1 NOVEMBRE 2023
 
TUTTI I SANTI – SOLENNITÀ
 
Ap 7,2-4.9-14; Salmo Responsoriale Dal Salmo 23 (24); 1Gv 3,1-3; Mt 5,1-12a
 
Messaggio e attualità - Enzo Lodi (I Santi del Calendario Romani): Nei testi della Messa che esprimono il senso di questa solennità (che comprende non solo i santi canonizzati ma anche tutti quelli che sono in possesso della gloria del cielo), possiamo cogliere tre temi.
a) Nella colletta si chiede a «Dio che la Chiesa, a cui ha dato la gioia di celebrare in un’unica festa i meriti e la gloria di tutti i santi, per la comune intercessione di tanti intercessori riceva l’abbondanza della sua misericordia, mentre noi siamo pellegrini sulla terra». Il primo tema è quello di credere che c’è un’intercessione («multiplicatis intercessoribus») dei santi perché, come dice il prefazio nuovo, questi membri eletti della Chiesa (cfr. Agostino, Confessioni, 10), che formano l’assemblea festosa dei nostri fratelli, sono diventati «amici e modelli di vita» (LG 50), pur rimanendo nel loro stato in cui glorificano in eterno il nome di Dio.
b) Nelle orazioni sulle offerte e dopo la comunione si menziona il pellegrinaggio terreno, che pure viene indicato nella colletta ed esplicitato nel prefazio con vari riferimenti biblici. Infatti noi abbiamo la gioia di contemplare la città del cielo (Eb 12,22), la santa Gerusalemme che è nostra madre (Gal 4,26): essa è anche la nostra patria, perché verso di essa, pellegrini sulla terra (2Cor 5,6), affrettiamo nella speranza il nostro cammino.
e) Infine nell’orazione dopo la comunione è evidenziato pure il confronto dinamico fra i due temi di banchetto: la mensa dei pellegrini e il convito della patria celeste, con la certezza che è possibile il passaggio dall’uno all’altro, proprio mentre noi celebriamo la perfezione della santità nella pienezza dell’amore divino.
 
Colletta
Dio onnipotente ed eterno,
che ci doni la gioia di celebrare in un’unica festa
i meriti e la gloria di tutti i Santi, concedi al tuo popolo,
per la comune intercessione di tanti nostri fratelli,
l’abbondanza della tua misericordia.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Giovanni Paolo II (Udienza Generale 24 Novembre 1993): Secondo il Concilio, tutti i seguaci di Cristo, anche i laici, sono chiamati alla perfezione della carità (LG 40). La tendenza alla perfezione non è un privilegio di alcuni, ma un impegno di tutti i membri della Chiesa. E impegno per la perfezione cristiana significa cammino perseverante verso la santità. Come dice il Concilio, “il Signore Gesù, Maestro e Modello divino di ogni perfezione, a tutti e ai singoli suoi discepoli di qualsiasi condizione ha predicato la santità della vita, di cui Egli stesso è autore e perfezionatore: “Siate dunque perfetti come è perfetto il vostro Padre celeste” (Mt 5, 48)” (LG 40). E perciò: “Tutti i fedeli di qualsiasi stato o grado sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità” (Ivi). Proprio grazie alla santificazione di ciascuno viene introdotta una nuova perfezione umana nella società terrena: come diceva la Serva di Dio Elisabetta Leseur, “ogni anima che si eleva, eleva con sé il mondo”. Il Concilio insegna che “da questa santità è promosso, anche nella società terrena, un tenore di vita più umano” (Ivi).
A questo punto occorre notare che la ricchezza infinita della grazia di Cristo, partecipata agli uomini, si traduce in una quantità e varietà di doni, con i quali ciascuno può servire e beneficare gli altri nell’unico corpo della Chiesa. Era la raccomandazione di San Pietro ai cristiani disseminati nell’Asia Minore, quando, esortandoli alla santità, scriveva: “Ciascuno viva secondo la grazia ricevuta, mettendola a servizio degli altri, come buoni amministratori di una multiforme grazia di Dio” (1 Pt 4, 10).
 
Prima Lettura: La prima lettura della solennità odierna ci aiuta a capire chi sono i santi. Essi sono coloro che hanno lavato le loro vesti nel sangue dell’Agnello. La santità è un dono, si riceve da Cristo, non è frutto dell’ingegno umano. Nell’Antico Testamento essere santi voleva dire essere separati da tutto ciò che è impuro, nella riflessione cristiana vuol dire il contrario e cioè essere uniti a Dio.
 
Seconda Lettura: Pochi versetti, ma colmi di grandi verità. Innanzi tutto, il mondo non conosce i cristiani perché non conosce Gesù Cristo. Come dire che il mondo odia, perseguita i credenti in Cristo perché odia Cristo. Ma questo non deve abbattere i cristiani, essi sono figli di Dio e quindi già al presente vivono nella certezza di essere amati da Dio come figli carissimi. Quando si compirà ogni cosa e Gesù verrà nella gloria, allora si manifesterà in pienezza il vero essere dei credenti e potranno così vedere Dio faccia a faccia. Nell’oggi dei cristiani c’è posto solo per il desiderio della patria celeste.
 
Vangelo
Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli.
 
Vangelo: I santi hanno amato e vissuto intensamente le beatitudini. Ma una beatitudine in particolare ha ispirato e sostenuto la loro vita: Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia perché saranno saziati. I santi sono coloro che hanno avuto fame e sete di giustizia, cioè, nel linguaggio biblico, di santità. Non si sono rassegnati alla mediocrità, non si sono accontentati delle mezze misure. Hanno messo le ali e sono volati in alto, sempre più in alto, fino a raggiungere il Cielo.
 
Dal Vangelo secondo Matteo
Mt 5,1-12a
In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo:
«Beati i poveri in spirito,
perché di essi è il regno dei cieli.
Beati quelli che sono nel pianto,
perché saranno consolati.
Beati i miti,
perché avranno in eredità la terra.
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia,
perché saranno saziati.
Beati i misericordiosi,
perché troveranno misericordia.
Beati i puri di cuore,
perché vedranno Dio.
Beati gli operatori di pace,
perché saranno chiamati figli di Dio.
Beati i perseguitati per la giustizia,
perché di essi è il regno dei cieli.
Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi percausa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli».
 
Parola del Signore.
 
Beati - L’evangelista Matteo ha nove beatitudini a differenza di Luca che ne ha quattro e alle quali fa seguire “quattro guai” (Cf. Lc 6,20-26).
Gesù salì sul monte: si pose a sedere. Due note da non trascurare. Il monte per i semiti è il luogo che Dio preferenzialmente sceglie per manifestarsi ai suoi eletti: ai lettori ebrei per assonanza sarà venuto in mente il monte Sinai. Su quella montagna Dio si era rivelato a Mosè e aveva dato al popolo d’Israele la Legge (Cf. Es 19). Il sedersi è invece la postura propria del Maestro ai cui piedi si congregano i discepoli. Le intenzioni dell’evangelista Matteo quindi sono chiare: Gesù è Dio che si manifesta ai suoi discepoli sul monte ed è il Maestro che dona al “nuovo Israele” la nuova Legge, la “Magna Charta” del Regno di Dio.
L’evangelista Matteo, «che presenta Gesù come il Maestro definitivo di Israele, lo colloca in questo stesso contesto del luogo della rivelazione di Dio e della sua Legge e gli attribuisce un’autorità superiore a quella di Mosé e di tutti i maestri [gli scribi] di Israele. È nel contesto del “discorso della montagna”, infatti, che Gesù è definito come “uomo che insegna con autorità e non come i loro scribi” [Mt 7,29]» (Don Primo Gironi).
Queste note comunque non cancellano la storicità dell’episodio evangelico realmente accaduto su «una delle colline vicino a Cafarnao» (Bibbia di Gerusalemme).
Beati è una formula ricorrente nei Salmi, nei libri sapienziali e nel Nuovo Testamento, soprattutto nel libro dell’Apocalisse. Beato è l’uomo che cammina nella legge del Signore e per questo è ricolmo delle benedizioni di Dio, dei suoi favori e delle sue consolazioni divine soprattutto nei momenti cruciali in cui deve sopportare umiliazioni, affanni e persecuzioni. Gesù apre il suo discorso proclamando beati i “poveri in spirito”, una aggiunta questa che fa bene intendere che il Maestro fa riferimento non agli indigenti, ma ai “poveri di Iahvé”, cioè a coloro che nonostante tutto restano fedeli al Signore, anzi le prove sono spinte a fidarsi di Dio, a chiudersi nel suo cuore, a rinserrarsi tra le sue braccia. I “poveri in spirito” sono coloro che fanno del dolore una scala per salire fino a Dio. Sono coloro che restano nonostante tutto saldi nelle promesse di Dio (Cf. Mt 27,39-44). In questa ottica sono beati quelli che sono nel pianto, i perseguitati per la giustizia, i diffamati. Ai miti fanno corona coloro che hanno fame e sete della giustizia, cioè coloro che amano vivere all’ombra della volontà di Dio, attuandola nella loro vita e mettendola sempre al primo posto. Beati sono i misericordiosi cioè coloro che imitano la bontà, la pietà e la misericordia di Dio soprattutto a favore dei più infelici e dei più bisognosi. I puri di cuore sono beati per la purezza delle intenzioni, l’onestà della vita, perché sempre disponibili ai progetti divini. E infine, gli operatori di pace, che «nella Bibbia esprime la comunione con Dio e con gli uomini ed è il dono che riassume il vangelo [Cf. Lc 2,14], sono i più evidenti figli del Padre celeste» (S. Garofalo).
Il “discorso della Montagna” si chiude con due beatitudini rivolte ai perseguitati. Israele in tutta la sua storia aveva dovuto fare i conti con numerosi persecutori e se, quasi sempre, aveva accettato l’umiliazione delle catene, della tortura fisica e  dell’esilio, come purificazione e liberazione dal peccato, mai avrebbe pensato alla persecuzione come a una fonte di gioia e di felicità. Il discorso di Gesù va poi collocato proprio in un momento doloroso della storia ebraica: Israele gemeva sotto il durissimo e spietato giogo di Roma.
Nel nuovo Regno bandito da Gesù di Nazaret invece la persecuzione, e anche la calunnia, l’ingiustizia o l’odio gratuito, sono sorgenti di felicità se sopportate per «causa sua». Ancora di più, la sofferenza vicaria dà «compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa» (Col 1,24). Solo in questa prospettiva la persecuzione è la via grande, spaziosa e larga, spalancata al dono della salvezza e apportatrice di ogni bene e dono: «Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli». Un discorso che è rivolto a tutti: ai discepoli e alla folla, nessuno escluso.
 
Vocazione universale alla santità - Lumen gentium 40: Il Signore Gesù, maestro e modello divino di ogni perfezione, a tutti e a ciascuno dei suoi discepoli di qualsiasi condizione ha predicato quella santità di vita, di cui egli stesso è autore e perfezionatore: «Siate dunque perfetti come è perfetto il vostro Padre celeste» (Mt 5,48). Mandò infatti a tutti lo Spirito Santo, che li muova internamente ad amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente, con tutte le forze (cfr Mc 12,30), e ad amarsi a vicenda come Cristo ha amato loro (cfr. Gv 13,34; 15,12). I seguaci di Cristo, chiamati da Dio, non a titolo delle loro opere, ma a titolo del suo disegno e della grazia, giustificati in Gesù nostro Signore, nel battesimo della fede sono stati fatti veramente figli di Dio e compartecipi della natura divina, e perciò realmente santi. Essi quindi devono, con l’aiuto di Dio, mantenere e perfezionare con la loro vita la santità che hanno ricevuto. Li ammonisce l’Apostolo che vivano « come si conviene a santi » (Ef 5,3), si rivestano «come si conviene a eletti di Dio, santi e prediletti, di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di dolcezza e di pazienza » (Col 3,12) e portino i frutti dello Spirito per la loro santificazione (cfr. Gal 5,22; Rm 6,22). E poiché tutti commettiamo molti sbagli (cfr. Gc 3,2), abbiamo continuamente bisogno della misericordia di Dio e dobbiamo ogni giorno pregare: « Rimetti a noi i nostri debiti » (Mt 6,12).
È dunque evidente per tutti, che tutti coloro che credono nel Cristo di qualsiasi stato o rango, sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità e che tale santità promuove nella stessa società terrena un tenore di vita più umano. Per raggiungere questa perfezione i fedeli usino le forze ricevute secondo la misura con cui Cristo volle donarle, affinché, seguendo l’esempio di lui e diventati conformi alla sua immagine, in tutto obbedienti alla volontà del Padre, con piena generosità si consacrino alla gloria di Dio e al servizio del prossimo. Così la santità del popolo di Dio crescerà in frutti abbondanti, come è splendidamente dimostrato nella storia della Chiesa dalla vita di tanti santi.
 
Il peso dell’umanità e la grazia di Dio - Cassiano Giovanni, Collationes, 18, 10: I santi si sentono ogni giorno decadere, sotto il peso di terreni pensieri, dalle altezze della contemplazione; contro la loro volontà, anzi senza saperlo, sono assoggettati alla legge del peccato e della morte, e sono distratti dalla presenza di Dio da opere terrene, per quanto buone e giuste. Hanno dunque delle buone ragioni per gemere continuamente presso il Signore, hanno ben motivo per cui veramente umiliati e compunti non solo a parole, ma di cuore, si dichiarino peccatori, chiedano sempre perdono per tutte le debolezze in cui, battuti dalla debolezza della carne, incorrono ogni giorno, e versano vere lagrime di penitenza, poiché vedono che fino alla fine della loro vita essi saranno tormentati dalle pene che li affliggono e che neanche possono offrire le loro suppliche senza il fastidio delle immaginazioni. Resisi conto, quindi, ch’essi non riescono, per il peso della carne, a raggiungere con le forze umane la meta desiderata e che non riescono a congiungersi, come desiderano, al sommo bene, ma che invece sono travolti, come prigionieri, verso le cose mondane, ricorrono alla grazia di Dio il quale fa giusti i malvagi (Rm 4,5) e gridano con l’Apostolo: Oh, me infelice! chi mi libererà da questo corpo di morte? La grazia di Dio per mezzo del signor nostro Gesù Cristo (Rm 7,24-25). Sentono che non possono portare a termine il bene che vogliono e che invece ricadono sempre nel male che non vogliono e odiano, cioè le immaginazioni e preoccupazioni delle cose terrene.
 
Il Santo del Giorno - 1 Novembre 2023 - Tutti i Santi: La speranza oltre la cultura della paura Auguri a tutti i “cercatori di cielo”: Davanti alla cultura di morte e alla logica della paura oggi fin troppo diffusa e spesso alimentate ad arte per favorire interessi particolari contrari al bene comune, i volti luminosi dei santi ci offrono una visione di speranza e di gioia che rappresenta una vera e propria rivoluzione. È questo il valore “politico” della solennità odierna, che ci aiuta ad alzare lo sguardo sull’autentico orizzonte ultimo della nostra esistenza. Quello offerto dai santi, infatti, è un caleidoscopio di storie e voci, un catalogo infinito di avventure umane e spirituali, che testimonia tutta la meraviglia della vita cristiana, in ogni sua sfaccettatura, con tutta la sua carica profetica. Insomma, la celebrazione del 1° novembre ci mostra una Chiesa capace di portare il Cielo in mezzo agli uomini. I santi e i beati sono coloro che hanno dato forma nella storia al Vangelo, aprendo, con il loro esempio, la strada verso il cuore di Dio nel segno del messaggio del Risorto. Fare memoria di tutti i santi come comunità significa allora non solo ricordare l’universale chiamata alla “perfezione”, ma anche riscoprire l’infinito nei piccoli gesti, nelle nostre storie ordinarie personali. Perché la “fantasia dello Spirito” si manifesta nei modi più inaspettati e chiede solo di essere pronti per accoglierla, vivendo ogni momento come il frammento di un cammino che porta al cuore della vita. Quindi auguri a tutti noi “cercatori di cielo”. Letture. Romano. Ap 7,2-4.9-14; Sal 23; 1Gv 3,1-3; Mt 5,1-12. Ambrosiano. Ap 7,2-4.9-14; Sal 88 (89); Rm 8,28-39; Mt 5,1-12a. Bizantino. 1Cor 12,27-13,8; Mt 10,1;5-8.  (Matteo Liut)
 
O Dio, unica fonte di ogni santità,
mirabile in tutti i tuoi Santi,
fa’ che raggiungiamo anche noi la pienezza del tuo amore,
per passare da questa mensa,
che ci sostiene nel pellegrinaggio terreno,
al festoso banchetto del cielo.
Per Cristo nostro Signore.
 
 31 OTTOBRE 2020
 
MARTEDÌ DELLA XXX SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO
 
Rm 8,18-25; Sal 125 (126); Lc 13,18-21
 
Colletta
Dio onnipotente ed eterno,
accresci in noi la fede, la speranza e la carità,
e perché possiamo ottenere ciò che prometti,
fa’ che amiamo ciò che comandi.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.  
 
Apostolicam actuositatem 2: Questo è il fine della Chiesa: con la diffusione del regno di Cristo su tutta la terra a gloria di Dio Padre, rendere partecipi tutti gli uomini della salvezza operata dalla redenzione, e per mezzo di essi ordinare effettivamente il mondo intero a Cristo. Tutta l’attività del corpo mistico ordinata a questo fine si chiama «apostolato»; la Chiesa lo esercita mediante tutti i suoi membri, naturalmente in modi diversi; la vocazione cristiana infatti è per sua natura anche vocazione all’apostolato. Come nella compagine di un corpo vivente non vi è membro alcuno che si comporti in maniera del tutto passiva, ma unitamente alla vita partecipa anche alla sua attività, così nel corpo di Cristo, che è la Chiesa «tutto il corpo... secondo l’energia propria ad ogni singolo membro... contribuisce alla crescita del corpo stesso» (Ef 4,16). Anzi in questo corpo è tanta l’armonia e la compattezza delle membra (cfr. Ef 4,16), che un membro il quale non operasse per la crescita del corpo secondo la propria energia dovrebbe dirsi inutile per la Chiesa e per se stesso.
C’è nella Chiesa diversità di ministero ma unità di missione. Gli apostoli e i loro successori hanno avuto da Cristo l’ufficio di insegnare, reggere e santificare in suo nome e con la sua autorità. Ma anche i laici, essendo partecipi dell’ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo, all’interno della missione di tutto il popolo di Dio hanno il proprio compito nella Chiesa e nel mondo. In realtà essi esercitano l’apostolato evangelizzando e santificando gli uomini, e animando e perfezionando con lo spirito evangelico l’ordine temporale, in modo che la loro attività in quest’ordine costituisca una chiara testimonianza a Cristo e serva alla salvezza degli uomini. Siccome è proprio dello stato dei laici che essi vivano nel mondo e in mezzo agli affari profani, sono chiamati da Dio affinché, ripieni di spirito cristiano, esercitino il loro apostolato nel mondo, a modo di fermento.

I Lettura: Il mondo materiale, creato per l’uomo, partecipa al destino di quest’ultimo. Maledetto a causa del peccato di Adamo e di Eva (cfr. Gen 3,17) viene a trovarsi in una situazione di caducità e di finitezza. Ma come il corpo dell’uomo è destinato alla risurrezione e alla gloria, così anche il mondo sarà oggetto di redenzione e parteciperà alla libertà e alla gloria dei figli di Dio. La filosofia greca «voleva liberare lo spirito dalla materia considerata come cattiva; il cristianesimo libera la stessa materia» (Bibbia di Gerusalemme). 
Israele, i profeti, i giusti avevano atteso con trepidazione il Regno di Dio: era il sogno di tutti, il sogno di ogni uomo, ma le legioni romane avevano travolto tutto, avevano piegato con la violenza ogni resistenza e la pace era stata imposta con le armi. Quando tutto sembrava perduto, nella pienezza del tempo (Gal 4,4), Gesù, il missionario del Padre, viene ad annunciare la buona novella, cioè l’avvento del regno di Dio da secoli promesso nella Scrittura: Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino (Mc 1,15), è vicino, non possiede gli alamari della potenza romana, è un piccolo seme. Un piccolo seme che può crescere e diventare gigantesco, sconvolgente, immenso e straordinario. Per entrare nel regno e per farlo crescere fino ai confini della terra (At 1,8) bisogna farsi piccoli, occorre farsi seme, lievito, ma il seme deve cadere a terra e morire (Gv 12,24), e il lievito deve impastarsi con la farina. È in questo annichilimento che sta nascosto il tutto, lo straordinario, l’inaspettato, l’assoluto! Il seme diventa albero perché la nostra piccolezza, la nostra limitatezza, il nostro “niente” viene innaffiato dalla potenza di Dio (2Cor 12,9). Ora nel nascondimento, in attesa che giunga alla perfezione, il regno di Dio vive di speranza, e nella luce del Risorto si fa segno di realtà lontane, ma già vicine: è vicino il grande giorno del Signore, è vicino e avanza a grandi passi (Sof 1,14).
 
Dal Vangelo secondo Luca
Lc13,18-21
 
In quel tempo, diceva Gesù: «A che cosa è simile il regno di Dio, e a che cosa lo posso paragonare? È simile a un granello di senape, che un uomo prese e gettò nel suo giardino; crebbe, divenne un albero e gli uccelli del cielo vennero a fare il nido fra i suoi rami». E disse ancora: «A che cosa posso paragonare il regno di Dio? È simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata».
 
Parola del Signore.

Il regno di Dio è simile a un granello di senape - Javer Pikaza (Vangelo secondo Luca): Il nostro testo ha raccolto due parabole del regno. Diciamo di passaggio che questo tipo di parabole riceve maggior attenzione in Matteo, che consacra a questo tema quasi tutto il capitolo 13. t logico che sia avvenuto così, dal momento che Matteo, come rappresentante d’una comunità giudeo-cristiana, è più interessato a tutta la tematica del regno che irrompe e si realizza fra gli uomini. Partendo da una preoccupazione più ellenistica per il mistero dell’amore di Dio che si inserisce nella nostra storia attraverso Gesù Cristo, Luca ha raccolto di preferenza quelle parabole che illuminano il comportamento e la sorte dell’uomo nel mondo: il buon samaritano (12,25-37), il ricco stolto (12,16-21), il figlio prodigo (15,11-32), l’amministratore disonesto (16,1-13), il ricco Epulone e Lazzaro, il mendico (16,19-31). Questo però non gli ha impedito di trasmetterci, anche se in forma poco originale, le due parabole del regno delle quali ci occupiamo ora.
Con parola desunta dall’antica tradizione di Gesù, si afferma che il regno è simile a un granello di senape (13,18) o a un pugno di lievito (13,21). In realtà, sullo sfondo giudaico di quel tempo, il termine di paragone non è la senape o il lievito, bensì il loro comportamento. Il granello di senape, proverbialmente piccolo e insignificante, diviene un arbusto frondoso. Il lievito che pare essersi perso nella farina, la fa fermentare e la trasforma totalmente dal di dentro.
La situazione in cui si inseriscono le parabole è chiara. Gesù parla del regno, agisce con la convinzione che il regno sta arrivando e, tuttavia, tutto ci permette di supporre che non sia cambiato nulla. Gli uomini si arrovellano in tutti i loro vecchi problemi; continuano fra loro le lotte, le divisioni, i dolori e la morte. La parola di Gesù, in realtà, non cambia nulla. Che importanza può avere una piccola speranza, la consolazione di pochi individui o un paio di miracoli sperduti in un mondo carico d’angosce, d’impurità, di sofferenza e di morte? Ebbene, a questi interrogativi rispondono le parabole.
A coloro che dicono che nulla è cambiato Gesù risponde che il piccolo seme è stato già gettato nel solco della terra. A coloro che dicono che la pasta è quella di sempre risponde che il lievito sta già facendola fermentare e la sta rinnovando tutta dal di dentro. Questa affermazione è, da un lato, una fonte di consolazione: sebbene sembri che dominino le forze del male, la vittoria decisiva è già stata iniziata; ha cominciato a realizzarsi il mondo nuovo e nulla potrà soffocarlo o sopprimerlo. Per i nemici che lo attaccano accennando all’importanza insignificante della sua opera, la parola di Gesù contiene una velata minaccia: anche se non la volete accettare, la verità del regno sta operando e trasforma tutto in modo tale, che dovrete vedere (o subire) la sua gloria.
Per comprendere queste parabole, è necessario che teniamo conto di due elementi importanti: a) la crescita del seme non è vista come un fenomeno naturale, sottomesso a leggi biologiche precise. Importa fondamentalmente il simbolo d’un granello che, pur essendo piccolo, si trasforma e fruttifica per la forza di Dio che agisce nel mondo. Orbene, una forza simile, ma infinitamente più potente, è quella che
Per comprendere queste parabole, è necessario che teniamo conto di due elementi importanti: a) la crescita del seme non è vista come un fenomeno naturale, sottomesso a leggi biologiche precise. Importa fondamentalmente il simbolo d’un granello che, pur essendo piccolo, si trasforma e fruttifica per la forza di Dio che agisce nel mondo. Orbene, una forza simile, ma infinitamente più potente, è quella che agisce nel messaggio del regno di Gesù; b) in secondo luogo dobbiamo considerare che, nella nostra situazione di credenti, il seme del regno gettato nel solco della terra è Gesù stesso, il Cristo, nel suo destino di morte e risurrezione. Gesù è il vero lievito che fa fermentare dal di dentro la massa della storia degli uomini. Il finale è velato: il trionfo è ancora nascosto, ma nel fondo di tutto agisce ormai il seme (o il lievito) che trasforma l’esistenza degli uomini e la realtà del cosmo.
 
A che cosa è simile il regno di Dio: Giovanni Paolo II (Udienza Generale, 4 Novembre 1987): L’instaurazione del regno di Dio nella storia dell’umanità è lo scopo della vocazione e della missione degli apostoli - e quindi della Chiesa - in tutto il mondo (cfr. Mc 16,15; Mt28,19-20). Gesù sapeva che questa missione, al pari della sua missione messianica, avrebbe incontrato e suscitato forti opposizioni. Fin dai giorni dell’invio nei primi esperimenti di collaborazione con lui, egli avvertiva gli apostoli: “Ecco: io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe” (Mt 10,16). Nel testo di Matteo è condensato anche ciò che Gesù avrebbe detto in seguito sulla sorte dei suoi missionari (cfr. Mt 10,17-25); tema sul quale egli ritorna in uno degli ultimi discorsi polemici con “scribi e farisei”, ribadendo: “Ecco io vi mando profeti, sapienti e scribi; di questi alcuni ne ucciderete e crocifiggerete, altri ne flagellerete nelle vostre sinagoghe e li perseguiterete di città in città...” (Mt 23,24). Sorte che del resto era già toccata ai profeti e ad altri personaggi dell’antica alleanza, ai quali accenna il testo (cfr. Mt 23,35). Ma Gesù dava ai suoi seguaci la sicurezza della durata dell’opera sua e loro: “et portae inferi non praevalebunt...”. Malgrado le opposizioni e contraddizioni che avrebbe conosciuto nel suo svolgersi storico, il regno di Dio, instaurato una volta per sempre nel mondo con la potenza di Dio stesso mediante il Vangelo e il mistero pasquale del Figlio, avrebbe sempre portato non solo i segni della sua passione e morte, ma anche il suggello della potenza divina, sfolgorata nella risurrezione. Lo avrebbe dimostrato la storia. Ma la certezza degli apostoli e di tutti i credenti è fondata sulla rivelazione del potere divino di Cristo, storico, escatologico ed eterno, sul quale il Concilio Vaticano II insegna: “Cristo, fattosi obbediente fino alla morte e perciò esaltato dal Padre (cfr. Fil 2,8-9), entrò nella gloria del suo regno; a lui sono sottomesse tutte le cose, fino a che egli sottometta al Padre se stesso e tutte le creature affinché Dio sia tutto in tutti (cfr. 1Cor 15,27-28)” (Lumen Gentium 36).
 
La concezione cristiana del Regno - Bruno Maggioni: Nella concezione cristiana il Regno è al tempo stesso presente e futuro. E già presente nella storia, ma - come dicono le parabole - è un seme posto sotto le zolle. Il presente è il tempo in cui il Regno matura nel segreto della terra.
Importante è ricordare che la pienezza futura non costituisce un regno diverso da quello che è apparso in Gesù. I tratti fondamentali della sua figura - la dedizione, la misericordia, l’universalità - non sono semplicemente i connotati della fase terrena del Regno, ma della sua natura permanente. “Venga il tuo Regno” non esprime il desiderio di una seconda venuta del Signore che capovolga lo stile della prima, sostituendo la dedizione e l’amore con la potenza e la gloria. “Venga il tuo Regno” è il desiderio della piena manifestazione di colui che è già venuto. Ma la medesima invocazione dice anche un’altra importante verità: è il Regno che viene, non l’uomo che lo costruisce, anche se - ovviamente - occorre l’accoglienza da parte dell’uomo. È Dio il protagonista del Regno, non l’uomo. Il Regno è di Dio (il tuo Regno), non cosa dell’uomo. All’uomo spetta accoglierlo, non progettarlo. Dio è il signore del mondo, non l’uomo né la Chiesa. E perciò la prima conseguenza è che l’attesa del Regno dovrà anzitutto esprimersi nel non fare del mondo la nostra proprietà. Le parabole evangeliche sul Regno mostrano che il vero protagonista è il seme, non il seminatore (Mc 4). E la parabola della zizzania nel campo di grano dice che il giudizio sull’appartenenza al Regno spetta a Dio, non agli uomini (Mt 13,24-30). Già la predicazione di Gesù, e successivamente la coscienza della comunità cristiana, hanno messo in luce che fra la Chiesa e il Regno ci sono profonde e strette correlazioni. Tuttavia le due realtà non sono sovrapponibili. La Chiesa non si identifica con il Regno, tanto che prega: “Venga il tuo Regno”. Neppure però semplicemente lo annuncia e lo propone. Ne è la storica anticipazione. Il Regno sovrasta la Chiesa almeno in due direzioni: perché abbraccia tutta l’azione di Dio presente nel mondo, non soltanto quella nella Chiesa e attraverso la Chiesa; e perché la sua pienezza è alla fine, quando Cristo sarà tutto in tutti. 
 
Il granellino di senape - La Bibbia di Navarra (I Quattro Vangeli): Il granellino di senapa e il lievito simboleggiano la Chiesa, che, inizialmente ristretta a un piccolo gruppo di discepoli, andò via via estendendosi per razione dello Spirito Santo, fino ad accogliere entro di essa tutti i popoli della terra. Già nel II secolo Tertulliano poteva affermare: «Siamo di ieri, ma abbiamo già riempito il mondo» (Apologeticum, 37). Il Signore “mediante la parabola del granellino di senapa induce alla fede i discepoli e mostra loro che la predicazione della buona novella si diffonderà su tutta la terra. In realtà i discepoli erano i più umili e deboli tra gli uomini, inferiori a tutti; ma, siccome in loro c’era una grande forza, la loro predicazione si è diffusa i n tutto il mondo” (Om. sul Vangelo di san Matteo, 46). Il cristiano non deve pertanto scoraggiarsi innanzi all’apparente piccolezza e gracilità delle sue opere d’apostolato. Con la grazia di Dio e la fedeltà esse cresceranno come il granellino di senapa, nonostante le difficoltà: «Nelle ore di lotta e di contrarietà, quando forse gli uomini riempiono di ostacoli il tuo cammino, innalza il tuo cuore d’apostolo: ascolta Gesù che parla del granello di senapa e del lievito. - E digli: Edissere nobis parabolam - spiegami la parabola. «E sentirai la gioia di contemplare la vittoria futura: gli uccelli del cielo al riparo del tuo apostolato, oggi incipiente: e lievitata tutta la rnassa» (Cammino, n. 695).
 
Simile a un granellino di senapa, che un uomo ha preso e gettato nell’orto: «Secondo voi, a proposito di quanto dice il Vangelo: “Un uomo l’ha preso e gettato nell’orto”,chi è quest’uomo che ha seminato il seme ricevuto, come un grano di senape nel suo piccolo orto? Io penso che è colui di cui il Vangelo dice: “C’era un uomo di nome Giuseppe, membro del sinedrio, che era di Arimatea... Si presentò a Pilato e chiese il corpo di Gesù. Lo calò dalla croce, lo avvolse in un lenzuolo e lo depose in una tomba scavata nella roccia, nella quale nessuno era stato ancora deposto” [Lc 23,50-53]. È il motivo per cui la Scrittura dice: “Un uomo l’ha preso e gettato nell’orto”. Nell’orto di Giuseppe c’era il profumo di vari fiori, ma un granello simile non c’era mai stato deposto. L’orto spirituale della sua anima era pieno del profumo delle sue virtù, ma Cristo imbalsamato non c’era ancora. Dando sepoltura al Salvatore nella tomba del suo orto, egli l’ha accolto più profondamente nel suo cuore» (San Massimo di Torino, Discorso 26).

Il Santo del giorno - 31 Ottobre 2023 - Sant’Alfonso Rodriguez, Religioso: Alfonso era un mercante, nato a Segovia, in Spagna, nel 1533. Si era sposato e aveva avuto due figli ma fu sconvolto dalla perdita della moglie e dei beni. A 35 anni tornò a scuola, proseguendo faticosamente gli studi interrotti in gioventù. Si presentò, quasi vecchio, come novizio in un convento della Compagnia di Gesù. Venne accolto, ma volle restare fratello coadiutore, addetto al servizio materiale della comunità. Divenne così portinaio nel convento dell’isola di Maiorca, da dove passavano i missionari diretti in America. Per tutti l’incontro con il santo portinaio era un’esperienza illuminante e a volte decisiva, come nel caso di san Pietro Claver, l’«apostolo degli schiavi». I suoi scritti furono raccolti dopo la morte, avvenuta il 31 ottobre del 1617. (Avvenire)
 
Si compia in noi, o Signore,
la realtà significata dai tuoi sacramenti,
perché otteniamo in pienezza
ciò che ora celebriamo nel mistero.
Per Cristo nostro Signore.
 
 
 

 
30 OTTOBRE 2023
 
LUNEDÌ DELLA XXX SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO DISPARI)
 
Rm 8,12-17; Salmo responsoriale Dal Salmo Responsoriale 67 (68); Lc 13,10-17
 
Colletta
Dio onnipotente ed eterno,
accresci in noi la fede, la speranza e la carità,
e perché possiamo ottenere ciò che prometti,
fa’ che amiamo ciò che comandi.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Laudato sì 237: La domenica, la partecipazione all’Eucaristia ha un’importanza particolare. Questo giorno, così come il sabato ebraico, si offre quale giorno del risanamento delle relazioni dell’essere umano con Dio, con sé stessi, con gli altri e con il mondo. La domenica è il giorno della Risurrezione, il “primo giorno” della nuova creazione, la cui primizia è l’umanità risorta del Signore, garanzia della trasfigurazione finale di tutta la realtà creata. Inoltre, questo giorno annuncia «il riposo eterno dell’uomo in Dio». In tal modo, la spiritualità cristiana integra il valore del riposo e della festa. L’essere umano tende a ridurre il riposo contemplativo all’ambito dello sterile e dell’inutile, dimenticando che così si toglie all’opera che si compie la cosa più importante: il suo significato. Siamo chiamati a includere nel nostro operare una dimensione ricettiva e gratuita, che è diversa da una semplice inattività. Si tratta di un’altra maniera di agire che fa parte della nostra essenza. In questo modo l’azione umana è preservata non solo da un vuoto attivismo, ma anche dalla sfrenata voracità e dall’isolamento della coscienza che porta a inseguire l’esclusivo beneficio personale. La legge del riposo settimanale imponeva di astenersi dal lavoro nel settimo giorno, «perché possano godere quiete il tuo bue e il tuo asino e possano respirare i figli della tua schiava e il forestiero» (Es 23,12). Il riposo è un ampliamento dello sguardo che permette di tornare a riconoscere i diritti degli altri. Così, il giorno di riposo, il cui centro è l’Eucaristia, diffonde la sua luce sull’intera settimana e ci incoraggia a fare nostra la cura della natura e dei poveri.
 
Prima Lettura: «La vita del cristiano è partecipazione alla vita di Cristo, Figlio di Dio per natura. Poiché anche noi siamo veri figli di Dio, sebbene per adozione, abbiamo diritto a prendere parte alla sua eredità: la vita gloriosa in cielo. Questa vita divina in noi, iniziata col battesimo per mezzo della rigenerazione nello Spirito Santo, si sviluppa e cresce sotto la guida dello Spirito Santo, che ci rende sempre più conformi all’immagine di Cristo. La nostra filiazione adottiva è fin da ora una realtà - già possediamo le primizie dello Spirito -, ma solo alla fine dei tempi, con la risurrezione gloriosa del corpo, la nostra redenzione attingerà la sua pienezza» (Bibbia di Navarra, Lettera ai Romani, nota 8,14-30).
 
Vangelo
Questa figlia di Abramo non doveva essere liberata da questo legame nel giorno di sabato?
 
Il capo della sinagoga è sdegnato perché Gesù ha guarito una donna in giorno di sabato. Gesù reagisce alla contestazione ricordando al suo interlocutore sdegnato la pratica corrente di abbeverare il bue o l’asino anche in giorno di sabato. È un argomento a fortiori: se in giorno di sabato si possono portare all’abbeveratoio l’asino e il bue perché non periscano di sete, un gesto per la vita per gli animali che non infrange la Legge, a maggiore ragione anche in giorno di sabato si può restituire la vita a una persona inferma. Un ragionamento sano ed equilibrato che fa precipitare i soliti contestatori nella vergogna: ancora una volta la loro ipocrisia è stata messa a nudo dinanzi alla folla che comprende il sapiente insegnamento e applaude per tutte le meraviglie operate da Gesù.
 
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 13,10-17
 
In quel tempo, Gesù stava insegnando in una sinagoga in giorno di sabato. C’era là una donna che uno spirito teneva inferma da diciotto anni; era curva e non riusciva in alcun modo a stare diritta.
Gesù la vide, la chiamò a sé e le disse: «Donna, sei liberata dalla tua malattia». Impose le mani su di lei e subito quella si raddrizzò e glorificava Dio.
Ma il capo della sinagoga, sdegnato perché Gesù aveva operato quella guarigione di sabato, prese la parola e disse alla folla: «Ci sono sei giorni in cui si deve lavorare; in quelli dunque venite a farvi guarire e non in giorno di sabato».
Il Signore gli replicò: «Ipocriti, non è forse vero che, di sabato, ciascuno di voi slega il suo bue o l’asino dalla mangiatoia, per condurlo ad abbeverarsi? E questa figlia di Abramo, che Satana ha tenuto prigioniera per ben diciotto anni, non doveva essere liberata da questo legame nel giorno di sabato?».
Quando egli diceva queste cose, tutti i suoi avversari si vergognavano, mentre la folla intera esultava per tutte le meraviglie da lui compiute.
 
Parola del Signore.
 
Carlo Ghidelli (Luca): 11 Vi era una donna: in questa piccola unità (vv. 10-17) Lc si rivela ottimo creatore di soggetti: la donna, il capo della sinagoga, gli avversari scornati e la folla che gioisce. È un vero trionfo di Gesù, ma è soprattutto la vittoria del regno di Dio sui suoi avversari e su Satana; che teneva inferma quella donna (cfr anche 7,36.30).
14 Ma il capo della sinagoga, indignato: ecco insinuarsi il fulcro dell’episodio, donde nasce la polemica su come interpretare il comandamento di Dio circa il sabato. A quali criteri devono ispirarsi le scelte, gli impegni, i gesti del giorno del Signore? Gesù risponde chiaramente: occorre badare allo spirito della legge e non lasciarsi irretire dalla lettera della legge stessa. Le minime prescrizioni della legge di Mosè, se non sono passate al vaglio di uno spirito nuovo, lo spirito evangelico, rischiano di nascondere intenzioni meschine e banali ipocrisie.
15 Ipocriti! Ognuno di voi ... : si tratta ancora di ipocrisia (cfr 6,42 e 12,56 con relativi commenti): massima intransigenza nell’applicare la legge agli altri, grande larghezza nel trovare eccezioni alla legge per se stessi.
Questa è autentica ipocrisia e Gesù non può tacere!
16 E costei ... non doveva essere sciolta ... ?: come al v. 14 il capo della sinagoga dice sono sei i giorni in cui si deve lavorare; con quel si deve (dei nel T.G.) si rifà alla legge del Sinai (Es 20,9), cosi ora Gesù afferma non si doveva? (ouk édei) e cosi si rifà, superando le angustie di una legge particolare, alle dimensioni della creazione. Egli, così, ci invita a domandarci non tanto chi è padrone del sabato, o chi può rivendicare autorità sul sabato, o ancora che cosa si può fare, a rigor di legge, in giorno di sabato, quanto invece a chiederci qual è il profondo significato del sabato (anche del sabato giudaico, che era simbolo profetico della destinazione del creato verso un rinnovamento finale e verso un riposo eterno: cfr Eb 4,4-10), qual è il vero modo per santificarlo, o meglio per santificare in esso il nome di Dio, quali sono le maniere per trasformarlo, come lui vuole, in giorno di salvezza.
17 tutti i suoi avversari ... Tutta la folla: questo atteggiamento di Gesù divide la folla: alcuni rimangono confusi, altri profondamente gioiosi. Si delinea ormai, a chiare tinte, il dramma di Gesù, odiato ed amato ad un temo.
 
La cura dei malati - Catechismo degli Adulti 712-713: Profonda è l’unità di spirito e corpo: il disordine del peccato danneggia indirettamente il fisico; viceversa la malattia dell’organismo colpisce anche lo spirito, in quanto causa sofferenza, senso di impotenza, pericolo di morte, solitudine e angoscia. Il malato ha particolarmente bisogno di sincera solidarietà, che lo aiuti a superare la tentazione di abbattersi, di chiudersi nei confronti degli altri, di ribellarsi a Dio. In ogni epoca, «animata da quella carità con cui ci ha amato Dio, ... la Chiesa attraverso i suoi figli si unisce agli uomini di qualsiasi condizione, ma soprattutto ai poveri e ai sofferenti, e si prodiga volentieri per loro». È una storia bellissima, malgrado gli inevitabili limiti umani: strutture ospedaliere, ordini religiosi, associazioni caritative, pastorale degli infermi, dedizione eroica di santi, tra i quali ricordiamo san Camillo de’ Lellis, san Giovanni di Dio, san Vincenzo de’ Paoli, san Giuseppe Cottolengo, il medico san Giuseppe Moscati. Oggi urge qualificare in senso cristiano gli operatori sanitari e promuovere il volontariato, per sottrarre i malati e gli anziani all’isolamento, in cui troppo spesso vengono a trovarsi.
 
Sabato - Karl Pauritsch: Antiche tradizioni testuali fanno ritenere che in Israele già in tempi antichissimi dopo sei giorni lavorativi si osservasse il settimo, il sabato, come giorno di riposo (jahwistico è Es 34,21; cf. nel codice dell’alleanza Es 23,12ss). Da dove provenga non è ancora chiaro. Manca ogni parallelismo coevo. La Bibbia lo fa risalire a Mosè (cfr. decalogo) e lo giustifica teologicamente o nel senso della settimana della creazione (Es 20,8ss: il settimo giorno, compiuta la creazione, Dio riposò), o richiamandosi alla permanenza in Egitto (Dt 5,12). In origine il sabato presenta soltanto un aspetto sociale, non teologico. Uomo (schiavo) e animale devono riposare. Dovevano essere lasciati reciprocamente liberi.
In questo giorno anche il più umile doveva essere garantito nei confronti del suo prossimo. Soltanto un po’ alla volta il sabato si trasformò in festività caratterizzata dal sacrificio. Con l’esilio si compì definitivamente un cambiamento di significato e divenne il “giorno santificato a Dio”. Secondo Ezechiele e il documento sacerdotale, il sabato, come la circoncisione, divenne segno della professione di fede e dell’alleanza con Dio, segno caratteristico dell’appartenenza a JHWH. Soprattutto nel tempo tardogiudaico si introdussero molte prescrizioni (cammino di un sabato, divieto di accendere il fuoco e altro) per evitare una “profanazione” del sabato (Es 31,S). Gesù si contrappose a un’interpretazione gretta del sabato: il comandamento dell’amore ha la precedenza (Mc 2,27; 3,4; Lc 13,15s ecc.). Per la chiesa primitiva la domenica divenne ben presto riconosciuta come giorno del Signore (1Cor 16,2).
 
Tutti i suoi avversari si vergognavano: «La vergogna si è abbattuta quindi su coloro che hanno manifestato queste disoneste intenzioni, che si sono imbattuti nella principale pietra d’angolo e che sono stati spezzati.
Mentre egli era occupato a raddrizzare i suoi vasi incurvati, essi hanno urtato contro il santo Vasaio e si opposti al Medico» (Cirillo di Alessandria).
 
Il Santo del giorno - 30 Ottobre 2023 - Beato Angelo d’Acri, Frate Cappuccino: Nato nel 1669 ad Acri (Cosenza), Lucantonio Falcone ebbe un cammino vocazionale singolarmente travagliato. Entrò e uscì dal noviziato cappuccino per ben due volte. Il terzo tentativo fu decisivo. Venne ordinato sacerdote nel 1700 nella cattedrale di Cassano. Esercitò il suo apostolato come padre provinciale e, soprattutto, come predicatore in tutto il Mezzogiorno per 40 anni. Era conosciuto come l’«Angelo della pace». In vita e dopo la morte, avvenuta nel 1739, compì numerosi miracoli. Il suo corpo è venerato nella basilica di Acri, che è a lui dedicata. È stato beatificato da Papa Leone XII nel 1825. (Avvenire)
 
Si compia in noi, o Signore,
la realtà significata dai tuoi sacramenti,
perché otteniamo in pienezza
ciò che ora celebriamo nel mistero.
Per Cristo nostro Signore.
 
 29 OTTOBRE 2023
 
XXX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – ANNO A
 
Es 22,20-26; Salmo Responsoriale Dal Salmo 17 (18); 1Ts 1,5c-10; Mt 22,34-40
 
Colletta
O Padre, che per amore
continuamente crei e rinnovi il mondo,
donaci la gioia di un cuore libero e pacificato,
capace di amare te sopra ogni cosa
e il prossimo come noi stessi.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Deus caritas est 20: L’amore del prossimo radicato nell’amore di Dio è anzitutto un compito per ogni singolo fedele, ma è anche un compito per l’intera comunità ecclesiale, e questo a tutti i suoi livelli: dalla comunità locale alla Chiesa particolare fino alla Chiesa universale nella sua globalità. Anche la Chiesa in quanto comunità deve praticare l’amore. Conseguenza di ciò è che l’amore ha bisogno anche di organizzazione quale presupposto per un servizio comunitario ordinato. La coscienza di tale compito ha avuto rilevanza costitutiva nella Chiesa fin dai suoi inizi: « Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno » (At 2, 44-45).
Luca ci racconta questo in connessione con una sorta di definizione della Chiesa, tra i cui elementi costitutivi egli annovera l’adesione all’« insegnamento degli Apostoli », alla « comunione » (koinonia), alla « frazione del pane » e alla « preghiera » (cfr At 2, 42). L’elemento della « comunione » (koinonia), qui inizialmente non specificato, viene concretizzato nei versetti sopra citati: essa consiste appunto nel fatto che i credenti hanno tutto in comune e che, in mezzo a loro, la differenza tra ricchi e poveri non sussiste più (cfr anche At 4, 32-37). Con il crescere della Chiesa, questa forma radicale di comunione materiale non ha potuto, per la verità, essere mantenuta. Il nucleo essenziale è però rimasto: all’interno della comunità dei credenti non deve esservi una forma di povertà tale che a qualcuno siano negati i beni necessari per una vita dignitosa.
 
Prima Lettura: Non molesterai il forestiero né lo opprimerai... Questo «stralcio di legislazione sociale non è una serie di imperativi a sé stanti; lo si può comprendere a fondo soltanto nel suo contesto vitale: l’alleanza [Es., cc.19-24]. Le leggi d’Israele sono conseguenza dell’iniziativa gratuita del Signore verso il suo popolo» (L. Di Pinto). Saranno queste norme, con il decalogo, a regolare la vita religiosa e morale del popolo d’Israele, norme comunque imperfette perché edificate non sulla pura oblazione, ma sul timore del castigo divino.
 
Seconda Lettura: L’apostolo Paolo loda i Tessalonicesi perché hanno accolto la Parola in mezzo a grandi prove, con la gioia dello Spirito Santo. La Parola è il «messaggio di Dio agli uomini, l’annunzio della salvezza mediante Gesù Cristo. Esso è stato predicato con virtù e segni compiuti nello Spirito e accolto in forza dell’aiuto del medesimo. Lo Spirito agisce nei predicatori evangelici, ma prepara ed attua anche l’adesione dei fedeli» (Pietro Rossano).
 
Vangelo
Amerai il Signore tuo Dio, e il tuo prossimo come te stesso.
 
Per rispondere alla domanda di un rabbino, Gesù, cita due testi della “Legge antica”: un passo del Deuteronomio (Dt 6,5) e uno del Levitico (19,18). Attribuisce però ad essi il senso estensivo confermato dall’intero insegnamento evangelico: ogni uomo è il prossimo che la legge divina ordina di amare e non solo il compagno, l’amico o il figlio dello stesso popolo. In questo modo, nella risposta, fa intendere che con la “Nuova Legge” è infranto il confine strettamente etnico per allargarsi a un orizzonte universale.
 
Dal Vangelo secondo Matteo
Mt 22,34-40
 
In quel tempo, i farisei, avendo udito che Gesù aveva chiuso la bocca ai sadducèi, si riunirono insieme e uno di loro, un dottore della Legge, lo interrogò per metterlo alla prova: «Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?». Gli rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: Amerai il tuo prossimo come te stesso. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti».
 
Parola del Signore.
 
Il più grande comandamento della legge - I farisei per mettere alla prova Gesù, questa volta, si alleano con i sadducei, loro naturali nemici. Una coalizione anomala che mette in evidenza la esasperazione dei farisei. Un’alleanza atipica perché i sadducei, diversamente dai farisei, riconoscevano come legittima solo la Legge scritta, non l’interpretazione che era stata fatta dalla tradizione orale in corrispondenza alle esigenze dei tempi; rifiutavano come normativi anche gli scritti dei Profeti; inoltre, negavano l’esistenza degli angeli, la risurrezione del corpo e la continuazione della vita dopo la morte (Cf. Mt 22,23-32). Predominanti nel sinedrio erano aperti al mondo orientato verso l’ellenismo. Interessati a cercare un compromesso con Roma, la loro influenza decadde dopo la distruzione di Gerusalemme e del Tempio (70 d.C.). In Atti 23,6ss si narra come Paolo abbia sfruttato a suo favore i dissidi che c’erano tra queste due sette.
Il racconto della controversia è comune a Marco (12,28-31) e a Luca (10,25-28). Matteo e Luca attribuiscono alla domanda del dottore della Legge un’intenzione non corretta. Al contrario, Marco presenta lo scriba come una persona posata, intelligente, aperta al dialogo, meritevole di lode, quindi, non lontano dal regno di Dio (Mc 12,34).
La disputa ha come sfondo i precetti della legge mosaica, ripartiti dai rabbini in 613 norme, 248 precetti positivi (come il numero delle membra del corpo umano) e 365 negativi (come i giorni dell’anno). In questa cornice, la domanda posta dal dottore della legge non è capziosa, poiché, in tale selva di comandamenti, era di capitale importanza statuire una gerarchia per stabilire un primo ed un ultimo. E in questo senso va compresa la domanda che viene posta a Gesù, anche se le intenzioni degli interlocutori erano ben altre.
Gesù nel rispondere salda due precetti, il primo tratto dal libro del Deuteronomio (6,5), il secondo dal libro del Levitico: «Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore».
Quest’ultimo brano biblico descrive l’orizzonte strettamente etnico che l’amore verso il prossimo aveva per l’israelita: l’amore del prossimo prendeva senso dalla solidarietà che doveva legare nell’unità del popolo tutti i discendenti di Israele.
Il secondo poi è simile, il senso di questa affermazione non è chiaro perché l’aggettivo omoios (simile) nella sacra Scrittura ha diverse valenze. Può designare «una somiglianza lontana [Cf. Cant 2,9; Prov 19,22; Gv 9,9; Ap 1,13)] o più stretta [tra esseri della stessa natura: Cf. Gen 2,20, la donna è simile all’uomo], come un’identità assoluta [Cf. Sap 18,11]. Altre volte l’omoios introduce una qualifica d’eccellenza. Per esaltare un patriarca [Cf. Prov 44,19], un giusto [Cf. Giob 1,8; 2,3], i re d’Israele [Cf. 1Sam 10,24; 1Re 3,12-13, ecc.], Dio [Cf. Es 15,11; Sal 35,10, ecc.]. L’ebreo ricorre a una frase stereotipa: “Chi è come te? Nessuno ti assomiglia, nessuno è a te simile. Tu sei senza eguali, ecc.”. In considerazione di quest’uso si può ritenere che il secondo comandamento è della medesima natura o della medesima portata del primo. Costituisce col primo una classe, una categoria di precetti assolutamente distinta da tutti gli altri» (O. da Spinetoli).
Ma Gesù, saldando i due precetti, voleva far comprendere ben altro al suo interlocutore; una sfumatura che il dottore della Legge certamente non sapeva cogliere ed era la sua Persona: Colui che gli stava dinanzi non era venuto «per abolire la Legge o i Profeti..., ma per dare compimento» (Mt 5,17). Praticamente, i comandamenti mosaici devono essere letti alla luce della sua Persona e del suo insegnamento: soltanto se si effettua questa operazione, allora, la risposta di Gesù, anche per i credenti, diventa dirompente, di una novità assoluta rispetto alla mentalità giudaica. In concreto, essendo Cristo Gesù il sacramento dell’amore del Padre, il prossimo va amato come il Padre ama gli uomini (Cf. Gv 3,16). E poiché Lui si è fatto «carne» per amore degli uomini (Cf. Gv 1,14), il prossimo va amato come il Padre ama il Figlio, perché nel Figlio v’è ogni uomo (Cf. Gv 17,21).
 
Amerai il prossimo tuo come te stesso - Giuseppe Barbaglio (Amore, in Schede Bibliche, Volume I): Nel Nuovo Testamento s’impone subito all’attenzio­ne nostra un detto di Gesù che, risponden­do alla domanda di un rabbino circa il comandamento più importante, anzitutto ri­porta letteralmente dal libro del Dt il co­mandamento dell’amore totale di Dio, ma poi aggiunge la citazione del comandamen­to dell’amore del prossimo di Lv 19,18 (Cf. Mt 22,34-40; Mc 12,28-34; Lc 10,25-28). La conclusione del dialogo appare diversa nei tre sinottici: Luca esorta alla pratica dei due comandamenti necessaria per la vita eterna (10,28). Marco fa sussumere il rabbino che mostra il suo accordo con la risposta di Gesù e ne riceve un lusinghiero encomio (12,32-34). Matteo invece riporta il seguente detto conclusivo di Gesù: «Da questi due comandamenti dipende tutta la Legge e i Profeti» (22,40).
Già nell’Antico Testamento era presente la problemati­ca del comandamento più importante. Nel­lo schema della conclusione dell’alleanza era prevista la proclamazione della stipula­zione fondamentale che precedeva l’elenco delle condizioni secondarie. Nel Dt il comandamento dell’amore di Dio era inteso appunto come stipulazione principale. Gesù dunque nella prima parte della sua risposta non fa che ripetere un luogo tradizionale. Più originale invece si mostra nell’abbinare il comandamento dell’amore del prossimo. Infatti, è vero che nel giudaismo questa prescrizione del Lv era intesa come sintesi di tutta la legge e che non erano mancate voci che avevano accostato i due comandamenti.
Ma prima di Gesù nessuno li aveva equiparati con tanta chiarezza e forza.
Ma che cosa significa di fatto parlare del comandamento più grande? Vuol dire che le esigenze divine sono ricondotte ad unità. Cristo è venuto come portavoce autorizzato della parola definitiva del Padre all’umani­tà: parola che, a suo giudizio, ruota attorno al perno dell’amore di Dio e dell’amore del prossimo. Il confronto di chi si apre nella fede alla prospettiva del regno annunciato da Cristo non avviene sulla base di numero­se prescrizioni e proibizioni, ma in rapporto a un atteggiamento fondamentale capace di dare coesione alla vita religiosa ed etica della persona. Nella stessa visuale si colloca la cosidetta regola d’oro dell’azione umana, testimo­niata da Matteo e da Luca: «Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge e i Profeti» (Mt 7,12; Cf. Lc 6,31). Sia pure in forma negativa, era già nota nel mondo giudaico. Gesù l’ha fatta propria dandole forma positiva. Non si pensi però che questo sia un cambiamento di grande importanza. Più significativo nella parola di Cristo è invece l’orizzonte in cui è fatta valere: il regno di Dio viene incontro all’uomo e lo provoca ad un atteggiamento di apertura e disponibilità. Ebbene, l’amore fattivo del prossimo costituisce la quintessenza della conversione dell’uomo al lieto annuncio del messia. Non è poi senza peso che nella regola d’oro l’amore sia inteso come un fare: si tratta di amore che chiama in causa la prassi dell’uomo.
Infine, non deve passare inosservato che si tratta di un comandamento. Ci si meraviglierà che l’amore sia comandato: il proverbio popolare non dice forse che al cuore non si comanda? Ma in questo modo non si comprende il significato vero dell’amore. In realtà, la Bibbia mette a confronto la volontà dell’uomo con la volontà di Dio. L’amore del prossimo esprime la nostra obbedienza al Padre, che vuole catturare la nostra volontà, ma per volgerne la prassi verso gli altri.
Resta da determinare chi è il prossimo per Gesù.
Soprattutto Luca ci aiuta a dare una risposta.
Infatti il terzo evangelista ci ha conservato il seguito del dialogo tra Gesù e il rabbino riguardante appunto l’identità del prossimo da amare. Alla domanda: «E chi è il mio prossimo?» Gesù risponde con una parabola incentrata sul diverso atteggiamento assunto da tre persone emblematiche di fronte alla vittima di un’aggressione: un sacerdote e un levita passano oltre, mentre un samaritano si cura del poveretto. Poi, a sua volta, domanda all’interrogante quale dei tre è stato il prossimo. Riferendosi al samarita­no, il rabbino da una descrizione precisa del prossimo: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù allora conclude esortandolo a fare altrettanto. Sono così superati i confini del particolarismo religioso ed etnico del comandamento di Lv 19, ma soprattutto sono superati i limiti di un discorso teorico. In primo piano Cristo mette l’agire concreto da prossimo. Il concetto di prossimo cessa di essere una categoria più o meno comprensiva del mondo circostante e diventa esigenza operativa di amore  rivolta a ciascuno di noi.
 
M. Eckhart (Predica: “Omne datum optirnum …”): Ama il prossimo tuo come te stesso: ci sembra difficile quello che ci ha comandato Nostro Signore: amare gli altri come noi stessi. Le persone rozze dicono comunemente: ciò significa che bisogna amare gli altri in vista dello stesso bene per il quale si ama noi stessi. No, non è cosi. Bisogna amarli quanto noi stessi, e ciò non è poi cosi difficile. Se volete riflettervi, l’amore è più una ricompensa che non un comandamento. Il comandamento sembra difficile, la ricompensa è desiderabile. Chi ama Dio come deve e come bisogna amarlo, che lo voglia o no, e come lo amano tutte le creature, deve amare il prossimo come se stesso, rallegrarsi delle sue gioie come delle proprie, desiderare il suo onore come il proprio, considerare lo straniero come il suo vicino. In questo modo l’uomo è sempre nella gioia, nell’onore e nel vantaggio, lo è davvero come nel Regno dei cieli, e ha cosi gioie maggiori che se si rallegrasse soltanto del proprio bene. Sappilo in verità: se il tuo proprio onore ti rende più felice di quello di un altro, ciò non è bene.
 
Il Santo del giorno - 29 Ottobre 2015 - San Narciso: Aveva quasi cent’anni quando venne eletto 30° vescovo di Gerusalemme. Era nato nel 96 da famiglia non israelita. Nonostante l’età, governò a lungo e con fermezza. Presiedette il Concilio in cui si decise che la Pasqua dovesse cadere di domenica. E a lui si attribuisce, proprio nel giorno di Pasqua, il miracolo di aver mutato l’acqua in olio per le lampade della sua chiesa, rimaste a secco. Per il suo rigore furono sparse calunnie sul suo conto. Si allontanò da Gerusalemme e, creduto morto, vennero eletti uno dopo l’altro due successori. Ma lui, alla morte del secondo, ricomparve. L’ultima notizia su di lui è in una lettera del coadiutore sant’Alessandro: si dice che aveva compiuto 116 anni. (Avvenire)
 
Si compia in noi, o Signore,
la realtà significata dai tuoi sacramenti,
perché otteniamo in pienezza
ciò che ora celebriamo nel mistero.
Per Cristo nostro Signore.