1 Dicembre 2020
 
Martedì della I Settimana di Avvento
 
Is 11,1-10; Sal 71 (72); Lc 10,21-24
 
 
Colletta: Accogli, o Padre, le preghiere della tua Chiesa e soccorrici nelle fatiche e nelle prove della vita; la venuta del Cristo tuo Figlio ci liberi dal male antico che è in noi e ci conforti con la sua presenza. Per il nostro Signore Gesù Cristo...
 
Comincia l’Avvento - Paolo VI (Angelus, 28 Novembre 1971): Diamo importanza alle cose importanti. Oggi ricomincia l’anno liturgico, comincia l’Avvento. Il tempo, fatale misura della nostra presente esistenza. Il grande panorama dei secoli, la storia, ci si apre davanti. Ha un senso questa vicenda immensa? Sì. L’uomo cammina e progredisce ma è sempre in via di ricerca; e questa, ancor più che una conquista, è un aumento di desideri e di bisogni, è uno spazio più vasto scavato nel cuore dell’uomo, reso più avido e più affamato d’una vita piena e d’una verità sicura. La scienza, lampada dell’universo, denuncia un mistero nella notte circostante, sempre più profonda e più tormentosa; è il mistero del mondo. Ed ecco che noi, al lume della scienza e della fede, sappiamo il disegno del tempo e della storia; noi abbiamo la chiave che ci apre il senso delle cose e, fra tutte, quelle della nostra vita. E questo disegno, questo senso ci è stato rivelato in un avvento, cioè in un incontro, l’incontro con Cristo, che è appunto venuto sul nostro sentiero, e si è fatto maestro e salvatore per chi ha avuto la fortuna somma d’incontrarlo, ed ha liberamente accettato di ascoltarlo, di credergli senza meravigliarsi, senza scandalizzarsi di Lui (Matth. 11). Questo istante decisivo per le sorti dell’umanità lo chiamiamo avvento, la venuta... quel fatto continua spiritualmente, si ripete ogni anno, si rinnova in ogni uomo, il quale nel tempo matura e invecchia, e in Cristo, se riesce a farlo suo, ringiovanisce e cresce nella certezza e nella speranza. Sì, pensieri alti e grandi, ma veri. È questo il soffio profetico, in cui respira la Chiesa, e che si offre all’anelito del mondo, anche del mondo moderno che si sente soffocare dalle sue stesse opere gigantesche ma meravigliose. È l’avvento che ci fa un po’ silenziosi e pensosi; ci riabilita alla preghiera e alla speranza; ci fa umili e solleciti per volgere i passi verso il presepio. In cammino, fratelli; ancora una volta in cammino. Ci precede con svelto passo (Luc. 1,39) la Madonna.
 
Nel brano evangelico si possono mettere in evidenza almeno due temi. Il primo è quello dei piccoli, i quali proprio per la loro umiltà riescono a cogliere il mistero del Cristo. Il secondo tema è la rivelazione della divinità di Gesù: il Figlio conosce il Padre con la medesima conoscenza con cui il Padre conosce il Figlio.
 
Dal Vangelo secondo Luca 10,21-24: In quella stessa ora Gesù esultò di gioia nello Spirito Santo e disse: «Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio e nessuno sa chi è il Figlio se non il Padre, né chi è il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo». E, rivolto ai discepoli, in disparte, disse: «Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete. Io vi dico che molti profeti e re hanno voluto vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono».
 
Benedetto Prete (I Quattro Vangeli): versetto 21: In quel momento; Luca offre un’indicazione cronologica più precisa di quella di Matteo («in quel tempo», Mt., 11,25); egli quindi rileva che, nella stessa circostanza, Gesù pronunziò le parole, riferite nel presente contesto, che sono tra le più solenni trasmesse dai vangeli. (Gesù) esultò di gioia sotto l’azione dello Spirito Santo; si descrive con precisione teologica il sentimento di esultanza che indusse il Maestro a pronunziare le parole che seguono. «Sotto l’azione dello...»: rende il dativo greco (letteralmente: «nello Spirito Santo»); l’espressione non designa un semplice entusiasmo religioso, ma una azione dello Spirito Santo, come Luca ama segnalare spesso. Io ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra; parole di un’imponente maestosità religiosa che introducono la dichiarazione successiva. Perché hai tenute nascoste...; si può anche tradurre: «perché, mentre hai tenute nascoste..., le hai rivelate ai piccoli». Poiché così ti è piaciuto; letteral.: «poiché cosi è il beneplacito davanti a te».
versetto 22: Nessuno conosce chi è il Figlio se non il Padre...; il testo si discosta leggermente da quello di Matteo che ha: «Nessuno conosce il Figlio...; né alcuno conosce il Padre...». L’esclamazione di giubilo è determinata dalla visione che il Padre ed il Figlio hanno in modo perfetto della condotta divina nei confronti degli umili e dei «piccoli». Per un più ampio commento si veda Mt., 11,25-27.
versetto 23: E volgendosi verso i soli suoi discepoli; formula introduttiva che rivela un mutamento di situazione; Matteo colloca questa breve pericope in un contesto differente, cioè subito dopo aver parlato dello scopo delle parabole; nel primo vangelo le parole di Gesù trovano un contesto logico più appropriato, poiché poco prima il Maestro aveva dichiarato ai discepoli che a loro era dato conoscere i misteri del regno (cf Mt., 13, 11). Beati gli occhi che vedono...; Luca si è preoccupato di indicare nella formula introduttiva le persone alle quali è indirizzata la presente beatitudine; infatti essa vale per i soli discepoli. In Matteo la beatitudine è resa con un parallelismo più sviluppato (beati gli occhi..., beate le orecchie...), come anche lo stesso Luca farà al vers. seguente.
versetto 24: Molti profeti e re; la proposizione è strutturata in modo assai armonico; essa certamente riproduce la formula primitiva uscita dalle labbra di Gesù, perché ricorda con due termini sintetici le figure più eminenti e caratteristiche dell’Antico Testamento, come sono i profeti ed i re della nazione eletta (ad es.: Davide, Ezechia). Il testo di Matteo in cui si legge: «i profeti ed i giusti», ha tutta l’apparenza di essere un ritocco dell’espressione originale. Vollero vedere... e udire; viene indicata la viva attesa dei tempi messianici (il regno di Dio) che ha contraddistinto e sorretto l’intera storia d’Israele. Si osservi che non si parla soltanto di «vedere», ma anche di «udire», poiché si tratta soprattutto di accogliere il messaggio di salvezza che promulgherà il Messia. Con questa dichiarazione Gesù si considera come il punto terminale della storia d’Israele, palesando così la sua chiara coscienza di essere il Messia lungamente atteso dal popolo eletto.
 
Ti rendo lode, o Padre - Benedetto XVI (Udienza Generale, 7 Dicembre 2011): Gesù si rivolge a Dio chiamandolo «Padre». Questo termine esprime la coscienza e la certezza di Gesù di essere «il Figlio», in intima e costante comunione con Lui, e questo è il punto centrale e la fonte di ogni preghiera di Gesù. Lo vediamo chiaramente nell’ultima parte dell’Inno, che illumina l’intero testo. Gesù dice: «Tutto è stato dato a me dal Padre mio e nessuno sa chi è il Figlio se non il Padre, né chi è il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo» (Lc 10, 22). Gesù quindi afferma che solo «il Figlio» conosce veramente il Padre. Ogni conoscenza tra le persone - lo sperimentiamo tutti nelle nostre relazioni umane – comporta un coinvolgimento, un qualche legame interiore tra chi conosce e chi è conosciuto, a livello più o meno profondo: non si può conoscere senza una comunione dell’essere. Nell’Inno di giubilo, come in tutta la sua preghiera, Gesù mostra che la vera conoscenza di Dio presuppone la comunione con Lui: solo essendo in comunione con l’altro comincio a conoscere; e così anche con Dio, solo se ho un contatto vero, se sono in comunione, posso anche conoscerlo. Quindi la vera conoscenza è riservata al « Figlio», l’Unigenito che è da sempre nel seno del Padre (cfr Gv 1,18), in perfetta unità con Lui. Solo il Figlio conosce veramente Dio, essendo in comunione intima dell’essere; solo il Figlio può rivelare veramente chi è Dio.
Il nome «Padre» è seguito da un secondo titolo, «Signore del cielo e della terra». Gesù, con questa espressione, ricapitola la fede nella creazione e fa risuonare le prime parole della Sacra Scrittura: «In principio Dio creò il cielo e la terra» (Gen 1,1). Pregando, Egli richiama la grande narrazione biblica della storia di amore di Dio per l’uomo, che inizia con l’atto della creazione. Gesù si inserisce in questa storia di amore, ne è il vertice e il compimento. Nella sua esperienza di preghiera, la Sacra Scrittura viene illuminata e rivive nella sua più completa ampiezza: annuncio del mistero di Dio e risposta dell’uomo trasformato. Ma attraverso l’espressione «Signore del cielo e della terra» possiamo anche riconoscere come in Gesù, il Rivelatore del Padre, viene riaperta all’uomo la possibilità di accedere a Dio.
 
Hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli: Possiamo tradurre così questa frase di Gesù: se vuoi scoprire “le cose di Dio” devi diventare “piccolo”. Sembra così che  Gesù voglia tracciare una via a tutti gli uomini, credenti o no: è la piccola via dell’infanzia spirituale. Una via non comune. Scoperto il posto che, per divina disposizione, le spettava nella Chiesa, Teresa di Lisieux cercò i modi e gli strumenti adatti per realizzare la sua missione. Praticamente, bisognava individuare «il mezzo per essere maggiormente agevolati nell’impresa. Occorreva imboccare la via che conducesse più sicuramente alla meta. La trova, in tutta semplicità, nella via dell’infanzia spirituale. Gli asceti o gli studiosi di spiritualità l’avrebbero chiamata la via regia, la via maestra. Ella, invece, si accontenta di ritenerla “la piccola via: una via ben diritta, molto breve, tutta nuova”» (Arnaldo Pedrini). Si adeguava così al Vangelo, che essa portava notte e giorno sul cuore. Occorreva seguire nell’amore la via dei piccoli, la via dell’infanzia spirituale. Un cammino di piena confidenza, di totale pacificante abbandono. A Madre Agnese di Gesù che le chiedeva, il 6 agosto 1897, pochi mesi prima della sua morte, ciò che intendesse per piccola via, ovvero per restare piccoli, fanciulli davanti a Dio, ella rispose: «È riconoscere il proprio niente, attendere tutto da Dio, come un piccolo bimbo attende tutto da suo padre; non inquietarsi di niente; non cercare alcunché dalla fortuna. Essere piccoli è ancora non attribuirsi le virtù che si praticano o credersi capaci di qualcosa di buono; non scoraggiarsi degli sbagli o mancanze, perché i piccoli sogliono cadere facilmente, e sovente, ma essi sono troppo piccoli per farsi troppo del male...». Teresa così realizzava quanto dice il profeta Isaia: «Voi sarete allattati e portati in braccio, e sulle ginocchia sarete accarezzati. Come una madre consola un figlio, così io vi consolerò» (Is 66,12-13). E procedeva sicura sulla via tracciata dal Maestro. In questa luce, la via dell’infanzia spirituale più che teoria è prassi ed è scorticante, perché occorre spogliarsi del proprio io, della propria volontà, o gusto o progetto, anche il più virtuoso. L’ispirazione di santa Teresa di Lisieux la troviamo anche nell’insegnamento di san Francesco di Sales: «Fare tutto per amore e niente per forza!». Massima che per tutti i piccoli diventerà la regola d’oro. In pratica, «saper comprendere e gustare “le bon plaisir de Dieu” ovvero il suo beneplacito. Attuare ciò che piace a Dio, ed ancora come a Lui piace» (Arnaldo Pedrini). Santa Teresa lo traduce: «Non si deve lavorare per diventare santi, ma solo piacere a Dio». E ancora: «Se il Signore mi lasciasse la scelta, io non sceglierei niente: solo quello che Lui vuole». Allora si comprende come la strada indicata da Gesù è veramente in salita: è la salita del Calvario dove, per spalancarsi alla conoscenza dei misteri del Regno di Dio, la povera umanità non ha altra scelta se non quella di farsi crocifiggere alla Croce di Cristo, non intesa però come strumento di tortura e di morte, ma come il giogo di Dio dolce e leggero che conduce alla gioia perfetta e alla vera vita.
 
Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. (Vangelo)
Nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.
 
Saziati del cibo spirituale, o Signore,
a te innalziamo la nostra supplica:
per la partecipazione a questo sacramento,
insegnaci a valutare con sapienza i beni della terra
e a tenere fisso lo sguardo su quelli del cielo.
Per Cristo nostro Signore.
 

1 Dicembre 2020
 
Beata Maria Rosa di Gesù (Bruna Pellesi) Suora francescana
 
Una vita non lunga, 55 anni appena, esattamente spaccata in due dalla malattia, che la relega per 27 anni in un sanatorio. Una vita che, malgrado ciò, ha come segno distintivo il sorriso, stampato inalterabile sul viso ma faticosamente ricercato e conquistato come espressione di una pace interiore che, in quelle condizioni, non è per nulla scontata, neppure per una religiosa. Bruna Pellesi nasce il 10 novembre 1917 a Morano, frazione di Prignano sulla Secchia, nel modenese, ultima di nove figli e per questo coccolata e vezzeggiata da tutti. La vita le regala di tutto e di più: bellezza ed eleganza, buonumore e dolcezza, allegria e tanta pace. E anche l’amore, che sboccia sui 17 anni, ma che sembra non soddisfare appieno la sua ricerca di un più grande amore. Come neppure la realizza la maternità adottiva di ben sei figli di cui a 18 anni comincia a prendersi cura, in conseguenza della morte quasi contemporanea di due sue giovani cognate. In realtà, nel cuore di Bruna sta nascendo la vocazione religiosa, che la famiglia non contrasta in nome di quella fede solida in cui i figli sono stati educati e che lei riesce ad appagare a 22 anni, entrando tra le Suore Terziarie Francescane di sant’Onofrio a Rimini. Parte da casa in fretta, per non lasciarsi soffocare dalle lacrime, e questo dice quanto doloroso sia il distacco da un ambiente amato ed in cui è stata tanto amata. Dopo il noviziato e i primi voti, con il nuovo nome di Suor Maria Rosa si tuffa nella vita attiva della comunità di Sassuolo, proprio negli anni in cui infuria la guerra che semina distruzione e morte. “Vengo dalla campagna, sono abituata a lavorare”, risponde a chi le suggerisce di risparmiarsi un po’ nella sua frenetica attività di apostolato. La svolta della sua vita arriva nel 1945, non solo perché è trasferita a Ferrara, ma soprattutto perché in quell’anno si manifestano in lei i sintomi della tubercolosi, che a novembre le spalancano le porte del sanatorio. Ha 28 anni, solo cinque dei quali passati in convento; gliene restano altrettanti da vivere, ma tutti nella scomoda e dolorosa condizione di malata cronica, in una clausura non voluta, in un isolamento che tanto contrasta con il suo carattere, in una monotonia che rischia di incessantemente tingere di grigio i giorni, le settimane e gli anni. “Ho iniziato la mia vita sanatoriale piangendo, ma ho chiesto al buon Dio di terminarla cantando le sue misericordie”: in questa confidenza c’è tutto il travaglio interiore di una giovane vita che fatica ad adattarsi alla malattia ed all’inattività, ma c’è anche tutta la risoluzione di chi non si rassegna a “lasciarsi vivere”. Inizia così il percorso lungo di una fede che si deve irrobustire e di una speranza che non bisogna smarrire malgrado tutto. “Non avrei mai creduto che in sanatorio la virtù venisse messa così a dura prova, purtroppo c’è tanto male nonostante sorella morte continuamente ci sfiori”, scrive suor Maria Rosa, a testimoniare tutta la difficoltà che incontra a vivere in un ambiente in cui la promiscuità, la forzata inattività e, forse, anche l’ineluttabilità della morte fanno abbassare notevolmente il senso del pudore e la santità dei sentimenti. Davvero non c’è poesia o sentimentalismo in questa nuova condizione in cui si trova a vivere, ma soltanto il rischio di una prosaica e, per certi versi, squallida situazione in cui anche lei rischia di essere risucchiata. Di fronte alla quale lei reagisce nell’unico modo che le è possibile: innanzitutto conquistando una propria pace interiore e poi proiettandosi sugli altri. “Ho bisogno di calma, di forza, di spirito di adattamento; debbo adattarmi soprattutto a non poter far niente, ad avere bisogno di tutti”, scrive al direttore spirituale, mentre gli chiede di “tenerla sempre sull’altare” in uno spirito di continua offerta e di completa immolazione che, giorno dopo giorno, la porta a conquistare l’amore vero, quello che aveva sempre cercato e  che le permette un giorno di poter dire al suo Gesù: “Voglio che la mia vita sia amore per te, con te e in te”. In mezzo, lo sforzo continuo di vincere la monotonia con la sofferenza, di rendere straordinario l’ordinario,  di fare grandi anche le piccole cose curando quelle minime fino alle sfumature, di imparare a farsi samaritana verso gli altri malati, donando loro cuore e sorriso, cioè le uniche cose che la malattia non è riuscita a spegnere. Il paradosso evangelico in lei si compie nel raggiungimento di una felicità autentica e piena, anche quando arrivano ad estrarle cinque volte al giorno il liquido pleurico, è minacciata dalla cecità, si riduce ad essere 43 chili tutti di dolore e la morte si avvicina a grandi passi. “Lo dico in un momento in cui non posso tradire… quello che conta è amare il Signore. Sono felice perché muoio nell’amore, sono felice perché amo tutti”, esclama il 1° dicembre 1972, poco prima di chiudere gli occhi per sempre. E la Chiesa, riconoscendo che suor Maria Rosa davvero ha saputo trasformare il dolore in amore, l’ha beatificata il 29 aprile 2007.
Autore: Gianpiero Pettiti
 
Testimoniò la gioia di essere una sposa di Cristo, che l’aveva fatta partecipe delle sofferenze della Croce, con i suoi 27 anni di grave malattia, mai lamentandosi della sua condizione e lei stessa scrisse: “Sia benedetto il Signore che mi concede la grazia di un pochino della Sua Santa Croce e mi dà la grande grazia di portarla nella pace… come dono, non come peso”.
Scorrendo l’elenco lunghissimo della anime consacrate, negli Ordini e Congregazioni religiose oppure come Terziari e Terziarie, che offrirono la loro vita consumata dalle più svariate e debilitanti malattie, a volte senza più alzarsi dal loro letto fino alla morte; viene la certezza che il Signore predilige queste anime che sanno trasformare il loro dolore, da un moto spontaneo di disperazione e ribellione, specie se colpite in giovane età. in un’occasione di elevazione spirituale a volte mistica. Esse seppero diffondere quest’esempio di rassegnazione alla volontà di Dio, a quanti le contattavano, e dando la pace dello spirito, a chi in salute stava certamente meglio di loro. E anche la Chiesa lungo i secoli ha voluto indicare il loro esempio ai cristiani, esaltandone le virtù, esaminandone gli scritti, ascoltando testimonianze, accertando i miracoli e prodigi scaturiti per la potenza della loro intercessione e alla fine proclamando la loro santità, nello spirito della Chiesa. Ed è il caso di Bruna Pellesi, questo il suo nome da laica, che nacque a Morano (Modena) ma in diocesi di Reggio Emilia, l’11 novembre 1917; figlia di agricoltori, a 23 anni lasciò il lavoro dei campi e dando seguito alla sua vocazione allo stato religioso, il 23 settembre 1941 a Rimini, vestì l’abito proprio delle ‘Suore Terziarie Francescane di S. Onofrio’, prendendo il nome di Maria Rosa di Gesù. In seguito su sua proposta, le suore vennero denominate ‘Francescane Missionarie di Cristo’; si diplomò come maestra d’asilo a Bologna, l’11 luglio 1942 in piena Seconda Guerra Mondiale. Dal 30 settembre 1942 fu al servizio dei bambini all’asilo S. Anna di Sassuolo e dal 19 maggio 1945 all’asilo di Ferrara. Ma il Signore la volle con sé quasi subito sulla Croce, infatti il 5 settembre 1945 fu ricoverata all’ospedale S. Anna di Ferrara e due mesi dopo, il 15 novembre, entrò nel sanatorio Pineta di Gavano (Modena) con la diagnosi di una grave forma di tubercolosi polmonare; malattia che soprattutto durante la guerra e il dopoguerra, mieté tante vittime specie tra i giovani. Aveva 30 anni quando il 31 agosto 1947 emise i voti perpetui; poi venne ricoverata nell’Istituto sanatoriale “C. A. Pizzardi” di Bologna il 7 dicembre 1948. Trascorse tutti gli anni successivi quasi sempre nei sanatori di varie città, con rare uscite nella vita normale delle suore. A Rimini il 4 ottobre 1967 celebrò il 25° di vita consacrata e il 1° settembre 1970 volle ricordare con gioia il 25° di malattia, scrivendo: “Grazie, Signore! Sono stati anni di tanta grazia. Aiutami a dimenticarmi, a donarmi a te e agli altri tutti nel mondo”. Avendo accettato la volontà di Dio in tutto, ripeteva: “Mi son fatta suora per glorificare il Signore, ebbene lo glorificherò da ammalata”. Il suo pregare, lavorare, soffrire era per gli altri e diceva: “Voglio che tutti siano salvi, voglio portare tutti in Paradiso”. 
Dai sanatori esercitò l’apostolato della scrittura, si pensi che i suoi scritti sono raccolti in 16 volumi di 2134 pagine. Scrisse quasi 2000 lettere a consorelle, sacerdoti, laici,
 ammalati, esortandoli ad essere coraggiosi testimoni cristiani. Incitava tutti ad amare il Papa, la vera Chiesa, non ascoltando i nuovi profeti; dopo 27 anni di malattia, morì a Sassuolo il 1° dicembre 1972 a 55 anni. Il 1° febbraio 1977 si avviò la causa di beatificazione con il nulla osta per l’introduzione del 6 marzo 1981. La procedura, andata a buon fine, ha portato alla gloria degli altari Maria Rosa Pellesi il 29 aprile 2007. I vescovi emiliani nella lettera postulatoria, scrissero fra l’altro: “il suo esempio è certamente di particolare aiuto ai sacerdoti, religiosi, fedeli, anziani, ammalati, nel riscoprire il valore della sofferenza offerta a Dio con amore”.
Autore: Antonio Borrelli
 
 
Card. Carlo Caffarra - Celebrazione per la Beata Maria Rosa Pellesi  Santi Bartolomeo e Gaetano (Bologna), 9 dicembre 2011

I santi, cari fratelli e sorelle, sono donati alla Chiesa perché essa custodisca viva la memoria della sua sorgente: il costato aperto del Crocifisso. La santità è uno dei modi fondamentali mediante i quali l’evento fondatore della Chiesa resta sempre presente fra noi. Ed in questo modo i santi sono i nostri più grandi maestri della fede, perché ci aiutano ad avere un’intelligenza sempre più profonda del Mistero di Cristo. Anche la beata Maria Rosa è stata e continua ad essere per noi, per la Chiesa, una grande maestra di fede.
Non è facile, cari amici, penetrare nel vero segreto dei santi: la modalità propria a ciascuno di vivere il mistero di Cristo. “Con timore e tremore” proverò a farlo con la beata Maria Rosa, seguendo la parola di Dio che abbiamo appena ascoltato.
1. Nella seconda lettura l’apostolo Paolo ci rivela tutta la paradossalità della vita cristiana. Essa è costituita da un tesoro, la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo; ma questo tesoro è deposto in vasi di creta. È sempre esposto ad essere derubato da chi non vuole ascoltare la proposta salvifica.
Quale fu il tesoro deposto nel vaso di creta della fragile persona della beata? Quale il contenuto originale di quella conoscenza del mistero di Cristo che il Padre fece rifulgere nel suo cuore?
Fu il contenuto centrale: la beata Maria Rosa visse nel centro del mistero di Cristo. Ella ebbe una conoscenza sperimentale non ordinaria che la vita nuova di cui Cristo è la primizia nasce dalla Croce, dalla sua morte, e “sentì” che la sua vocazione era di “portare sempre e dovunque nel proprio corpo la morte di Gesù perché anche la vita di Gesù si manifestasse nel suo corpo”.
Vivendo questo mistero, Maria Rosa in Gesù crocifisso e risorto incontra tutti gli uomini, pur nella solitudine di una camera di ospedale. Nel 1967, dunque, già vicina alla cima del monte, scrive: “ho bisogno di essere radicalmente purificata, riconsacrata, rimessa a nuovo anima, cuore e corpo … dimenticandomi e accogliendo nella mia anima e nel mio cuore tutti i desideri dell’umanità”.
La beata Maria Rosa, quando scrive questo, è diventata sorella nello Spirito dei grandi mistici del tragico secolo ventesimo: Teresa del Bambino Gesù, di cui non a caso la beata era devotissima, padre Pio da Pietrelcina, Teresa Benedetta della Croce, madre Teresa di Calcutta. Essi hanno condiviso, hanno preso sulle loro spalle il peso di quell’immane sofferenza che l’uomo del XX secolo ha causato a se stesso: l’espulsione di Dio dalla sua vita. La beata Maria Rosa giunge a scrivere che nella totale solitudine a cui la malattia negli ultimi anni la costrinse, si sentiva “stretta in una morsa di ghiaccio”. E griderà al mondo tormentato dall’assenza di Dio: “quale felicità sapere che c’è Dio”.
2. La prima lettura desunta dal libro del profeta Geremia è autobiografica. Questa pagina mostra anche la fatica sostenuta dal profeta per essere fedele alla sua vocazione: una fatica tale che egli è perfino tentato di tradirla: “non parlerò più in suo nome”.
Anche l’itinerario spirituale della beata non fu facile né privo di fatiche e tentazioni. Ella avverte fin da bambina “che questa sarebbe stata la mia missione: una missione di sofferenza”.
Questo itinerario raggiunge il suo vertice nel voto “di abbandono amoroso, gioioso, incondizionato alla volontà di Dio”. È il 5 agosto 1955.
Trattasi di un voto che, come insegnano tutti i grandi maestri di spirito, non va fatto alla leggera, né è per tutti; è chiesto da Cristo a chi nella Chiesa ha una particolare missione. Ed infatti, negli stessi giorni la beata scrive: “in questi giorni Gesù mi tiene più strettamente abbracciata alla sua croce … Lei non si meraviglierà se le dico che soffro tanto; ma crederà anche che sono felice, tanto, tanto, tanto, perché sento che il buon Dio mi rende degna di fare la sua volontà e di soffrire per amor suo”.
L’itinerario è concluso: Cristo ha unito a sé la sua sposa.
Cari amici, i santi sono anche i nostri intercessori. All’inizio di questa celebrazione eucaristica abbiamo chiesto al Padre, per intercessione della beata, di aderire intimamente al mistero di Cristo e di sperimentare la sua misericordia.
Poiché è di questo soprattutto che l’uomo oggi, noi tutti, ha bisogno: sperimentare la vicinanza di Dio e la sua misericordia.
 
Pratica: “Grazie, Signore! Sono stati anni di tanta grazia. Aiutami a dimenticarmi, a donarmi a te e agli altri tutti nel mondo” (Beata Maria Rosa di Gesù).
 
Preghiera: O Dio, che ti compiaci di stabilire la tua dimora in chi ti serve con cuore semplice e puro, per intercessione della beata Maria Rosa di Gesù, vergine, fa’ che viviamo con purità evangelica per averti sempre ospite in noi, tempio vivo della tua gloria. Per il nostro Signore.

 


 

 

30 NOVEMBRE 2020
 
Lunedì I Settimana di Avvento (Anno B)
 
Sant’Andrea Apostolo
 
Rm 10,9-18; Sal 18 (19); Mt 4,18-22
 
Dal Martirologio: Festa di sant’Andrea, Apostolo: nato a Betsaida, fratello di Simon Pietro e pescatore insieme a lui, fu il primo tra i discepoli di Giovanni Battista ad essere chiamato dal Signore Gesù presso il Giordano, lo seguì e condusse da lui anche suo fratello. Dopo la Pentecoste si dice abbia predicato il Vangelo nella regione dell’Acaia in Grecia e subíto la crocifissione a Patrasso. La Chiesa di Costantinopoli lo venera come suo insigne patrono.
 
Colletta: Dio onnipotente, esaudisci la nostra preghiera nella festa dell’apostolo sant’Andrea; egli che fu annunziatore del Vangelo e pastore della tua Chiesa, sia sempre nostro intercessore nel cielo. Per il nostro Signore Gesù Cristo...
 
Benedetto XVI (Udienza Generale 14 Giugno 2006): Tradizioni molto antiche vedono in Andrea, il quale ha trasmesso ai greci questa parola, non solo l’interprete di alcuni Greci nell’incontro con Gesù ora ricordato, ma lo considerano come apostolo dei Greci negli anni che succedettero alla Pentecoste; ci fanno sapere che nel resto della sua vita egli fu annunciatore e interprete di Gesù  per il mondo greco. Pietro, suo fratello, da Gerusalemme attraverso Antiochia giunse a Roma per esercitarvi la sua missione universale; Andrea fu invece l’apostolo del mondo greco: essi appaiono così in vita e in morte come veri fratelli – una fratellanza che si esprime simbolicamente nello speciale rapporto delle Sedi di Roma e di Costantinopoli, Chiese veramente sorelle.
Una tradizione successiva, come si è accennato, racconta della morte di Andrea a Patrasso, ove anch’egli subì il supplizio della crocifissione. In quel momento supremo, però, in modo analogo al fratello Pietro, egli chiese di essere posto sopra una croce diversa da quella di Gesù. Nel suo caso si trattò di una croce decussata, cioè a incrocio trasversale inclinato, che perciò venne detta “croce di sant’Andrea”. Ecco ciò che l’Apostolo avrebbe detto in quell’occasione, secondo un antico racconto (inizi del secolo VI) intitolato Passione di Andrea: “Salve, o Croce, inaugurata per mezzo del corpo di Cristo e divenuta adorna delle sue membra, come fossero perle preziose. Prima che il Signore salisse su di te, tu incutevi un timore terreno. Ora invece, dotata di un amore celeste, sei ricevuta come un dono. I credenti sanno, a tuo riguardo, quanta gioia tu possiedi, quanti regali tu tieni preparati. Sicuro dunque e pieno di gioia io vengo a te, perché anche tu mi riceva esultante come discepolo di colui che fu sospeso a te … O Croce beata, che ricevesti la maestà e la bellezza delle membra del Signore! … Prendimi e portami lontano dagli uomini e rendimi al mio Maestro, affinché per mezzo tuo mi riceva chi per te mi ha redento. Salve, o Croce; sì, salve davvero!”. Come si vede, c’è qui una profondissima spiritualità cristiana, che vede nella Croce non tanto uno strumento di tortura quanto piuttosto il mezzo incomparabile di una piena assimilazione al Redentore, al Chicco di grano caduto in terra. Noi dobbiamo imparare di qui una lezione molto importante: le nostre croci acquistano valore se considerate e accolte come parte della croce di Cristo, se raggiunte dal riverbero della sua luce. Soltanto da quella Croce anche le nostre sofferenze vengono nobilitate e acquistano il loro vero senso.
L’apostolo Andrea, dunque, ci insegni a seguire Gesù con prontezza (cfr Mt 4,20; Mc 1,18), a parlare con entusiasmo di Lui a quanti incontriamo, e soprattutto a coltivare con Lui un rapporto di vera familiarità, ben coscienti che solo in Lui possiamo trovare il senso ultimo della nostra vita e della nostra morte.
 
Simone chiamato Pietro, Andrea, Giacomo e Giovanni sono convocati autorevolmente da Gesù ed essi rispondono alla chiamata con generosità lasciando immantinente lavoro, beni, affetti... La dedizione immediata di questi apostoli è ben messa in evidenza dal Vangelo: Simone e Andrea subito lasciarono le reti e seguirono il Maestro, allo stesso modo, Giacomo e Giovanni subito lasciarono la barca e il padre andando dietro al giovane Rabbi. Dio «passa e chiama. Se non gli rispondi immediatamente, può proseguire il cammino e allontanarsi da noi. Il passo di Dio è rapido; sarebbe triste se restassimo indietro, attaccati a molte cose che sono di peso e d’impaccio» (Bibbia di Navarra).
 
Dal Vangelo secondo Matteo 4,18-22: In quel tempo, mentre camminava lungo il mare di Galilea, Gesù vide due fratelli, Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello, che gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. E disse loro: «Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini». Ed essi subito lasciarono le reti e lo seguirono. Andando oltre, vide altri due fratelli, Giacomo, figlio di Zebedèo, e Giovanni suo fratello, che nella barca, insieme a Zebedèo loro padre, riparavano le loro reti, e li chiamò. Ed essi subito lasciarono la barca e il loro padre e lo seguirono.
 
La chiamata di Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello avviene lungo il mare di Galilea: altro nome del lago di Genesaret (o Tiberiade), situato nella parte settentrionale della valle del Giordano.
Simone, chiamato Pietro. Il nome di Pietro, qui anticipato, sarà dato a Simone da Gesù in occasione della sua “confessione” (Cf. Mt 16,18). Nel mondo antico, soprattutto nella mentalità biblica, v’era la tendenza di trovare sempre un significato funzionale ai nomi delle persone o anche delle cose. Imporre il nome o cambiare il nome stava ad indicare il potere di chi prendeva tale iniziativa. Adamo che era stato posto nel giardino di Eden perché lo coltivasse e lo custodisse (Gen 2,15), impone nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli animali selvatici, segno indubbio di esercizio di sovranità (Gen 2,19-20), Abram da Dio sarà chiamato Abraham, per significare che tutti i popoli saranno benedetti in lui, loro padre (Gen 17,5). Giacobbe sarà chiamato Israele, perché ha lottato con Dio (Gen 48,20), così Simone sarà chiamato Pietro perché sarà la pietra sulla quale Gesù edificherà e renderà salda la sua Chiesa (Mt 16,18).
E disse loro: «Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini». L’immagine usata dall’evangelista Matteo per indicare la futura missione degli Apostoli si radica nelle credenze del tempo. Era sentire comune credere che il mare fosse il regno delle potenze infernali, trarre fuori gli uomini dal mare assumeva quindi il significato profondo di liberare gli uomini dal peccato; liberare gli uomini dal potere di Satana sarà appunto la missione specifica degli Apostoli prima, della Chiesa dopo.
Nella chiamata di Simone e Andrea, suo fratello, vi è una novità sorprendente: infatti, a differenza «dei discepoli dei maestri ebrei che scelgono il loro maestro, qui è Gesù che sceglie quelli che vuole che lo seguano. C’è una forza e un’autorità misteriosa in lui se basta questo semplice invito a seguirlo per ottenere da parte dei discepoli una risposta pronta e l’altrettanto immediata rinuncia a tutto [Cf. Anche Mc 1,16-20]» (Il Nuovo Testamento, Vangeli e Atti degli Apostoli, Ed. Paoline).
La scuola di Gesù non vuole trasmettere nozioni o scibile umano, ma vuole creare una comunione di vita tra il Maestro e i discepoli.
 
Gesù vide due fratelli... Claude Tassin (Vangelo di Matteo): L’abbinamento delle due «coppie» di chiamati deriva da un’antica tradizione, presente anche in Mc 1,16-20. Matteo precisa semplicemente che Simone è «chiamato Pietro», preparando così il suo futuro ruolo (cfr. Mt 16,18), e unifica le espressioni: in Marco «essi lo seguirono / essi gli andarono dietro» diventa due volte in Matteo «lo seguirono», tipico verbo dello stato di discepolo.
L’espressione «pescatori di uomini» del v. 19 richiama la rete del pescatore o del cacciatore. In Ab 1,14-15 e Ger 16,16, quest’immagine rappresenta il giudizio di Dio che raggiunge colui che credeva di sfuggirgli. Matteo però interpreta senza dubbio Ger 16,14-21 come una profezia ottimistica del raduno degli ebrei dispersi e della conversione dei pagani; egli può anche pensare in anticipo alla parabola della rete (Mt 13,47): insomma, l’espressione «pescatori di uomini» annuncia in qualche modo la missione cristiana. L’evangelista insisterà ora su un punto: ci si può definire missionari nella misura in cui si è discepoli. Qui Gesù chiama dei discepoli che, nel corso di questa sezione, ascolteranno il Maestro e lo vedranno all’opera. Pietro, Andrea, Giacomo e Giovanni erano figure considerevoli per la seconda generazione di cristiani; ma, suggerisce Matteo, si venera la loro memoria perché essi in primo luogo sono stati discepoli, chiamati gratuitamente dall’araldo del regno dei cieli.
 
Karl Pauritsch: La vocazione, così come l’elezione, ha il suo fondamento nel libero, gratuito e immeritato amore di Dio. L’elezione avvenuta a priori e che nella vocazione viene concretizzata nei confronti di un singolo ha tuttavia il carattere della preferenza che manca nella vocazione. La distinzione dei due concetti risulta più semplice se usiamo delle immagini. All’elezione è più adeguata l’immagine dell’amico, alla vocazione quella del servo. Nella vocazione il singolo viene preso a servizio da Dio. Ma non perché ne sia particolarmente adatto, oppure ne abbia una propensione. La vocazione di Isaia è tipica di quanto indegni e peccatori si considerassero coloro che erano chiamati. L’uomo è colpito fino nel più intimo dalla chiamata di Dio.
L’avverte addirittura come una pretesa. Egli fa l’esperienza di Dio che irrompe nella sua vita, trapassandola una volta per sempre. Mosè e Geremia oppongono resistenza; si sentono sorpresi da Dio. Altri dicono che Dio li ha “afferrati” e “sedotti”.
Colui che è stato chiamato in questo modo da Dio sperimenta come sia vana ogni opposizione alla vocazione. Quando Dio chiama, l’uomo non può far altro che rispondere, pronunciare un sì incondizionato e irrevocabile, altrimenti ne perirebbe. La paura di non farcela, di non essere poi in grado di assumersi la responsabilità di questo sì e di poterlo vivere viene superata nel fatto di piegarsi obbedienti alla potenza dell’ordine divino e di adempiere il proprio sì in un corrispondente servizio.
La sacra Scrittura ricorda come i chiamati conoscano molto bene cosa assumono con il loro sì. Essi dicono un sì che terrà in tensione la loro vita futura condizionandola completamente. Essi sanno che attraverso la vocazione vengono sradicati dalle loro passate relazioni di vita. Colui che è oggetto di una vocazione viene scelto da Dio e isolato.
Vocazione significa esser abbandonati a un futuro incerto. E dire un sì a tutto ciò significa legarsi a JHWH e con ciò stesso essere esposti a una precarietà sociale ed economica; abbandonare le sicurezze sociali riguardanti il proprio itinerario di vita e il suo futuro, in favore della promessa che quello stesso Dio chiama sarà anche vicino col suo aiuto. Significa inoltre che Dio anche per mezzo di colui che chiama, sarà vicino al mondo che lo circonda, nonostante il mondo sarà incline a scorgere in questo fatto presunzione e alienazione.
 
Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** Dio «passa e chiama. Se non gli rispondi immediatamente, può proseguire il cammino e allontanarsi da noi. Il passo di Dio è rapido; sarebbe triste se restassimo indietro, attaccati a molte cose che sono di peso e d’impaccio» (Bibbia di Navarra).
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.
 
La comunione al tuo sacramento, o Signore,
ci fortifichi, perché, portando in noi i patimenti di Cristo
sull’esempio del santo apostolo Andrea,
possiamo vivere con lui nella gloria.
Per Cristo nostro Signore.


30 Novembre 2020
 
Sant’Andrea Apostolo
 
Il 30 novembre nel Martirologio romano si legge: Festa di sant’Andrea, Apostolo: nato a Betsaida, fratello di Simon Pietro e pescatore insieme a lui, fu il primo tra i discepoli di Giovanni Battista ad essere chiamato dal Signore Gesù presso il Giordano, lo seguì e condusse da lui anche suo fratello. Dopo la Pentecoste si dice abbia predicato il Vangelo nella regione dell’Acaia in Grecia e subíto la crocifissione a Patrasso. La Chiesa di Costantinopoli lo venera come suo insigne patrono. All’apostolo Andrea, infatti, spetta il titolo di Primo chiamato. Ed è commovente il fatto che, nel Vangelo di Giovanni, sia perfino annotata l’ora («le quattro del pomeriggio») del suo primo incontro e primo appuntamento con Gesù. Fu poi Andrea a comunicare al fratello Pietro la scoperta del Messia e a condurlo in fretta da Lui. La sua presenza è sottolineata in modo particolare nell’episodio della moltiplicazione dei pani. Sappiamo inoltre che, proprio ad Andrea, si rivolsero dei greci che volevano conoscere Gesù, ed egli li condusse al Divino Maestro. Su di lui non abbiamo altre notizie certe, anche se, nei secoli successivi, vennero divulgati degli Atti che lo riguardano, ma che hanno scarsa attendibilità. Secondo gli antichi scrittori cristiani, l’apostolo Andrea avrebbe evangelizzato l’Asia minore e le regioni lungo il mar Nero, giungendo fino al Volga. È perciò onorato come patrono in Romania, Ucraina e Russia.
Commovente è la ‘passione’ – anch’essa tardiva – che racconta la morte dell’apostolo, che sarebbe avvenuta a Patrasso, in Acaia: condannato al supplizio della croce, egli stesso avrebbe chiesto d’essere appeso a una croce particolare fatta ad X (croce che da allora porta il suo nome) e che evoca, nella sua stessa forma, l’iniziale greca del nome di Cristo. La Legenda aurea riferisce che Andrea andò incontro alla sua croce con questa splendida invocazione sulle labbra: «Salve Croce, santificata dal corpo di Gesù e impreziosita dalle gemme del suo sangue… Vengo a te pieno di sicurezza e di gioia, affinché tu riceva il discepolo di Colui che su di te è morto. Croce buona, a lungo desiderata, che le membra del Signore hanno rivestito di tanta bellezza! Da sempre io ti ho amata e ho desiderato di abbracciarti… Accoglimi e portami dal mio Maestro». Frasi oggi riportate in parte nei testi liturgici della festa del 30 novembre.
Infine, il nome di Andrea compare nel primo capitolo degli Atti con quelli degli altri apostoli diretti a Gerusalemme dopo l’Ascensione. E poi la Scrittura non dice altro di lui, mentre ne parlano alcuni testi apocrifi, ossia non canonici. Uno di questi, del II secolo, afferma che Andrea ha incoraggiato Giovanni a scrivere il suo Vangelo. E un testo copto contiene questa benedizione di Gesù ad Andrea: “Tu sarai una colonna di luce nel mio regno, in Gerusalemme, la mia città prediletta. Amen”. Lo storico Eusebio di Cesarea (ca. 265-340) scrive che Andrea predica il Vangelo in Asia Minore e nella Russia meridionale. Poi, passato in Grecia, guida i cristiani di Patrasso. Ed è questo autore a raccontare il martirio per crocifissione. Questo accade intorno all’anno 60, un 30 novembre. Nel 357 i suoi resti vengono portati a Costantinopoli; ma il capo, tranne un frammento, resta a Patrasso. Nel 1206, durante l’occupazione di Costantinopoli (quarta crociata) il legato pontificio cardinale Capuano, di Amalfi, trasferisce quelle reliquie in Italia. E nel 1208 gli amalfitani le accolgono solennemente nella cripta del loro Duomo. Quando nel 1460 i Turchi invadono la Grecia, il capo dell’Apostolo viene portato da Patrasso a Roma, dove sarà custodito in San Pietro per cinque secoli. Ossia fino a quando il papa Paolo VI, nel 1964,durante il Concilio Vaticano II, farà restituire la reliquia alla Chiesa di Patrasso, attraverso il Cardinale Agostino Bea.
 
BENEDETTO XVI
UDIENZA GENERALE
Piazza San Pietro Mercoledì, 14 giugno 2006
 
Andrea, il Protoclito

Cari fratelli e sorelle,
nelle ultime due catechesi abbiamo parlato della figura di san Pietro. Adesso vogliamo, per quanto le fonti permettono, conoscere un po’ più da vicino anche gli altri undici Apostoli. Pertanto parliamo oggi del fratello di Simon Pietro, sant’Andrea, anch’egli uno dei Dodici. La prima caratteristica che colpisce in Andrea è il nome: non è ebraico, come ci si sarebbe aspettato, ma greco, segno non trascurabile di una certa apertura culturale della sua famiglia. Siamo in Galilea, dove la lingua e la cultura greche sono abbastanza presenti. Nelle liste dei Dodici, Andrea occupa il secondo posto, come in Matteo (10,1-4) e in Luca (6,13-16), oppure il quarto posto come in Marco (3,13-18) e negli Atti (1,13-14). In ogni caso, egli godeva sicuramente di grande prestigio all’interno delle prime comunità cristiane.
Il legame di sangue tra Pietro e Andrea, come anche la comune chiamata rivolta loro da Gesù, emergono esplicitamente nei Vangeli. Vi si legge: “Mentre Gesù camminava lungo il mare di Galilea vide due fratelli, Simone chiamato Pietro e Andrea suo fratello, che gettavano la rete in mare, perché erano pescatori. E disse loro: «Seguitemi, vi farò pescatori di uomini»” (Mt 4,18-19;Mc 1,16-17). Dal Quarto Vangelo raccogliamo un altro particolare importante: in un primo momento, Andrea era discepolo di Giovanni Battista; e questo ci mostra che era un uomo che cercava, che condivideva la speranza d’Israele, che voleva conoscere più da vicino la parola del Signore, la realtà del Signore presente. Era veramente un uomo di fede e di speranza; e da Giovanni Battista un giorno sentì proclamare Gesù come “l’agnello di Dio” (Gv 1,36); egli allora si mosse e, insieme a un altro discepolo innominato, seguì Gesù, Colui che era chiamato da Giovanni “agnello di Dio”. L’evangelista riferisce: essi “videro dove dimorava e quel giorno dimorarono presso di lui” (Gv 1,37-39). Andrea quindi godette di preziosi momenti d’intimità con Gesù. Il racconto prosegue con un’annotazione significativa: “Uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e lo avevano seguito era Andrea, fratello di Simon Pietro. Egli incontrò per primo suo fratello Simone e gli disse: «Abbiamo trovato il Messia, che significa il Cristo», e lo condusse a Gesù” (Gv 1,40-43), dimostrando subito un non comune spirito apostolico. Andrea, dunque, fu il primo degli Apostoli ad essere chiamato a seguire Gesù. Proprio su questa base la liturgia della Chiesa Bizantina lo onora con l’appellativo di Protóklitos, che significa appunto “primo chiamato”. Ed è certo che anche per il rapporto fraterno tra Pietro e Andrea la Chiesa di Roma e la Chiesa di Costantinopoli si sentono tra loro in modo speciale Chiese sorelle. Per sottolineare questo rapporto, il mio predecessore Papa Paolo VI, nel 1964, restituì l’insigne reliquia di sant’Andrea, fino ad allora custodita nella Basilica Vaticana, al Vescovo metropolita ortodosso della città di Patrasso in Grecia, dove secondo la tradizione l’Apostolo fu crocifisso.
Le tradizioni evangeliche rammentano particolarmente il nome di Andrea in altre tre occasioni che ci fanno conoscere un po’ di più quest’uomo. La prima è quella della moltiplicazione dei pani in Galilea. In quel frangente, fu Andrea a segnalare a Gesù la presenza di un ragazzo che aveva con sé cinque pani d’orzo e due pesci: ben poca cosa - egli rilevò - per tutta la gente convenuta in quel luogo (cfr Gv 6,8-9). Merita di essere sottolineato, nel caso, il realismo di Andrea: egli notò il ragazzo – quindi aveva già posto la domanda: “Ma che cos’è questo per tanta gente?” (ivi) - e si rese conto della insufficienza delle sue poche risorse. Gesù tuttavia seppe farle bastare per la moltitudine di persone venute ad ascoltarlo. La seconda occasione fu a Gerusalemme. Uscendo dalla città, un discepolo fece notare a Gesù lo spettacolo delle poderose mura che sorreggevano il Tempio. La risposta del Maestro fu sorprendente: disse che di quelle mura non sarebbe rimasta pietra su pietra. Andrea allora, insieme a Pietro, Giacomo e Giovanni, lo interrogò: “Dicci quando accadrà questo e quale sarà il segno che tutte queste cose staranno per compiersi” (Mc 13,1-4). Per rispondere a questa domanda Gesù pronunciò un importante discorso sulla distruzione di Gerusalemme e sulla fine del mondo, invitando i suoi discepoli a leggere con accortezza i segni del tempo e a restare sempre vigilanti. Dalla vicenda possiamo dedurre che non dobbiamo temere di porre domande a Gesù, ma al tempo stesso dobbiamo essere pronti ad accogliere gli insegnamenti, anche sorprendenti e difficili, che Egli ci offre.
Nei Vangeli è, infine, registrata una terza iniziativa di Andrea. Lo scenario è ancora Gerusalemme, poco prima della Passione. Per la festa di Pasqua - racconta Giovanni - erano venuti nella città santa anche alcuni Greci, probabilmente proseliti o timorati di Dio, venuti per adorare il Dio di Israele nella festa della Pasqua. Andrea e Filippo, i due apostoli con nomi greci, servono come interpreti e mediatori di questo piccolo gruppo di Greci presso Gesù. La risposta del Signore alla loro domanda appare – come spesso nel Vangelo di Giovanni – enigmatica, ma proprio così si rivela ricca di significato. Gesù dice ai due discepoli e, per loro tramite, al mondo greco: “È giunta l’ora che sia glorificato il Figlio dell’uomo. In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (12,23-24). Che cosa significano queste parole in questo contesto? Gesù vuole dire: Sì, l’incontro tra me ed i Greci avrà luogo, ma non come semplice e breve colloquio tra me ed alcune persone, spinte soprattutto dalla curiosità. Con la mia morte, paragonabile alla caduta in terra di un chicco di grano, giungerà l’ora della mia glorificazione. Dalla mia morte sulla croce verrà la grande fecondità: il “chicco di grano morto” – simbolo di me crocifisso – diventerà nella risurrezione pane di vita per il mondo; sarà luce per i popoli e le culture. Sì, l’incontro con l’anima greca, col mondo greco, si realizzerà a quella profondità a cui allude la vicenda del chicco di grano che attira a sé le forze della terra e del cielo e diventa pane. In altre parole, Gesù profetizza la Chiesa dei greci, la Chiesa dei pagani, la Chiesa del mondo come frutto della sua Pasqua.
Tradizioni molto antiche vedono in Andrea, il quale ha trasmesso ai greci questa parola, non solo l’interprete di alcuni Greci nell’incontro con Gesù ora ricordato, ma lo considerano come apostolo dei Greci negli anni che succedettero alla Pentecoste; ci fanno sapere che nel resto della sua vita egli fu annunciatore e interprete di Gesù  per il mondo greco. Pietro, suo fratello, da Gerusalemme attraverso Antiochia giunse a Roma per esercitarvi la sua missione universale; Andrea fu invece l’apostolo del mondo greco: essi appaiono così in vita e in morte come veri fratelli – una fratellanza che si esprime simbolicamente nello speciale rapporto delle Sedi di Roma e di Costantinopoli, Chiese veramente sorelle.
Una tradizione successiva, come si è accennato, racconta della morte di Andrea a Patrasso, ove anch’egli subì il supplizio della crocifissione. In quel momento supremo, però, in modo analogo al fratello Pietro, egli chiese di essere posto sopra una croce diversa da quella di Gesù. Nel suo caso si trattò di una croce decussata, cioè a incrocio trasversale inclinato, che perciò venne detta “croce di sant’Andrea”. Ecco ciò che l’Apostolo avrebbe detto in quell’occasione, secondo un antico racconto (inizi del secolo VI) intitolato Passione di Andrea: “Salve, o Croce, inaugurata per mezzo del corpo di Cristo e divenuta adorna delle sue membra, come fossero perle preziose. Prima che il Signore salisse su di te, tu incutevi un timore terreno. Ora invece, dotata di un amore celeste, sei ricevuta come un dono. I credenti sanno, a tuo riguardo, quanta gioia tu possiedi, quanti regali tu tieni preparati. Sicuro dunque e pieno di gioia io vengo a te, perché anche tu mi riceva esultante come discepolo di colui che fu sospeso a te ... O Croce beata, che ricevesti la maestà e la bellezza delle membra del Signore! ... Prendimi e portami lontano dagli uomini e rendimi al mio Maestro, affinché per mezzo tuo mi riceva chi per te mi ha redento. Salve, o Croce; sì, salve davvero!”. Come si vede, c’è qui una profondissima spiritualità cristiana, che vede nella Croce non tanto uno strumento di tortura quanto piuttosto il mezzo incomparabile di una piena assimilazione al Redentore, al Chicco di grano caduto in terra. Noi dobbiamo imparare di qui una lezione molto importante: le nostre croci acquistano valore se considerate e accolte come parte della croce di Cristo, se raggiunte dal riverbero della sua luce. Soltanto da quella Croce anche le nostre sofferenze vengono nobilitate e acquistano il loro vero senso.
L’apostolo Andrea, dunque, ci insegni a seguire Gesù con prontezza (cfr Mt 4,20; Mc 1,18), a parlare con entusiasmo di Lui a quanti incontriamo, e soprattutto a coltivare con Lui un rapporto di vera familiarità, ben coscienti che solo in Lui possiamo trovare il senso ultimo della nostra vita e della nostra morte.
 
Mons. Vincenzo Paglia, Vescovo (Omelia, 30 Novembre 2006): Andrea, nativo di Betsàida, era discepolo del Battista, ed è stato il primo chiamato da Gesù a seguirlo. Il Vangelo di Matteo ce lo presenta sulle rive del mare di Galilea mentre, con Pietro suo fratello, è intento a gettare le reti nel mare per la pesca. Gesù lo vede e lo chiama a seguirlo. L’inizio della vita pubblica di Gesù non è segnato da gesti prodigiosi, ma da un incontro. È una indicazione di come il Vangelo continua a camminare nella storia: incontrando uomini e donne. Infatti, poco dopo si ripete la stessa scena con altri due fratelli, Giacomo e Giovanni. Gesù li chiama ad un’altra pesca, li chiama ad entrare in un altro mare, quello degli uomini e delle donne spesso travolti dalle onde e sbattuti dai venti del mondo. I quattro, abbandonate subito le reti, lo seguono. È la decisione della fede che fa lasciare le proprie abitudini per seguire l’unico capace di dare senso alla vita. Il segreto è semplice: seguire, come ha fatto Andrea, l’invito del Vangelo.
 
Pratica: Seguirò prontamente Gesù.
 
Preghiera: Dio onnipotente, esaudisci la nostra preghiera nella festa dell’apostolo sant’Andrea; egli che fu annunziatore del Vangelo e pastore della tua Chiesa, sia sempre nostro intercessore nel cielo. Per il nostro Signore...
 

 

 

 29 NOVEMBRE 2020
 
I Domenica di Avvento (Anno B)
 
Is 63,16b-17.19b; 64,2-7; Salmo Responsoriale 79 (80); 1Cor 1,3-9; Mc 13,33-37
 
Avvento: Benedetto XVI (Udienza Generale, 28 novembre 2009): Riflettiamo brevemente sul significato di questa parola, che può tradursi con “presenza”, “arrivo”, “venuta”. Nel linguaggio del mondo antico era un termine tecnico utilizzato per indicare l’arrivo di un funzionario, la visita del re o dell’imperatore in una provincia. Ma poteva indicare anche la venuta della divinità, che esce dal suo nascondimento per manifestarsi con potenza, o che viene celebrata presente nel culto. I cristiani adottarono la parola “avvento” per esprimere la loro relazione con Gesù Cristo: Gesù è il Re, entrato in questa povera “provincia” denominata terra per rendere visita a tutti; alla festa del suo avvento fa partecipare quanti credono in Lui, quanti credono nella sua presenza nell’assemblea liturgica. Con la parola adventus si intendeva sostanzialmente dire: Dio è qui, non si è ritirato dal mondo, non ci ha lasciati soli. Anche se non lo possiamo vedere e toccare come avviene con le realtà sensibili, Egli è qui e viene a visitarci in molteplici modi.   
 
I Domenica di Avvento - I lettura: La liturgia odierna propone alcuni versetti di un bellissimo poema molto affine come stile ai salmi di lamento.
L’autore sacro, dopo aver ricordato la bontà misericordiosa di Dio e la colpevole stoltezza del popolo d’Israele, invoca, con suppliche e lacrime, la riconciliazione e il ritorno di Dio in mezzo al suo popolo. Il supplicante sarà esaudito quando nella pienezza del tempo il Verbo di Dio scenderà dal cielo, in umana carne, per liberare tutti gli uomini dal peccato e dalla morte.
 
Salmo responsoriale: La Chiesa è la vigna di Gesù, bisognosa della sua protezione. Ma pur essendo circondata dall’amore di Gesù la Chiesa è calpestata e saccheggiata dai suoi nemici, il peggiore dei quali è l’eresia, la divisione. In questa cornice il salmo 79 sulle labbra del credente può diventare una preghiera per chiedere la riconciliazione.
 
II lettura: L’ultimo giorno «è il compimento, nell’era escatologica inaugurata da Cristo, del “giorno di Jahve” annunziato dai profeti [Am 5,18]. Già realizzata in parte con la prima venuta del Cristo [Lc 17,20-24] e la caduta di Gerusalemme [Mt 24,1], quest’ultima tappa della storia della salvezza [cf At 1,7] sarà consumata con il ritorno glorioso [1Cor 1,7; 15,23; 1Tm 6,14] del giudice supremo [Rom 2,6; Gc 5,8-9]. Sarà accompagnata da uno sconvolgimento e da un rinnovamento cosmico [cf Am 8,9; Mt 24,29p; Eb 12,26s; 2Pt 3,10-13; Ap 20,11]. Quel giorno di luce si avvicina [Rom 13,12; Eb 10,25; Gc 5,8; 1Pt 4,7; cf 1Ts 5,2-3]. La sua data è incerta (1Ts 5,1): bisogna prepararsi durante il tempo che resta [2Cor 6,2]» (Bibbia di Gerusalemme).
 
Vangelo: Il vangelo di questa prima domenica di Avvento mette in evidenza la parte conclusiva di quello che è chiamato il discorso escatologico di Gesù. Differentemente «dal discorso di Matteo, che aggiunge alla prospettiva della rovina di Gerusalemme e del tempio quella della fine del mondo [cf Mt 24,1], il discorso di Marco ha maggiormente conservato l’orientamento primitivo, che riguarda esclusivamente la rovina di Gerusalemme» (Bibbia di Gerusalemme). Al di là di questi rilievi il tema centrale è quello della vigilanza. Un discorso che è rivolto a tutti, nessuno escluso, credenti e no.
 
Dal Vangelo secondo Marco 13,33-37: In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento. È come un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vegliare.
Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino; fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati.
Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!».
Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino; fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati.
Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!».
 
State attenti - Senza volere fare un esame esegetico delle tre letture, va detto che la liturgia di questa prima domenica di avvento vuole proporre un solo tema ed è quello della vigilanza diuturna.
La vigilanza non deve essere identificata esclusivamente con un impegno di attenzione e di fedeltà alle norme etiche perché verrebbe moralizzato il concetto dandone in questo modo una comprensione parziale. Vegliare significa soprattutto ricordare che tutta la vita cristiana è un camminare verso l’incontro finale con Cristo Salvatore e Giudice. Quindi, una attenzione amorosa verso Dio che già regna, che già è venuto nel mistero della carne e che verrà nella gloria a giudicare i vivi e i morti. Gesù, vero Dio e vero uomo, verrà e porterà a compimento il piano della salvezza già inaugurato nella sua morte e risurrezione. La vigilanza è fissare lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede (Eb 12,2). È  desiderare ardentemente le cose del cielo, «dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio» (Col 3,1).
La breve parabola dei servi e del portinaio accenna certamente a doveri da compiere, ma soprattutto mette bene in evidenza l’attesa per la persona del padrone: la sua partenza non può dare la stura al disimpegno, ma invece all’impegno serio, pertinace. Il servo, proprio perché il padrone è assente, deve con più alacrità, con il lavoro e la fatica, sforzarsi di impiantare il regno di Dio in mezzo agli uomini e soprattutto, senza cedere al sonno, deve essere gioiosamente vigilante nell’attesa trepidante e timorosa del ritorno del padrone. È questo che deve rimanere vivo nei servi e in coloro che occupano un posto di responsabilità nella casa del padrone.
In questo modo la vigilanza cristiana è più un aspetto della fede e della speranza che non dell’impegno morale. Quest’ultimo è il frutto, la conseguenza, la traduzione pratica dell’essere desti, ma non è la sostanza della vigilanza stessa.
Ma si deve sottolineare un altro aspetto della parabola del padrone che parte. I servi vivono nell’attesa trepidante del suo ritorno, ma ogni cosa della casa richiama la sua presenza: il padrone è lontano, ma è in mezzo ai suoi come se non si fosse mai allontanato dalla sua abitazione.
Così per noi, attendere la venuta del Signore Gesù significa vivere nella comunione con lui già fin d’ora. Questo aspetto della vigilanza tiene viva la fiamma dell’amore e incendiando il cuore con le fiamme amorose del desiderio e della nostalgia spinge il servo a vivere già ora l’esperienza terrena immerso in un mistero fatto di eternità, di comunione, di contemplazione, di adorazione e di visione.
La vigilanza cristiana non è l’attesa di eventi infausti, catastrofici, paurosi; non è l’attesa del padre-padrone che farà tremenda giustizia al suo ritorno; non è l’attesa nel terrore di un giudizio inappellabile, ma è l’attesa gioiosa dell’Amore che introdurrà l’uomo in una vita nuova dove verrà liberato per sempre, senza più ripiegamenti, dal peccato e dalla morte. È una speranza che poggia non sulla capacità di essere fedeli a certi comportamenti morali, ma sull’amore e sulla fedeltà di Dio che già si è fatto carne in Cristo.
L’attesa della venuta del padrone è il possesso già ora di questa totale liberazione. Vigilare è la certezza che Dio è vicino all’uomo nonostante tutto; nonostante il suo peccato, la sua miseria, i suoi limiti, la sua povertà, la sua infedeltà; nonostante quei capricci che spingono la creatura a infrangere facilmente patti e propositi. È certezza che Dio nonostante tutto realizzerà il suo progetto di salvezza; è profonda convinzione che il futuro di beatitudine e di perfetta comunione è già presente.
Quando viene meno questa speranza-fede-certezza l’uomo piomba nella disperazione, nell’angoscia che sbocca in una logorante attesa di un evento apportatore di soli infausti eventi; è spalancare in modo distorto gli occhi sulla storia dell’uomo cogliendovi soltanto semi di violenza, di malvagità, di morte; è cogliere la propria vita in una infruttuosa proiezione che ha già l’amaro sapore della sconfitta, del fallimento e della morte. In questa disperata comprensione del proprio mistero di creature amate, redente, in cammino verso il Signore che viene, l’uomo cedendo al sonno si apre alla pigrizia, alla rinuncia, alla rassegnazione, alla sfiducia, alla indolenza, alla morte senza risurrezione. E questa è la vittoria di satana che riesce a seminare nel giardino di Dio la zizzania, è la vittoria del peccato che riesce a imporsi approfittando della lontananza di Dio.
 
Ttesa fiduciosa e attiva - José Maria Gonzalez-Ruiz (Vangelo secondo Marco): Molti esegeti non riescono a trovare una distinzione sostanziale fra questo testo e il precedente. Tuttavia basta osservare come l’evangelista stabilisce una chiara distinzione fra l’avvenimento che può essere relativamente previsto, cioè la distruzione del tempio e quel giorno del quale nessuno sa nulla: quello della parusia di Cristo; quella data, assolutamente segreta, non è conosciuta dagli angeli né dal Figlio dell’uomo, ma solo da Dio. Molti si chiedono come Gesù, essendo Dio e presentato come tale in questo vangelo, possa ignorare la data della fine.
A questo occorre rispondere, in primo luogo, che il mistero dell’Incarnazione non cessa di essere un mistero: sappiamo infatti che Gesù fu un uomo come tutti gli altri e che ebbe le naturali lacune culturali dei suoi contemporanei. Egli avrebbe saputo parlare l’aramaico, avrebbe inteso qualcosa dell’ebraico e avrebbe parlato in qualche misura anche il greco ellenistico, esattamente come i suoi contemporanei. Qui vi è però un’osservazione molto importante: si tratta del «Figlio dell’uomo».
Abbiamo già visto come la cristologia del secondo vangelo sia una cristologia del Figlio dell’uomo. Questo vuol dire che Gesù, in quanto «Figlio dell’uomo», deve comunicare un determinato messaggio con i suoi limiti e le sue frontiere. Non faceva parte di questo messaggio soddisfare la curiosità degli uomini circa il finale della storia umana.
Il significato dell’esortazione è chiaro e perfettamente coerente col contesto: si chiede ai credenti la massima vigilanza: «Vigilate... poiché non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino». L’importante è che «non giunga all’improvviso trovandovi addormentati». Quindi si chiede ai credenti di rinunziare a fare calcoli e previsioni sulla fine più o meno prossima dei tempi. Dovrebbero invece attendere senza timore quella fine impiegando il tempo presente nel lavoro instancabile di ogni giorno.
Astenersi dalle attività umane per prepararsi meglio alla fine non è un’interpretazione valida del discorso di Gesù
 
Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** “Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di comparire davanti al Figlio dell’uomo.” (Lc 21,36 - Acclamazione al Vangelo).
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.
 
La partecipazione a questo sacramento,
che a noi pellegrini sulla terra
rivela il senso cristiano della vita,
ci sostenga, Signore, nel nostro cammino
e ci guidi ai beni eterni.
Per Cristo nostro Signore.


29 Novembre 2020
Maria Maddalena dell’Incarnazione
Fondatrice dell’Ordine delle Adoratrici Perpetue del SS.mo Sacramento
 
Maria Maddalena dell’Incarnazione, al secolo Caterina Sordini, nasce il 16 aprile 1770, lunedì di Pasqua, a Porto S. Stefano (GR) da Lorenzo Sordini e Teresa Moizzo, verso le otto di sera, quarta di nove figli. Il 17 aprile è battezzata nella chiesa parrocchiale di Porto S. Stefano, con i nomi di Caterina, Francesca, Antonia; al Sacro Fonte fungono da padrini, Bartolomeo Giovine e M. Anna Schiano.
Non ancora diciottenne, dopo aver rifiutato una interessante proposta di matrimonio del padrone di bastimenti di Sorrento, tale Alfonso Capece, entrò tra le Francescane di Ischia di Castro (VT).
Durante il Noviziato (il 19 febbraio 1789) mentre spazzava il refettorio, vide Gesù Eucaristia circondato da angeli in adorazione, vestiti di una tunica bianca e scapolare rosso. Il Signore le disse di averla scelta per istituire l’opera delle Adoratrici Perpetue, le quali giorno e notte avrebbero dovuto offrire i loro umili ossequi, lodi e adorazioni per riparare le ingratitudini dell’umanità ed impetrare grazie ed aiuti dalla divina provvidenza. Caterina, che ormai aveva preso il nome di Suor Maria Maddalena dell’Incarnazione, vide le sofferenze della Chiesa, del Papa, vide il disperdersi delle coscienze e vide che tutto questo avrebbe trovato un rimedio se l’uomo si fosse mantenuto ancorato alla radice stessa della fede cristiana: l’Eucaristia.
Sarà dunque fondatrice di una Famiglia Religiosa unicamente dedita all’adorazione della SS. Eucaristia. Nell’attesa che Dio le riveli il tempo e il momento per realizzare il suo progetto, rimase nel Monastero di Ischia di Castro per ben 19 anni, diventandone anche Badessa, nel 1802, a soli 32 anni. Si impegnò nel rafforzare la vita di povertà e di penitenza del convento.
Nel 1803 fece visita al convento Carlo Emanuele IV di Savoia che volle parlare con la badessa; il colloquio durò circa due ore. Episodi come questo, insieme ad alcuni fenomeni mistici, diffusero la fama di Maria Maddalena in tutto il circondario. Nel frattempo, sotto la guida spirituale di padre Giovanni Baldeschi, andò maturando la fondazione di una comunità religiosa monastica che si dedicasse unicamente all’adorazione del Santissimo Sacramento.
Con l’autorizzazione di mons. Pierleone, vescovo di Acquapendente, iniziò a redigere la regola del nuovo Istituto religioso. Il 31 maggio 1807, accompagnata da due consorelle, lasciò Ischia di Castro e si recò Roma, dove, con il consenso di Papa Pio VII (Barnaba Chiaramonti, 1800-1823), diede vita al primo convento di Adoratrici, in un ex monastero carmelitano presso le Quattro Fontane. L’anno seguente il Card. Giulio Maria della Somaglia, vicario del Papa, sottoscrisse il Decreto di approvazione delle Regole. Lo stesso anno, però, i francesi occuparono Roma e sciolsero le comunità religiose, compresa quella delle “Adoratrici perpetue del Santissimo Sacramento”. Maria Maddalena fu costretta a riparare in Toscana, dalla quale, però, ritornò a Roma con un gruppo di nuove compagne nel 1814, stabilendosi nella chiesa di Sant’Anna al Quirinale.
Nel 1817 viene approvato, sotto la supervisione dello stesso pontefice, l’abito delle monache (tonaca bianca, velo nero e scapolare rosso con un ostensorio bianco ricamato sul petto). Papa Pio VII approvò definitivamente il nuovo istituto nel febbraio del 1818.
La Madre Fondatrice, muore a Roma il 29 novembre 1824, lasciando una fama di santità e di fenomeni straordinari che l’avevano accompagnata in vita.
Maria Maddalena è stata dichiarata Venerabile, in data 24 aprile 2001, da Giovanni Paolo II e beatificata, il 3 maggio 2008, da Papa Benedetto XVI, a Roma, presso la Basilica di S. Giovanni in Laterano.
L’Ordine delle “Adoratrici perpetue del Santissimo Sacramento” prende la propria fisionomia e il proprio spirito caratteristico dall’Eucaristia. Compito specifico delle monache adoratrici è adorare giorno e notte, ininterrottamente, Gesù Eucaristia. In unione con Lui, esse offrono la propria vita al Padre per le necessità della Chiesa e del mondo. Alla totalità del dono di sé fatto da Gesù nell’Eucaristia (“avendo amati i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine” Gv13,1), le Adoratrici rispondono con la totalità del dono di loro stesse. Duplice è il loro apostolato: quello che, nel nascondimento e nell’intimità della clausura, si esercita con la preghiera e l’immolazione, e quello costituito dalla loro presenza adorante ai piedi dell’altare, una presenza che, mentre testimonia il primato di Dio e la presenza reale di Gesù nell’Ostia consacrata, offre anche ai fedeli laici la possibilità di sostare in adorazione. A questo scopo la Madre Fondatrice ha voluto espressamente che i monasteri sorgessero nel cuore delle città.
Fonti principali: adoratriciperpetue.org; santiebeati.it; wikipedia.org (“RIV./gpm”)
 
Nel pomeriggio di sabato 3 maggio 2008 si è svolta a Roma, nella basilica di S. Giovanni in Laterano, la celebrazione di beatificazione di Madre Maria Maddalena dell’Incarnazione, al secolo Caterina Sordini (1770-1824) fondatrice dell’Ordine delle Adoratrici Perpetue del Santissimo Sacramento. Il rito è stato presieduto, in rappresentanza del Papa, dal cardinale José Saraiva Martins, Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, il quale ha pronunciato l’omelia, di cui proponiamo ampi stralci.
 
Come i primi discepoli, anche noi, eleviamo lo sguardo al cielo, per contemplare la gloria di Gesù, Maestro e Signore, ed esultare. In Cristo asceso al cielo, infatti, è la nostra umanità stessa, quella che lui ha assunto nell’incarnazione, che è innalzata al massimo splendore della sua dignità.
La nostra speranza perciò è una certezza, fondata sulle rasserenanti parole che il Maestro pronunziò durante l’ultima cena: “Padre, voglio che anche quelli che mi hai dato siano con me dove sono io” (Giovanni 17,24).
I cristiani sono quindi coloro che seguono Gesù! Ad una considerazione superficiale e forse ancora immatura, questa espressione indicherà semplicemente un modo di pensare e di comportarsi: i cristiani, cioè, sono coloro che nella condotta di vita si ispirano alle parole e all’esempio di Cristo.
Ma ad un livello più profondo, il livello sperimentato da tanti credenti e testimoniato dalla vita dei santi, l’appartenenza a Cristo, la “sequela di Cristo”, comporterà molto di più: non si tratterà cioè soltanto di un rapporto tra un discepolo e un maestro, un rapporto fatto di ascolto-obbedienza-imitazione. No. Si tratterà di un “innesto”: noi siamo innestati in Cristo come i tralci alla vite, apparteniamo talmente a lui da essere le membra del suo corpo. Con la sua Ascensione Gesù dà fondamento sicuro e definitivo a quella “speranza” alla quale ci ha chiamati, a quel “tesoro di gloria” che ci ha promesso e che è l’eredità fra i santi ed eletti di Dio. (…) E tuttavia questa attesa, questa certezza di essere un giorno con Cristo per sempre, non deve essere motivo di disimpegno o di inerzia per gli apostoli. Al contrario, l’ascensione segna l’inizio della missione. Termina il cammino terreno di Gesù e inizia il cammino della Chiesa nella storia del mondo. L’ascensione inaugura il tempo della Chiesa, e comincia il tempo della maturazione della fede dei discepoli: non si tratta, in definitiva, di instaurare una dottrina nuova, ma di instaurare un discepolato con Cristo. (….) Ecco il nostro compito, carissimi: noi siamo inviati dal Signore nel mondo per trasformarlo, per immettere nelle realtà terrene i germi del suo Regno.
In questo progetto di trasformazione del mondo noi non siamo soli. In realtà Gesù non ci abbandona, ma rimane con noi.  Ancora una volta, in mezzo a questa assemblea, è risuonata la straordinaria promessa di Gesù, la sua parola più dolce e consolante: Io non vi lascio orfani (cfr. Giovanni 14,18), “io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Matteo 28,30).
Gesù  continua ad essere realmente presente in mezzo a noi come il Maestro che annunzia e spiega le scritture, il Servo che si china per lavare i nostri piedi, il Medico che si accompagna alle umane fragilità, il Povero che chiede a noi rispetto e attenzione.
Ma il massimo grado di intensità del suo stare con noi si compie nel sacramento dell’Eucaristia, nel suo duplice aspetto di celebrazione e di permanenza, perché in esso c’è non solo la presenza reale del Signore, ma anche la sua presenza “sostanziale”: la sostanza stessa del pane e del vino, la fibra intima del loro essere, viene trasformata in Gesù. (…) La novella beata, Maria Maddalena dell’Incarnazione, ha creduto fermamente alle parole di Gesù, ne ha pienamente condiviso il mandato e si è lasciata coinvolgere nello splendido progetto di salvezza che il Signore Gesù  ha inaugurato nella storia. Questa donna che oggi è stata elevata all’onore degli altari ripresenta a noi la sua testimonianza di fede nella presenza del figlio di Dio nella vita della Chiesa, incentrata nell’Eucaristia.
Affascinata dal mistero eucaristico, Madre Maria Maddalena profuse la propria vita trasfigurandola in un atto di adorazione. La sua grande missione – ricevuta dal Signore stesso – è stata quella di proporre a se stessa, all’Istituto delle Suore dell’Adorazione Perpetua del Santissimo Sacramento da lei fondato, alla Chiesa intera l’esperienza di una adorazione che fosse “perpetua”: come Gesù permane nel sacramento anche dopo che sia terminato il momento celebrativo, così è necessario che noi rimaniamo con Lui. Un’adorazione, dunque, che non venga mai meno nella Chiesa, che nasca e si prolunghi nel tempo, affinché l’Ostia Santa campeggi sul mondo, trionfi pubblicamente e sia memoria perenne dell’Amore di Dio per gli uomini, un fuoco capace di incendiare ogni angolo della terra.
Così si comprendono bene quelle parole di Madre Sordini: “Gesù, vorrei che tutto il mondo ti amasse, anche a costo della mia stessa vita”. Madre Maria Maddalena ci insegna che è dal cuore di Gesù Eucaristico che sgorga misteriosamente una vita nuova in grado di rinnovare il popolo cristiano.
La beatificazione odierna richiama la nostra attenzione sulla grazia straordinaria, a noi donata, di stare alla presenza del Signore. (…) La storia affascinante di Madre Maria Maddalena dell’Incarnazione ci aiuterà ad arginare un lato debole dell’apostolato, specialmente in questo particolare momento storico, per non perdere mai la convinzione dell’importanza fondamentale ed insostituibile della preghiera e, soprattutto, nel riconoscere all’Eucaristia il suo ruolo di fons te culmen – sorgente e compimento – nella nostra vita di fede. La beata Madre Sordini pensava ai suoi monasteri come centri di irradiazione spirituale per l’intera umanità. In effetti, l’Adorazione del Pane eucaristico spezzato deve spingere il cristiano, a sua volta, a “spezzare” la propria persona e a rivoluzionare il proprio stile di vita per offrirsi ai fratelli.
Non una fuga, dunque, né un’evasione dalla realtà del presente, quella della beata Sordini, anima fortemente contemplativa, come per tutti i santi del resto, ma una provocazione: rivolta a noi, al massimo impegno nel comportarci da credenti, sempre e ovunque, nell’operare alacremente da cristiani autentici in mezzo alla nostra società, per realizzare dentro di noi e nel mondo, il Regno di Dio, che è regno di pace, giustizia, santità e amore.
 
FONTE: http://adoratriciperpetuevigevano.it/
 
 
Pratica:
Gesù, vorrei che tutto il mondo ti amasse, anche a costo della mia stessa vita.
 
Preghiera: O Dio,
che hai dato alla vergine Maria Maddalena dell’Incarnazione
ineffabile conoscenza dell’Eucaristia
per il suo esempio e la sua intercessione
concedici di adorare con viva fede ed amore
il santo mistero del Corpo e Sangue del tuo Figlio
perché la nostra vita sia un continuo rendimento di grazie.
Per Cristo nostro Signore.