgiche; applicarsi costantemente alla preghiera, all’abnegazione di se stesso, all’attivo servizio dei fratelli e all’esercizio di tutte le virtù. La carità infatti, quale vincolo della perfezione e compimento della legge (cfr. Col 3,14; Rm 13,10), regola tutti i mezzi di santificazione, dà loro forma e li conduce al loro fine. Perciò il vero discepolo di Cristo è contrassegnato dalla carità verso Dio e verso il prossimo.
Avendo Gesù, Figlio di Dio, manifestato la sua carità dando per noi la vita, nessuno ha più grande amore di colui che dà la vita per lui e per i fratelli (cfr. 1 Gv 3,16; Gv 15,13). Già fin dai primi tempi quindi, alcuni cristiani sono stati chiamati, e altri lo saranno sempre, a rendere questa massima testimonianza d’amore davanti agli uomini, e specialmente davanti ai persecutori. Perciò il martirio, col quale il discepolo è reso simile al suo maestro che liberamente accetta la morte per la salute del mondo, e col quale diventa simile a lui nella effusione del sangue, è stimato dalla Chiesa come dono insigne e suprema prova di carità. Ché se a pochi è concesso, tutti però devono essere pronti a confessare Cristo davanti agli uomini e a seguirlo sulla via della croce durante le persecuzioni, che non mancano mai alla Chiesa.
 
Prima Lettura: La prima lettera di san Giovanni è costituita da tre grandi sezioni: camminare nella luce (1,5-2,29), vivere da figli di Dio (3,1-4,6) e alle fonti della carità e della fede (4,7-5,4). Il brano odierno, in cui troviamo l’esaltante affermazione «Dio è amore», ci introduce alle sorgenti della carità: Dio ha l’iniziativa della carità e la manifesta inviando e donando il suo Figlio unigenito, «perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16).
 
Vangelo
Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose.
 
Marta è la sorella di Maria e di Lazzaro di Betania. Nella loro casa ospitale Gesù amava sostare durante la predicazione in Giudea. In occasione di una di queste visite conosciamo Marta. Il Vangelo ce la presenta come la donna di casa, sollecita e indaffarata per accogliere degnamente il gradito ospite, mentre la sorella Maria preferisce starsene quieta in ascolto delle parole del Maestro. L’avvilita e incompresa professione di massaia è riscattata da questa santa fattiva di nome Marta, che vuol dire semplicemente «signora». Marta ricompare nel Vangelo nel drammatico episodio della risurrezione di Lazzaro, dove implicitamente domanda il miracolo con una semplice e stupenda professione di fede nella onnipotenza del Salvatore, nella risurrezione dei morti e nella divinità di Cristo, e la si ritrova durante un banchetto al quale partecipa lo stesso Lazzaro, da poco risuscitato, e anche questa volta si presenta in veste di donna tuttofare.
 
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 10,38-42
 
In quel tempo, mentre erano in cammino, Gesù entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo ospitò.
Ella aveva una sorella, di nome Maria, la quale, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. Marta invece era distolta per i molti servizi.
Allora si fece avanti e disse: «Signore, non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti». Ma il Signore le rispose: «Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta».
 
Parola del Signore.
 
Benedetto Prete (I Quattro Vangeli): 40 [Marta] Era molto affaccendata per il servizio, letteral.: «era affaccendata per il molto servizio», cioè: per il molto lavoro che richiedeva il servizio. L’intenso lavoro era dovuto in parte alla premura di Marta che, come donna e padrona di casa, voleva offrire una generosa accoglienza all’illustre ospite preparandogli una refezione non usuale ed in parte anche al numero degli invitati, perché Gesù, anche se il testo non dice nulla, doveva avere con sé i discepoli. Signore, non ti dai pensiero che mia sorella...? Il termine «Signore» è caro a Luca (cf. vers. precedente e seguente), come si è già rilevato. «Non ti dai pensiero che...»; la stessa espressione usci dalla bocca dei discepoli durante la tempesta sul lago (cf. Mc., 4, 38). Queste parole dovettero essere pronunziate con un accento alquanto risentito, perché Marta, non riusciva a spiegarsi come Gesù e Maria, che pur sapevano quanto lavoro ella doveva sbrigare in quella circostanza, potessero rimanere tranquilli a conversare. Marta non rivolge la parola alla sorella, ma al Maestro; ciò si spiega dal fatto che Gesù, secondo Marta, è in certo modo responsabile della situazione e che egli inoltre può autorevolmente dire a Maria di sospendere la conversazione per accorrere ad aiutare l’affaccendata sorella. Mi lascia sola a servire; altri codici hanno: «mi abbia lasciato sola...». Mi aiuti; il verbo greco è molto più espressivo poiché significa: da parte sua prenda il suo lavoro. In due versetti (verss. 39-40) Luca ci tratteggia con mano maestra due figure caratteristiche che conferiscono alla scena una particolare suggestività.
41 Marta, Marta, tu ti affanni ed agiti per molte cose; la ripetizione del nome richiama l’attenzione su ciò che verrà asserito in seguito. Ti agiti per molte cose (Volgata: et turbaris erga plurima); non è una semplice constatazione, ma in pari tempo un rimprovero ammonitore (molte cose = troppe cose; Volg.: plurima). Marta non sa vedere oltre le sue occupazioni e preoccupazioni, per questo Gesù la richiama ammonendola delicatamente che si è data troppo da fare per cose che lei stessa ha volute.
42 Invece ve ne è bisogno di poche, anzi di una sola; questa ci sembra la lettura da preferirsi, perché più rispondente al contesto ed alla circostanza in cui tali parole furono pronunziate; altri codici leggono: «invece ve ne è bisogno di poche», oppure: «invece ve ne è bisogno di una soltanto». Il Salvatore distoglie Marta dal mondo delle sue faccende per richiamarla a qualcosa di superiore che è l’unico necessario; per questa donna solerte e preoccupata di onorare i suoi ospiti era sufficiente che, in quella circostanza, preparasse le poche cose convenienti per una refezione comune e decorosa, poiché quello che maggiormente importa è l’unico necessario. Questo modo di parlare ha una movenza di stile giovanneo; il quarto evangelista infatti ama passare da un’osservazione comune ed umana ad una prospettiva elevata e divina. Gesù, approfitta di questa occasione che gli si è offerta per invitar la donna tutta indaffarata nelle faccende di casa a riflettere ed a capire che vi è una sola cosa necessaria, cioè: il pensiero della salvezza (cf. Lc., 12, 29-31; Mt., 6, 33). Maria si è scelta la parte buona; altri traducono: «...la parte migliore» (Volgata: optimam partem elegit) attenendosi più al senso voluto dal contesto che alla forma dell’aggettivo greco (...τῆνἀγαθὴν μερίδα). Maria, che si interessava di ascoltare attentamente le parole del Maestro, ha scelto la porzione buona, cioè un’occupazione migliore di quella a cui attendeva la sorella. Che non le sarà tolta, cioè: Maria non sarà distolta dall’ascoltare la parola di Gesù; questa donna continuerà a rimanere accanto al Maestro, mentre la sorella continuerà a preparare il pasto per gli ospiti che sono nella sua casa. L’importanza di questo episodio, che appare come un delicato idillio familiare, risulta dalla dottrina dell’unico necessario che consiste nell’ascoltare la parola di Gesù. Probabilmente esso è stato narrato subito dopo la parabola del buon samaritano, che illustra il precetto dell’amore del prossimo (precetto intimamente legato a quello dell’amore di Dio), perché lo completa con la prospettiva dell’unico necessario che consiste nell’ascoltare la parola del Signore (cf. vers. 39).
 
Si comprende bene cosa abbia scelto. Maria alle faccende di casa ha preferito la preghiera, l’intimità con il Cristo, l’ascolto della Parola: l’unica cosa di cui c’è bisogno (Lc 10,42). Senza voler enfatizzare la scelta di Maria, possiamo però ammettere che Marta nello scegliere le pentole commise un grossolano errore: quello di non comprendere il valore prezioso dell’ascolto orante e della preghiera; quello di non comprendere che la preghiera è il vero, insostituibile motore che muove tutto; quello di non capire chi le stava dinanzi e con chi stava parlando. Marta, più che le mani e i piedi, avrebbe dovuto far muovere il cuore e da esso far sgorgare un’ardente preghiera. L’errore di Marta è l’errore di molti uomini e non solo contemporanei. Un mondo disposto ad ammirare unicamente l’uomo faber immerso in una vita attiva, fatta esclusivamente di opere concrete, ha trasformato il cristianesimo in una religione quasi solo al femminile: per cui, la preghiera è il rifugio di chi non sa o non vuole impegnarsi nel mondo; dell’inetto che non sa comprendere le grandi cause sociali e politiche e lottare per esse; o di chi non sa comprendere che il primo impegno è la promozione umana. Oggi «si fa un gran parlare di impegno nel mondo, di impegno nel sociale, di ‘promozione umana’. E sta bene... Ma dobbiamo oggi asserire che più necessario di tutto, di ogni altro impegno, è amare Dio, quindi onorarlo, servirlo e poi farlo amare, farlo onorare, farlo servire... Attenzione dunque ad un cristianesimo fatto tutto e solo orizzontale! Attenzione all’attivismo che tarpa le ali ai voli dello spirito, alla preghiera, alla contemplazione! Il rimprovero di Gesù a Marta è per tutti questi travisamenti della vocazione cristiana. Può essere per noi...» (Andrea Gemma, vescovo). Solo la preghiera, e una vita nascosta in Dio, può rendere accettabile e imitativa l’affermazione di Paolo: «sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi» (Col 1,24). Solo la preghiera può trasformare il dolore in letizia e la sofferenza in gioia. Solo la preghiera può svelare «il mistero nascosto da secoli» e renderlo intelligibile e comprensibile al cuore dell’uomo. Solo la preghiera può dare forza al servo della Parola nelle fatiche apostoliche. Solo la preghiera fa sì che la carità «come buon seme, cresca e fruttifichi» (LG 46). Solo la preghiera può svelare all’uomo il volto radioso del Risorto e solo la preghiera permette di ritrovarlo luminoso nei poveri, negli ultimi, negli indigenti.
 
Dio non ci vuole preoccupati: «Dio nostro Padre non voleva che noi vivessimo preoccupati e in ansia per le cose della vita; questo avvenne ad Adamo, ma in un secondo tempo. Gustò il frutto dell’albero e s’accorse d’essere nudo e si fece un cinto. Ma prima di mangiare il frutto “erano tutti e due nudi e non si vergognavano” [Gen 3,7]. Così ci voleva Dio, senza turbamenti di sorta. E questo è il segno di un animo che è lontano da ogni affetto libidinoso; e chi è in questa disposizione, non ha in mente altre opere che quelle degli angeli. Così non penseremmo che a celebrare eternamente il Creatore, sarebbe nostra letizia la sua contemplazione e lasceremmo a lui ogni preoccupazione, come scrisse David: “Lascia al Signore la cura di te stesso, ed egli ti nutrirà” [Sal 54,23]. E Gesù insegna agli apostoli: “Non vi preoccupate della vostra vita, di quello che mangerete, né del come vestirete il vostro corpo” [Mt 6,25]. E ancora: “Cercate prima il Regno di Dio e la sua giustizia e tutto vi sarà dato in sovrappiù” [Mt 6,33]. E a Marta: “Marta, Marta, tu ti preoccupi di troppe cose; ma una sola cosa è necessaria. Maria ha scelto la migliore, e non le sarà tolta” [Lc 10,14-15]; cioè, si metterà ai piedi del Signore e ascolterà la sua Parola» (Giovanni Damasceno, De fide orthodoxa, 2,11).
 
Il Santo del Giorno - 29 Luglio 2023: Marta è la sorella di Maria e di Lazzaro di Betania. Nella loro casa ospitale Gesù amava sostare durante la predicazione in Giudea. In occasione di una di queste visite conosciamo Marta. Il Vangelo ce la presenta come la donna di casa, sollecita e indaffarata per accogliere degnamente il gradito ospite, mentre la sorella Maria preferisce starsene quieta in ascolto delle parole del Maestro. L’avvilita e incompresa professione di massaia è riscattata da questa santa fattiva di nome Marta, che vuol dire semplicemente «signora». Marta ricompare nel Vangelo nel drammatico episodio della risurrezione di Lazzaro, dove implicitamente domanda il miracolo con una semplice e stupenda professione di fede nella onnipotenza del Salvatore, nella risurrezione dei morti e nella divinità di Cristo, e durante un banchetto al quale partecipa lo stesso Lazzaro, da poco risuscitato, e anche questa volta ci si presenta in veste di donna tuttofare. I primi a dedicare una celebrazione liturgica a S. Marta furono i francescani, nel 1262. (Avvenire)
 
La comunione al Corpo e al Sangue del tuo Figlio unigenito
ci liberi, o Signore, dagli affanni delle cose che passano,
perché, sull’esempio di santa Marta,
progrediamo sulla terra in un sincero amore per te
e godiamo senza fine della tua visione nel cielo.
Per Cristo nostro Signore.