1 Novembre 2021
 
Tutti i Santi - Solennità
 
Ap 7,2-4.9-14; Sal 23 (24); 1Gv 3,1-3;  Mt 5,1-12a
 
Il Santo del Giorno - 1 Novembre 2021 - Celebrare la Solennità di Tutti i Santi vuol dire annunciare il mistero pasquale nei santi, che soffrirono insieme con Cristo ed insieme con lui furono glorificati. La santità cristiana consiste infatti nella imitazione e nella partecipazione a quell’unico amore che aveva Cristo nell’offrire al Padre la sua vita per gli uomini. La santità cristiana consiste nella vita paziente di ogni giorno nello spirito delle beatitudini; è nello stesso tempo l’adempimento della perenne vocazione dell’uomo alla perfezione. La chiamata alla santità riecheggiava nel Vecchio Testamento. Cristo dirà ai suoi: siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste (Mt 5,48). San Paolo ricorderà ai Tessalonicesi: questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione (cf. 1Ts 4,3).
Cambiano i tempi e le condizioni in cui vive la Chiesa, ma la chiamata alla santità non viene meno. La santità si manifesta esteriormente in modi diversi, viene realizzata dagli uomini secondo le doti della natura, i carismi, i tempi e le circostanze della vita. A base però della santità sta un’unica cosa: l’amore. Il santo camminava per la vita praticando il comandamento nuovo lasciato da Cristo. Oggi, la Chiesa contempla con gli occhi di Giovanni apostolo «una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua; tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello» (Ap 7,9) ed esulta con grande gioia. Contempla la Città santa, la Gerusalemme celeste dove un gran numero dei nostri fratelli glorifica già adesso il nome del Signore. In questo giorno solenne, la Chiesa manifesta ai suoi figli ancora pellegrinanti sulla terra il loro esempio di vita. Ai nostri fratelli, che sono già arrivati alla patria celeste, la Chiesa chiede aiuto e sostegno per coloro che sono ancora in via.

Colletta: Dio onnipotente ed eterno, che ci doni la gioia di celebrare in un’unica festa i meriti e la gloria di tutti i Santi, concedi al tuo popolo, per la comune intercessione di tanti nostri fratelli, l’abbondanza della tua misericordia.

Giovanni Paolo II (Udienza Generale 24 Novembre 1993):  Secondo il Concilio, tutti i seguaci di Cristo, anche i laici, sono chiamati alla perfezione della carità (LG 40). La tendenza alla perfezione non è un privilegio di alcuni, ma un impegno di tutti i membri della Chiesa. E impegno per la perfezione cristiana significa cammino perseverante verso la santità. Come dice il Concilio, “il Signore Gesù, Maestro e Modello divino di ogni perfezione, a tutti e ai singoli suoi discepoli di qualsiasi condizione ha predicato la santità della vita, di cui Egli stesso è autore e perfezionatore: “Siate dunque perfetti come è perfetto il vostro Padre celeste” (Mt 5, 48)” (LG 40). E perciò: “Tutti i fedeli di qualsiasi stato o grado sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità” (Ivi). Proprio grazie alla santificazione di ciascuno viene introdotta una nuova perfezione umana nella società terrena: come diceva la Serva di Dio Elisabetta Leseur, “ogni anima che si eleva, eleva con sé il mondo”. Il Concilio insegna che “da questa santità è promosso, anche nella società terrena, un tenore di vita più umano” (Ivi).
A questo punto occorre notare che la ricchezza infinita della grazia di Cristo, partecipata agli uomini, si traduce in una quantità e varietà di doni, con i quali ciascuno può servire e beneficare gli altri nell’unico corpo della Chiesa. Era la raccomandazione di San Pietro ai cristiani disseminati nell’Asia Minore, quando, esortandoli alla santità, scriveva: “Ciascuno viva secondo la grazia ricevuta, mettendola a servizio degli altri, come buoni amministratori di una multiforme grazia di Dio” (1 Pt 4, 10).
 
I Lettura: La prima lettura della solennità odierna ci aiuta a capire chi sono i santi. Essi sono coloro che hanno lavato le loro vesti nel sangue dell’Agnello. La santità è un dono, si riceve da Cristo, non è frutto dell’ingegno umano. Nell’Antico Testamento essere santi voleva dire essere separati da tutto ciò che è impuro, nella riflessione cristiana vuol dire il contrario e cioè essere uniti a Dio.
 
II Lettura: Pochi versetti, ma colmi di grandi verità. Innanzi tutto, il mondo non conosce i cristiani perché non conosce Gesù Cristo. Come dire che il mondo odia, perseguita i credenti in Cristo perché odia Cristo. Ma questo non deve abbattere i cristiani, essi sono figli di Dio e quindi già al presente vivono nella certezza di essere amati da Dio come figli carissimi. Quando si compirà ogni cosa e Gesù verrà nella gloria, allora si manifesterà in pienezza il vero essere dei credenti e potranno così vedere Dio faccia a faccia. Nell’oggi dei cristiani c’è posto solo per il desiderio della patria celeste.
 
Vangelo: I santi hanno amato e vissuto intensamente le beatitudini. Ma una beatitudine in particolare ha ispirato e sostenuto la loro vita: Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia perché saranno saziati. I santi sono coloro che hanno avuto fame e sete di giustizia, cioè, nel linguaggio biblico, di santità. Non si sono rassegnati alla mediocrità, non si sono accontentati delle mezze misure. Hanno messo le ali e sono volati in alto, sempre più in alto, fino a raggiungere il Cielo.
 
Dal Vangelo secondo Matteo 5,1-12a: In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli».
 
Beati - L’evangelista Matteo ha nove beatitudini a differenza di Luca che ne ha quattro e alle quali fa seguire “quattro guai” (Cf. Lc 6,20-26).
Gesù salì sul monte: si pose a sedere. Due note da non trascurare. Il monte per i semiti è il luogo che Dio preferenzialmente sceglie per manifestarsi ai suoi eletti: ai lettori ebrei per assonanza sarà venuto in mente il monte Sinai. Su quella montagna Dio si era rivelato a Mosè e aveva dato al popolo d’Israele la Legge (Cf. Es 19). Il sedersi è invece la postura propria del Maestro ai cui piedi si congregano i discepoli. Le intenzioni dell’evangelista Matteo quindi sono chiare: Gesù è Dio che si manifesta ai suoi discepoli sul monte ed è il Maestro che dona al “nuovo Israele” la nuova Legge, la “Magna Charta” del Regno di Dio.
L’evangelista Matteo, «che presenta Gesù come il Maestro definitivo di Israele, lo colloca in questo stesso contesto del luogo della rivelazione di Dio e della sua Legge e gli attribuisce un’autorità superiore a quella di Mosé e di tutti i maestri [gli scribi] di Israele. È nel contesto del “discorso della montagna”, infatti, che Gesù è definito come “uomo che insegna con autorità e non come i loro scribi” [Mt 7,29]» (Don Primo Gironi).
Queste note comunque non cancellano la storicità dell’episodio evangelico realmente accaduto su «una delle colline vicino a Cafarnao» (Bibbia di Gerusalemme).
Beati è una formula ricorrente nei Salmi, nei libri sapienziali e nel Nuovo Testamento, soprattutto nel libro dell’Apocalisse. Beato è l’uomo che cammina nella legge del Signore e per questo è ricolmo delle benedizioni di Dio, dei suoi favori e delle sue consolazioni divine soprattutto nei momenti cruciali in cui deve sopportare umiliazioni, affanni e persecuzioni. Gesù apre il suo discorso proclamando beati i “poveri in spirito”, una aggiunta questa che fa bene intendere che il Maestro fa riferimento non agli indigenti, ma ai “poveri di Iahvé”, cioè a coloro che nonostante tutto restano fedeli al Signore, anzi le prove sono spinte a fidarsi di Dio, a chiudersi nel suo cuore, a rinserrarsi tra le sue braccia. I “poveri in spirito” sono coloro che fanno del dolore una scala per salire fino a Dio. Sono coloro che restano nonostante tutto saldi nelle promesse di Dio (Cf. Mt 27,39-44). In questa ottica sono beati quelli che sono nel pianto, i perseguitati per la giustizia, i diffamati. Ai miti fanno corona coloro che hanno fame e sete della giustizia, cioè coloro che amano vivere all’ombra della volontà di Dio, attuandola nella loro vita e mettendola sempre al primo posto. Beati sono i misericordiosi cioè coloro che imitano la bontà, la pietà e la misericordia di Dio soprattutto a favore dei più infelici e dei più bisognosi. I puri di cuore sono beati per la purezza delle intenzioni, l’onestà della vita, perché sempre disponibili ai progetti divini. E infine, gli operatori di pace, che «nella Bibbia esprime la comunione con Dio e con gli uomini ed è il dono che riassume il vangelo [Cf. Lc 2,14], sono i più evidenti figli del Padre celeste» (S. Garofalo).
Il “discorso della Montagna” si chiude con due beatitudini rivolte ai perseguitati. Israele in tutta la sua storia aveva dovuto fare i conti con numerosi persecutori e se, quasi sempre, aveva accettato l’umiliazione delle catene, della tortura fisica e  dell’esilio, come purificazione e liberazione dal peccato, mai avrebbe pensato alla persecuzione come a una fonte di gioia e di felicità. Il discorso di Gesù va poi collocato proprio in un momento doloroso della storia ebraica: Israele gemeva sotto il durissimo e spietato giogo di Roma.
Nel nuovo Regno bandito da Gesù di Nazaret invece la persecuzione, e anche la calunnia, l’ingiustizia o l’odio gratuito, sono sorgenti di felicità se sopportate per «causa sua». Ancora di più, la sofferenza vicaria dà «compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa» (Col 1,24). Solo in questa prospettiva la persecuzione è la via grande, spaziosa e larga, spalancata al dono della salvezza e apportatrice di ogni bene e dono: «Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli». Un discorso che è rivolto a tutti: ai discepoli e alla folla, nessuno escluso.

Vocazione universale alla santità - Lumen gentium 40: Il Signore Gesù, maestro e modello divino di ogni perfezione, a tutti e a ciascuno dei suoi discepoli di qualsiasi condizione ha predicato quella santità di vita, di cui egli stesso è autore e perfezionatore: «Siate dunque perfetti come è perfetto il vostro Padre celeste» (Mt 5,48). Mandò infatti a tutti lo Spirito Santo, che li muova internamente ad amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente, con tutte le forze (cfr Mc 12,30), e ad amarsi a vicenda come Cristo ha amato loro (cfr. Gv 13,34; 15,12). I seguaci di Cristo, chiamati da Dio, non a titolo delle loro opere, ma a titolo del suo disegno e della grazia, giustificati in Gesù nostro Signore, nel battesimo della fede sono stati fatti veramente figli di Dio e compartecipi della natura divina, e perciò realmente santi. Essi quindi devono, con l’aiuto di Dio, mantenere e perfezionare con la loro vita la santità che hanno ricevuto. Li ammonisce l’Apostolo che vivano « come si conviene a santi » (Ef 5,3), si rivestano «come si conviene a eletti di Dio, santi e prediletti, di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di dolcezza e di pazienza » (Col 3,12) e portino i frutti dello Spirito per la loro santificazione (cfr. Gal 5,22; Rm 6,22). E poiché tutti commettiamo molti sbagli (cfr. Gc 3,2), abbiamo continuamente bisogno della misericordia di Dio e dobbiamo ogni giorno pregare: « Rimetti a noi i nostri debiti » (Mt 6,12).
È dunque evidente per tutti, che tutti coloro che credono nel Cristo di qualsiasi stato o rango, sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità e che tale santità promuove nella stessa società terrena un tenore di vita più umano. Per raggiungere questa perfezione i fedeli usino le forze ricevute secondo la misura con cui Cristo volle donarle, affinché, seguendo l’esempio di lui e diventati conformi alla sua immagine, in tutto obbedienti alla volontà del Padre, con piena generosità si consacrino alla gloria di Dio e al servizio del prossimo. Così la santità del popolo di Dio crescerà in frutti abbondanti, come è splendidamente dimostrato nella storia della Chiesa dalla vita di tanti santi.
 
Siamo figli di Dio: Francesco (Omelia, 1 novembre 2013): Abbiamo sentito nella seconda Lettura quello che l’Apostolo Giovanni diceva ai suoi discepoli: «Vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce. ... Siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo come egli è» (1 Gv 3,1-2). Vedere Dio, essere simili a Dio: questa è la nostra speranza. E oggi, proprio nel giorno dei Santi e prima del giorno dei Morti, è necessario pensare un po’ alla speranza: questa speranza che ci accompagna nella vita. I primi cristiani dipingevano la speranza con un’ancora, come se la vita fosse l’ancora gettata nella riva del Cielo e tutti noi incamminati verso quella riva, aggrappati alla corda dell’ancora. Questa è  una bella immagine della speranza: avere il cuore ancorato là dove sono i nostri antenati, dove sono i Santi, dove è Gesù, dove è Dio. Questa è la speranza che non delude; oggi e domani sono giorni di speranza.

Il peso dell’umanità e la grazia di Dio - Cassiano Giovanni, Collationes, 18, 10: I santi si sentono ogni giorno decadere, sotto il peso di terreni pensieri, dalle altezze della contemplazione; contro la loro volontà, anzi senza saperlo, sono assoggettati alla legge del peccato e della morte, e sono distratti dalla presenza di Dio da opere terrene, per quanto buone e giuste. Hanno dunque delle buone ragioni per gemere continuamente presso il Signore, hanno ben motivo per cui veramente umiliati e compunti non solo a parole, ma di cuore, si dichiarino peccatori, chiedano sempre perdono per tutte le debolezze in cui, battuti dalla debolezza della carne, incorrono ogni giorno, e versano vere lagrime di penitenza, poiché vedono che fino alla fine della loro vita essi saranno tormentati dalle pene che li affliggono e che neanche possono offrire le loro suppliche senza il fastidio delle immaginazioni. Resisi conto, quindi, ch’essi non riescono, per il peso della carne, a raggiungere con le forze umane la meta desiderata e che non riescono a congiungersi, come desiderano, al sommo bene, ma che invece sono travolti, come prigionieri, verso le cose mondane, ricorrono alla grazia di Dio il quale fa giusti i malvagi (Rm 4,5) e gridano con l’Apostolo: Oh, me infelice! chi mi libererà da questo corpo di morte? La grazia di Dio per mezzo del signor nostro Gesù Cristo (Rm 7,24-25). Sentono che non possono portare a termine il bene che vogliono e che invece ricadono sempre nel male che non vogliono e odiano, cioè le immaginazioni e preoccupazioni delle cose terrene.

O Dio, unica fonte di ogni santità,
mirabile in tutti i tuoi Santi,
fa’ che raggiungiamo anche noi la pienezza del tuo amore,
per passare da questa mensa,
che ci sostiene nel pellegrinaggio terreno,
al festoso banchetto del cielo.
Per Cristo nostro Signore.


 

 31 Ottobre 2021
 
XXXI Domenica T. O.
 
Dt 6,2-6; Sal 17 (18); Eb 7,23-28; Mc 12,28b-34
 
Il Santo del Giorno - 31 Ottobre 2021 - Alfonso Rodriguez Religioso: Alfonso era un mercante, nato a Segovia, in Spagna, nel 1533. Si era sposato e aveva avuto due figli ma fu sconvolto dalla perdita della moglie e dei beni. A 35 anni tornò a scuola, proseguendo faticosamente gli studi interrotti in gioventù. Si presentò, quasi vecchio, come novizio in un convento della Compagnia di Gesù. Venne accolto, ma volle restare fratello coadiutore, addetto al servizio materiale della comunità. Divenne così portinaio nel convento dell’isola di Maiorca, da dove passavano i missionari diretti in America. Per tutti l’incontro con il santo portinaio era un’esperienza illuminante e a volte decisiva, come nel caso di san Pietro Claver, l’«apostolo degli schiavi». I suoi scritti furono raccolti dopo la morte, avvenuta il 31 ottobre del 1617. (Avvenire)
 
Colletta: Dio onnipotente e misericordioso, tu solo puoi dare ai tuoi fedeli il dono di servirti in modo lodevole e degno; fa’ che corriamo senza ostacoli verso i beni da te promessi. Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Benedetto XVI (Lettera Enciclica, Deus caritas est 1): «Dio è amore; chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui» (1Gv 4,16). Queste parole della Prima Lettera di Giovanni esprimono con singolare chiarezza il centro della fede cristiana: l’immagine cristiana di Dio e anche la conseguente immagine dell’uomo e del suo cammino. Inoltre, in questo stesso versetto, Giovanni ci offre per così dire una formula sintetica dell’esistenza cristiana: «Noi abbiamo riconosciuto l’amore che Dio ha per noi e vi abbiamo creduto». Abbiamo creduto all’amore di Dio - così il cristiano può esprimere la scelta fondamentale della sua vita. All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva. Nel suo Vangelo Giovanni aveva espresso quest’avvenimento con le seguenti parole: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui ... abbia la vita eterna» (Gv 3,16). Con la centralità dell’amore, la fede cristiana ha accolto quello che era il nucleo della fede d’Israele e al contempo ha dato a questo nucleo una nuova profondità e ampiezza. L’Israelita credente, infatti, prega ogni giorno con le parole del Libro del Deuteronomio, nelle quali egli sa che è racchiuso il centro della sua esistenza: «Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze» (Dt 6,4-5). Gesù ha unito, facendone un unico precetto, il comandamento dell’amore di Dio con quello dell’amore del prossimo, contenuto nel Libro del Levitico: «Amerai il tuo prossimo come te stesso» (Lv 19,18; cfr. Mc 12,29-31). Siccome Dio ci ha amati per primo (cfr. Gv 4,10), l’amore adesso non è più solo un «comandamento», ma è la risposta al dono dell’amore, col quale Dio ci viene incontro.
 
I Lettura - Bibbia di Gerusalemme: 6,4 Il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore: BJ: «YHWH nostro Dio è il solo YHWH» YHWH». Altra traduzione proposta talvolta: «Ascolta, Israele: YHWH è il nostro Dio, YHWH solo». Tuttavia, l’espressione sembra proprio un’affermazione di monoteismo.
Essa diventerà l’inizio della preghiera detta Šema (-Ascolta-), che resta una delle più care alla pietà ebraica. - Lungo la storia di Israele questa fede in un Dio unico non ha cessato di svilupparsi, con crescente precisione, a partire dalla fede nell’elezione e nell’alleanza (Gen 6,18; 12,1+; 15,1+; ecc.).
L’esistenza di altri dèi non è stata mai affermata espressamente nei tempi antichi, ma l’affermazione del Dio vivente (5,26+), unico Signore del mondo come del suo popolo (Es 3,14+; 1Re 8,56-60; 18,21; 2Re 19,15- 19; Sir 1,6-7; Am 4,13; 5,8; Is 42,8+; Zc 14,9; Mi 1,11), ha comportato sempre più anche una negazione sistematica dei falsi dèi (Sap 13,10+; 14,13; Is 40,20+; 41,21+)
 
II Lettura: Gesù Cristo, sacerdote eterno, esercita nel Cielo il suo ufficio di intercessore e di mediatore a favori dei santi. Nella pienezza del tempo (Gal 4,4) l’efficacia assoluta e definitiva del sacrificio di Gesù Cristo ha soppiantato gli sacrifici dell’antica alleanza incapaci di procurare la salvezza.
 
Vangelo: La Parola di Dio ci spinge ad esplorare due piste: l’unicità di Dio e la carità. Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore: nel Nuovo Testamento il monoteismo è tanto intransigente quanto nel giudaismo. Qui, sulla bocca di Gesù esso si basa sullo Shema (Dt 6,4-5), una preghiera della liturgia ebraica la cui recita avviene due volte al giorno, nella preghiera mattutina ed in quella serale. L’unicità di Dio risuona anche nella predicazione cristiana: l’apostolo Paolo esorterà i pagani a «convertirsi» all’unico Dio vivente (At 14,15; 1Cor 8,4-6, 1Ts 1,9; 1Tm 2,5). Nella teologia paolina l’unicità viene esplicitata dalla affermazione convinta che tutta l’opera del Cristo Gesù proviene da Dio e vi sfocia perché Dio la rivolge alla sua propria gloria (Rm 8,28-30; 16,27, 1Cor 1,30; 15,28.57; Ef 1,3-12; 3,11; Fil 2,11; 4,19-20;1Tm 2,3-5; 6,15-16; Eb 1,1-13; 13,20-21; ecc.). Anche la carità avvolge interamente il Nuovo Testamento. Il tredicesimo capitolo della prima lettera ai Corinzi custodisce, come prezioso scrigno, l’Inno alla Carità, e la prima lettera di san Giovanni serba la massima rivelazione di Dio: Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore (1Gv 4,8; cfr. 1Gv 4,16). La carità è il cuore della Chiesa e ha consumato i santi, incendiando la loro vita.
 
Dal Vangelo secondo Marco 12,28b-34: In quel tempo, si avvicinò a Gesù uno degli scribi e gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?». Gesù rispose: «Il primo è: “Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”. Il secondo è questo: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Non c’è altro comandamento più grande di questi». Lo scriba gli disse: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico e non vi è altri all’infuori di lui; amarlo con tutto il cuore, con tutta l’intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici». Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, Gesù gli disse: «Non sei lontano dal regno di Dio». E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo.
 
Alessandro Pronzato (Una cristiano comincia a leggere il Vangelo Di Marco): Finalmente una persona sincera - Stavolta c’è una domanda senza sottintesi.
Gesù risponde di buon grado. Sembra uno scolaro diligente che si sottopone a un’interrogazione seria. Accoglie l’elogio meritato e poi, a sua volta, promuove il maestro.
Si ha l’impressione di assistere a uno scambio di cortesie, di approvazioni reciproche.
Ma i due non fanno accademia.
In realtà Gesù si trova di fronte, per una volta, a un interlocutore sincero, impegnato in una ricerca autentica, senza posizioni preconcette.
Matteo attribuisce a questo scriba intenzioni meno limpide, e afferma che la sua domanda è capziosa.
Marco, invece, che pure non può digerire gli scribi, fa eccezione per questo loro collega. Il che, tra l’altro, depone a favore, oltre che dell’originalità del suo racconto, anche dell’onestà dell’autore. Nel contesto delle polemiche, infatti, sarebbe stato facilissimo e quasi logico inserire un nuovo personaggio intenzionato a tendere agguati. Il che, oltre a tutto, avrebbe giustificato meglio la rovente requisitoria del brano successivo.
Quest’uomo, invece, ha seguito il dibattito precedente coi Sadducei. Ed è rimasto colpito dalla lucidità dell’argomentazione di Gesù. Perciò si fa avanti per sottoporgli la propria questione.
 
Benedetto Prete (I Quattro Vangeli) versetto 31: Gesù, senza esser stato richiesto, aggiunge nella risposta il precetto dell’amore del prossimo che egli ricorda secondo la formulazione del Levitico, 19, 18. Ci si domanda se Cristo fu il primo a compiere l’abbinamento dell’amore del prossimo con quello di Dio, poiché il dottore della legge, secondo la tradizione del vangelo di Luca l’aveva già compiuto (cf. Lc., 10, 27). Si discute se nell’ebraismo e nel paganesimo esista un principio religioso che riunisca i precetti dell’amore di Dio e del prossimo; tuttavia non vi è dubbio che nessuno ha dato ai due comandamenti la chiarezza, lo spirito, la sublimità e la portata di Cristo. Per il Salvatore infatti l’amore del prossimo non è filantropia, né semplice solidarietà con gli altri, né soltanto riconoscimento della dignità altrui, ma un prolungamento dell’amore che si nutre verso Dio. L’amore del prossimo è radicato in quello di Dio, è universale (non riguarda soltanto il vicino o il connazionale, come presso gli Ebrei), è operante perché non deve arrestarsi al sentimento ed alla parola, ma deve passare all’atto, come è detto nella parabola del buon Samaritano (cf. Lc., 10, 25-37), ed è posto al disopra di altri precetti importanti, come quelli della circoncisione e del riposo sabatico. «I due versetti di Marco . scrive il Lagrange - costituiscono veramente la “carta” breve ed espressiva di una vita nuova, animata dalla carità». L’amore di Dio e del prossimo riassume tutta la religione cristiana e S. Paolo vede nell’adempimento dell’amore del prossimo la pienezza della Legge (cf. Romani, 13, 8-10; Galati, 5, 14). Non vi è altro comandamento maggiore di questi; il Maestro sanziona in modo inequivocabile il primato dell’amore di Dio e del prossimo sugli altri precetti. Le sue parole costituiscono anche un duro colpo per il legalismo farisaico, il quale, con il pretesto dell’amore di Dio, disobbligava facilmente gli uomini dall’adempimento dell’amore verso il prossimo.
 
Comandamenti - Peter Weimar: Nell’Antico testamento sono le richieste di JHWH fatte a Israele sulla base dell’alleanza del Sinai, in particolare il decalogo (Es 20,2-17;5,6-21) come suo codice d’alleanza, ma anche i comandamenti cultuali, giuridici ed etici sempre nuovamente attualizzati e aumentati in una lunga tradizione, quali sono raccolti nel codice dell’alleanza (Es 20,22-23,33), nel codice di santità (Lv 17-26), nel Dt (12-26) e nel documento sacerdotale (Es 25-31; 35-40; Lv, Nm).
I comandamenti non sono un’entità assoluta, come dimostra il loro inserimento nella tradizione del Sinai, ma riferita alla precedente azione salvifica di JHWH nei riguardi d’Israele: la sua elezione, l’averlo fatto uscire dall’Egitto e la stipulazione dell’alleanza al Sinai. In questo evento si radica la pretesa esclusiva di JHWH sul suo popolo, la quale si esprime nei singoli comandamenti e abbraccia tutti i settori della vita.
L’atteggiamento corrispondente del popolo è l’ubbidienza; la trasgressione dei comandamenti è oggetto di maledizione (Dt 27,15-26; Lv 26). Soltanto dopo l’esilio i comandamenti diventarono una legge assoluta, incondizionata, dalla quale il singolo uomo dipende come unica via della salvezza.
Il Nuovo Testamento non rigetta semplicemente i comandamenti veterotestamentari, ma li fonde insieme nel comandamento dell’amore di Dio e del prossimo (Mt 5,17-48; Mc 12,28-34; Rm 13,8-10).
 
Eduard Schweizer (Il Vangelo secondo Marco): Non ci si regola con Dio attraverso la legge - Come nell’Antico Testamento e nell’insegnamento giudaico, Gesù intende l’amore come un volere e pensa a tutte le piccole cose quotidiane in cui questo si esprime. Quel che dà a queste proposizioni la loro forza che scardina ogni legalismo è però soltanto l’agire di Gesù che, come era già evidente da 2, 1-3,6, chiamava i pubblicani alla comunione con Dio ed escludeva i legalisti che, cercando di osservare tutti i possibili comandamenti singoli, perdevano di vista la volontà di Dio.
Soltanto in questo modo diventa possibile l’affermazione di san Paolo (Rm 13,8-10). Cioè, quando il duplice comandamento è compreso così radicalmente, come nella vita e nella morte di Gesù, da includere e comprendere veramente tutti gli altri comandamenti, la legge non può più essere per l’uomo lo strumento col quale egli si mette in regola con Dio e grazie al quale crede di poter rivendicare qualcosa da lui.
Invece, egli si trova posto di fronte a Dio come uno che, sì, non è mai arrivato al traguardo (chi nel campo dell’amore fosse giunto al traguardo, sarebbe già fuori dell’amore), ma pure non dubita minimamente di quell’amore che non è mai compiuto, ed anzi ha la consolazione di sapersi amato da Dio e di vivere della realtà di quest’amore che si accresce sempre di più.
 
Amare Dio per Dio stesso: «Se lodi Dio affinché egli ti dia qualcos’altro, non ami più gratuitamente Dio. Ti rincrescerebbe se tua moglie ti amasse per le ricchezze, e se, diventato tu per caso povero, lei pensasse all’adulterio. Ebbene, tu che vuoi essere amato gratuitamente da tua moglie, amerai Dio per qualcosa di estraneo a lui? Quale premio riceverai da Dio, o avaro? Non ti serba la terra, ma se stesso, colui che ha fatto il cielo e la terra. Spontaneamente sacrificherò a te [Sal 53,8]: non per necessità. Se lodi Dio per motivi estranei a lui, lo lodi per necessità. E se tu avessi ciò che ami, non lo loderesti più. Osserva quanto ti dico. Tu lodi Dio, ad esempio, perché ti dia più denaro. Se tu potessi ottenere tale denaro da altri che non da Dio, loderesti forse Dio? Ebbene, se lodi Dio in vista del denaro, non sacrifichi spontaneamente a Dio, ma gli sacrifichi per necessità, perché ami un qualcosa che è al di fuori di lui. Ecco perché è detto nel salmo: “Spontaneamente sacrificherò a te”. Disprezza tutto il resto, guarda a lui! Ricorda che le stesse cose che egli ti ha donate sono buone per la bontà del donatore. Senza dubbio, è lui che dà questi beni temporali, e ad alcuni li dona a loro vantaggio, mentre ad altri a loro danno, secondo l’altezza e l’imperscrutabilità dei suoi giudizi. Di fronte all’abisso di questi giudizi l’Apostolo spaventato diceva: “O profondità delle ricchezze della sapienza e della scienza di Dio! Quanto imperscrutabili sono i suoi giudizi e sconosciute le sue vie! Chi conoscerà infatti le sue vie o chi comprenderà i suoi disegni?” [Rm 11,33-34]. Egli sa quanto dare e a chi dare, quando togliere e a chi togliere. Quanto a te, chiedi nel tempo ciò che ti giova nel futuro: chiedi ciò che ti sia di aiuto per l’eternità. Ma lui, amalo gratuitamente: perché da lui non puoi avere niente di meglio che lui stesso.» (Agostino, Esposizioni sui Salmi, 53,10).
 
Rafforza in noi, o Signore, la tua opera di salvezza,
perché i sacramenti che ci nutrono in questa vita
ci preparino a ricevere i beni che promettono.
Per Cristo nostro Signore.
 

 

 30 Ottobre 2021
 
SABATO DELLA XXX SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO
 
Rm 11,1-2a.11-12.25-29; Sal 93 (94); Lc 14,1.7-11
 
Il Santo del Giorno - 30 Ottobre 2021 - San Gerardo di Potenza Vescovo: Gerardo, vescovo del XII secolo, è il patrono della città e dell’arcidiocesi di Potenza. Nato a Piacenza in una famiglia di nobili origini, si diresse verso l’Italia Meridionale probabilmente con l’intenzione di imbarcarsi insieme ai crociati verso i Luoghi Santi. Giunto però a Potenza iniziò a dedicarsi all’apostolato. E il suo impegno gli attirò a tal punto l’ammirazione della gente che, quando morì il vescovo, il clero e il popolo lo scelsero come successore. Ordinato vescovo ad Acerenza, resse la Chiesa di Potenza per otto anni. Anche da vescovo «era di tanta sobrietà - scrive il biografo e successore Manfredi - da sembrare un monaco». Morì nel 1119. Trascorso un solo anno papa Callisto II lo proclamò santo a furor di popolo. (Avvenire)
 
Colletta: Dio onnipotente ed eterno, accresci in noi la fede, la speranza e la carità, e perché possiamo ottenere ciò che prometti, fa’ che amiamo ciò che comandi. Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
L’ultimo posto: Giovanni Paolo II (Omelia, 31 Agosto 1986): Gesù “partecipando a un pranzo in casa di uno dei capi dei farisei, coglie l’occasione per insegnare ad essere umili. Ci dice di scegliere l’ultimo posto, di accontentarci del poco, di cercare non l’appariscenza del sembrare, ma la realtà dell’essere. Davanti a Dio siamo nulla; e anche davanti agli uomini siamo ben poco, anzi diventiamo ridicoli, persino miserevoli se prendiamo pose e atteggiamenti di autosufficienza, di vanagloria. Gesù, pero, non vuole soltanto suggerire delle indicazioni di buona educazione e di comportamento avveduto; egli vuole soprattutto quadrare la mente, e dare idee grandi e luminose per la nostra vita. Egli infatti soggiunge: “Chiunque si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato” (Lc 14,11) Questo talvolta può già avvenire su questa terra, in questa nostra vita; ma ciò è secondario. Essenziale è che l’umile sarà esaltato in cielo da Dio stesso. “Vuoi essere grande?”, chiedeva sant’Agostino; e rispondeva: "Comincia dalle cose più piccole. Vuoi innalzare una costruzione di grande altezza? Prima pensa al fondamento della bassezza" (Sermo 69,1,2). Se vogliamo veramente costruire l’edificio della nostra santificazione, bisogna fondarlo sull’umiltà. Gesù ci è di modello. Egli, come dice san Paolo, “pur essendo di natura divina... spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo...; umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2,6-8)). Come non sentirsi, come non essere piccoli e umili davanti al mistero dell’incarnazione e della redenzione, davanti al Figlio di Dio che vagisce a Betlemme, che si avvolge di silenzio a Nazaret, che vive un’esistenza di povero, che muore su una nuda croce? È Gesù il primo, il vero umile, l’unico che ha veramente glorificato Dio - infatti Dio è “glorificato dagli umili”, ci ha ancora detto il Siracide (Sir 3,20) - perché si è umiliato in tutta la sua esistenza, pur manifestando vittoriosamente la sua potenza di Signore, ed è stato ciò che egli stesso si è definito: “mite e umile di cuore” (Mt 11,29).
 
I Lettura:  Paolo è profondamente amareggiato perché Israele ha rifiutato di accogliere il Vangelo, ma porta nel cuore una speranza, perché che il rifiuto d’Israele non è irreversibile. In un tempo stabilito da Dio anche il popolo eletto entrerà nella Chiesa, Dio è paziente, e gli Israeliti, nonostante il loro rifiuto, sono amati, a causa dei padri, infatti i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili!
 
Vangelo: Gesù vuole che i suoi discepoli siano umili, piccoli, «poveri in spirito perché di essi è il regno dei cieli» (Mt 5,3). Il bene va fatto senza alcuna mira di contraccambio umano e l’amore verso i poveri e gli ultimi deve essere schietto, sincero ad imitazione di Dio che è «Padre degli orfani e difensore delle vedove» (Sal 67,6). Solo agli umili Dio rivela i segreti del Regno (cfr. Mt 11,25) e ad essi mostra il suo volto. L’insegnamento di Gesù è rivolto alla Chiesa perché lo confronti con la sua vita. Nella Chiesa non ci possono essere dei raccomandati, dei privilegiati o degli arrampicatori. Sete di ambizione e fame di carriera sono malerbe che soffocano il cuore dell’uomo.
 
Dal Vangelo secondo Luca 14,1.7-11: Un sabato Gesù si recò a casa di uno dei capi dei farisei per pranzare ed essi stavano a osservarlo.
Diceva agli invitati una parabola, notando come sceglievano i primi posti: «Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: “Cédigli il posto!”. Allora dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto. Invece, quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: “Amico, vieni più avanti!”. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato».
 
Cosi chi ti ha invitato - Benedetto Prete (I Quattro Vangeli): versetto 10 la particella vα ha qui valore consecutivo (cosi, di modo che), non già finale (affinché). È superfluo notare che la persona invitata al banchetto nuziale non deve mettersi all’ultimo posto con la segreta intenzione di esser poi pregata ad occupare i primi, perché l’umiltà non va intesa come un mezzo per essere innalzati, bensì come un atteggiamento interiore suggerito da una sincera e profonda convinzione della propria piccolezza e indegnità. A questo atteggiamento di intima e sentita umiltà da parte dell’uomo corrisponde da parte di Dio, cioè da parte della liberalità divina, un atteggiamento di somma benevolenza, poiché il Signore assegnerà i posti di onore a coloro che, per un convinto e autentico sentimento della propria piccolezza e indegnità, si valutano da meno degli altri e vanno ad occupare gli ultimi posti. Con l’esempio (parabola) ricordato, il Maestro intende proporre una lezione di umiltà ai propri discepoli esortandoli implicitamente a coltivare nel loro intimo questa fondamentale virtù.
versetto 11 Nel versetto conclusivo viene indicato il vero motivo che ha indotto il Salvatore a riferire la precedente «parabola»; poiché questa non è una semplice lezione di correttezza sociale, ma costituisce un autentico insegnamento religioso che scopre al seguace di Cristo un valore spirituale di somma importanza per la sua vita. Il discepolo di Gesù apprende da questo passo evangelico il principio che il Signore segue nella valutazione degli uomini; per avere un posto elevato presso Dio occorre praticare l’umiltà, poiché l’orgoglio dispiace al Signore e viene punito da Lui. È necessario per il credente conoscere ciò che ha valore ed è realmente apprezzato da Dio, poiché la vita con le sue ingannevoli apparenze gli può offuscare il giudizio. Il detto che l’evangelista riporta al termine di questa lezione sull’umiltà trova nel presente racconto il suo contesto storico e psicologico più appropriato; lo stesso principio ritorna in Lc., 18, 14 ed in Mt., 18,4; 23,12.
 
Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto: Benedetto XVI (Angelus, 29 agosto 2010): Il Signore non intende dare una lezione sul galateo, né sulla gerarchia tra le diverse autorità. Egli insiste piuttosto su un punto decisivo, che è quello dell’umiltà: “chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato” (Lc 14,11). Questa parabola, in un significato più profondo, fa anche pensare alla posizione dell’uomo in rapporto a Dio. L’“ultimo posto” può infatti rappresentare la condizione dell’umanità degradata dal peccato, condizione dalla quale solo l’incarnazione del Figlio Unigenito può risollevarla. Per questo Cristo stesso “ha preso l’ultimo posto nel mondo - la croce - e proprio con questa umiltà radicale ci ha redenti e costantemente ci aiuta” (Enc. Deus caritas est, 35). Al termine della parabola, Gesù suggerisce al capo dei farisei di invitare alla sua mensa non gli amici, i parenti o i ricchi vicini, ma le persone più povere ed emarginate, che non hanno modo di ricambiare (cfr. Lc 14,13-14), perché il dono sia gratuito. La vera ricompensa, infatti, alla fine, la darà Dio, “che governa il mondo ... Noi gli prestiamo il nostro servizio solo per quello che possiamo e finché Egli ce ne dà la forza” (Enc. Deus caritas est, 35). Ancora una volta, dunque, guardiamo a Cristo come modello di umiltà e di gratuità: da Lui apprendiamo la pazienza nelle tentazioni, la mitezza nelle offese, l’obbedienza a Dio nel dolore, in attesa che Colui che ci ha invitato ci dica: “Amico, vieni più avanti!” (cfr. Lc 14,10); il vero bene, infatti, è stare vicino a Lui.
 
Umiltà - Gottfried Hierzenberger: Nell’Antico Testamento è un atteggiamento dello spirito che esplica i propri positivi effetti nei confronti di Dio e nei confronti dei propri simili. Nei confronti di Dio umiltà significa pietà, giustizia. Dio protegge gli umili (Mi 6,8), li consola (Is 57,15), li innalza (Sal 147,6) ed entra in comunione con loro (Sal 51,19), i superbi, invece, Dio li distrugge e dimostra che la loro apparente potenza è in realtà impotenza e nullità. Per mezzo dell’umiltà, nei confronti dei propri simili si può trovar Dio (2Cr 36,12); in questo caso l’umiltà è l’atteggiamento veramente umano del servire. Accanto all’atteggiamento dello spirito, l’umiltà indica anche la situazione della piccolezza, della necessità o povertà, cosicché i poveri possono esser considerati gli umili. Que­sta concezione veterotestamentaria permane ancora nella beatitudine in Luca (6,20). Per il resto, invece, l’umiltà nel Nuovo Testamento acquisisce una motivazione nuova e un significato più profondo, quale comportamento adeguato del redento.
1. L’irrompente signoria di Dio richiama a un atteggiamento nuovo che Gesù stesso aveva vissuto in maniera esemplare (Mt 11,28s). Non è intesa come virtù nel senso di mansuetudine personale, ma affonda le sue radici nella disponibilità attiva a servire nell’amore (Mc 10,45).
2. Ciò esige dal cristiano un cosciente abbassamento (Lc 14,11) del superbo e autoritario voler-vivere-di-se-stessi all’atteggiamento del bambino (Mt 18,3s). Ogni autoesaltazione è assurda (lCor 1,28-31) di fronte alla colpa e ai limiti della propria fede (Rm 12,3); la consapevolezza di dipendere dalla pietà di Dio (Rm 3,21ss) deve portare a far proprio questo amore pietoso di Dio e di concretizzarlo (Col 3,12-14) nel servizio al prossimo (Rm 12,10) e al debole (Rm 14,1).
Detto ciò l’umiltà non ha nulla a che vedere con la debolezza o la passività, al contrario, essa esige pieno impegno al servizio di Dio e degli uomini. L’umiltà non è l’atteggiamento di schiavi (da qui deriva la negatività del significato), ma di esseri umani liberi e pieni di amore.
 
Catechismo degli Adulti: Un commento alle beatitudini [857]:  «Beati i poveri in spirito» (Mt 5,3), cioè gli umili di cuore. I Padri della Chiesa di solito interpretano la povertà in spirito come umiltà: «Aggiunse “in spirito”, perché si intendesse l’umiltà, non la penuria». Abbastanza spesso però vi includono anche il distacco interiore dalla ricchezza e la povertà volontaria: «Non si tratta di poveri in rapporto alla ricchezza, ma di coloro che hanno scelto la povertà interiormente». Si tratta sostanzialmente di un atteggiamento di abbandono fiducioso in Dio, che implica libertà da se stessi e dalle cose, solidarietà con i poveri. Gli umili sono felici dei beni che ricevono e più ancora di riceverli da Dio. Si accettano come sono, lieti anche della loro debolezza, che consente alla forza di Dio di manifestarsi. Non si deprimono nelle difficoltà. Sanno valorizzare tutte le possibilità di bene. Non si lasciano possedere dalle cose: «Ho imparato ad essere povero e ho imparato ad essere ricco» (Fil 4,12). Tuttavia sanno che una certa disponibilità di beni materiali è necessaria alla crescita della persona umana; quindi, per amore dei fratelli, lottano contro la miseria e l’ingiustizia. In tutto il loro comportamento seguono Cristo, il quale per salvarci, «da ricco che era, si è fatto povero» (2Cor 8,9), si è svuotato di se stesso per obbedire in ogni cosa al disegno del Padre.
 
La via dell’umiltà: “Scrivi che sei innamorato dell’umiltà e desideri apprendere il modo come averne da Dio la grazia. Se dunque vuoi davvero fugare la superbia e ottenere il dono beato dell’umiltà non trascurare le cose che potranno aiutarti ad acquistarlo, anzi metti in opera tutte le cose che ne favoriscono la crescita. L’anima infatti si adatta alle cose che ama e prende sempre più la somiglianza delle cose che fa spesso. Abbi, allora, la persona, gli indumenti, il modo di camminare, la sedia, il cibo, il letto, in una parola, tutto, di stampo frugale; perfino il discorso, il movimento del corpo, la conversazione; e queste cose devono tendere alla mediocrità e non alla distinzione. Sii buono e placido col fratello, dimentica le ingiurie degli avversari; sii umano e benevolo verso i più abietti, porta aiuto e sollievo ai malati, abbi riguardo per chi è colpito da dolori, avversità, afflizioni non disprezzare nessuno, sii dolce nella conversazione, lieto nelle risposte, onesto in tutto, disponibile a tutti” (Nilo di Ancira, Epist., 3,134).
 
Si compia in noi, o Signore,
la realtà significata dai tuoi sacramenti,
perché otteniamo in pienezza
ciò che ora celebriamo nel mistero.
Per Cristo nostro Signore.

 

 

 29 Ottobre 2021
 
Venerdì XXX Settimana T. O.
 
Rm 9,1-5; Sal 147; Lc 14,1-6
 
Il Santo del Giorno - 29 Ottobre 2021 - Sant’Abramo Anacoreta: Nacque da una ricca famiglia a Edessa, Siria. Gli fu imposto un matrimonio combinato in tenera età. Durante i festeggiamenti del matrimonio, Abraham fuggì. SI murò in una piccola cella poco lontano, lasciando un foro piccolo attraverso il quale la sua famiglia potè portargli cibo e acqua, e attraverso il quale potè spiegare il suo desiderio di una vita religiosa. La sua famiglia cedette, il matrimonio fu revocato, e così Abraham passò i successivi dieci anni rinchiuso nella sua cella. Dopo un decennio di una vita da recluso, il vescovo di Edessa, contro i desideri stessi di Abraham, lo ordinò sacerdote e gli impose di partire missionario presso il villaggio intransigentemente pagano di Beth-Kiduna. Qui, Abraham riuscì a costruire una chiesa, a cancellare idoli, soffrì abusi e violenze, e col suo buon esempio riuscì a convertire il villaggio intero. Un anno dopo, dopo aver pregato ardentemente che Dio mandasse in quel posto in sua vece un pastore migliore di lui, fece ritorno alla sua cella. E’ proprio dalla popolarità che conquistò in Kiduna che divenne famoso come Kidunaia (Qidonaya).
Lasciò la sua cella solamente altre due volte nella sua vita. Una volta una sua nipote, Santa Maria di Edessa, viveva una vita dissoluta. Abraham si travestì da soldato, seppe attirare l’attenzione di Maria e farsi accogliere in casa sua. Durante la cena riuscì a convincerla che viveva nel peccato e nell’errore, la convertì e da allora la vita di Maria cambiò. Dopo di che ritornò alla sua cella. La sua ultima uscita fu al suo funerale, al quale partecipò una gran folla di persone che lo amavano e piangevano per lui. La sua biografia fu scritta dal suo amico Sant’Ephrem. (Autore: Piero Stradella)
 
Colletta: Dio onnipotente ed eterno, accresci in noi la fede, la speranza e la carità, e perché possiamo ottenere ciò che prometti, fa’ che amiamo ciò che comandi. Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Nostra aetate 4: Come attesta la sacra Scrittura, Gerusalemme non ha conosciuto il tempo in cui è stata visitata; gli Ebrei in gran parte non hanno accettato il Vangelo, ed anzi non pochi si sono opposti alla sua diffusione. Tuttavia secondo l’Apostolo, gli Ebrei, in grazia dei padri, rimangono ancora carissimi a Dio, i cui doni e la cui vocazione sono senza pentimento. Con i profeti e con lo stesso Apostolo, la Chiesa attende il giorno, che solo Dio conosce, in cui tutti i popoli acclameranno il Signore con una sola voce e «lo serviranno sotto uno stesso giogo» (Sof 3,9).
Essendo perciò tanto grande il patrimonio spirituale comune a cristiani e ad ebrei, questo sacro Concilio vuole promuovere e raccomandare tra loro la mutua conoscenza e stima, che si ottengono soprattutto con gli studi biblici e teologici e con un fraterno dialogo.
E se autorità ebraiche con i propri seguaci si sono adoperate per la morte di Cristo, tuttavia quanto è stato commesso durante la sua passione, non può essere imputato né indistintamente a tutti gli Ebrei allora viventi, né agli Ebrei del nostro tempo.
E se è vero che la Chiesa è il nuovo popolo di Dio, gli Ebrei tuttavia non devono essere presentati come rigettati da Dio, né come maledetti, quasi che ciò scaturisse dalla sacra Scrittura. Curino pertanto tutti che nella catechesi e nella predicazione della parola di Dio non si insegni alcunché che non sia conforme alla verità del Vangelo e dello Spirito di Cristo.
La Chiesa inoltre, che esecra tutte le persecuzioni contro qualsiasi uomo, memore del patrimonio che essa ha in comune con gli Ebrei, e spinta non da motivi politici, ma da religiosa carità evangelica, deplora gli odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell’antisemitismo dirette contro gli Ebrei in ogni tempo e da chiunque. In realtà il Cristo, come la Chiesa ha sempre sostenuto e sostiene, in virtù del suo immenso amore, si è volontariamente sottomesso alla sua passione e morte a causa dei peccati di tutti gli uomini e affinché tutti gli uomini conseguano la salvezza. Il dovere della Chiesa, nella sua predicazione, è dunque di annunciare la croce di Cristo come segno dell’amore universale di Dio e come fonte di ogni grazia.
 
I Lettura: Paolo, «Israelita, della discendenza di Abramo, della tribù di Beniamino» (Rom 11,1; cfr. 2Cor 11,22), ama il suo popolo, lo stima, anche se, proprio dai suoi connazionali, dovrà subire persecuzioni e umiliazioni. L’Apostolo tenterà il tutto per il tutto per convincere Israele ad aderire al Vangelo, ma il rifiuto, sopra tutto dei capi religiosi, sarà netto (cfr. Atti 13,44-46). Paolo, però, dinanzi a tanta testardaggine, non disarma: pur di salvare Israele è disponibile ad essere anche anàtema, cioè di essere maledetto, separato da Cristo, raschiato dal libro della vita (cfr. Es 32,32). La parola greca anáthema traduce nella versione dei Settanta quella ebraica herem che indica una cosa offerta a Dio (cfr. Dt 7,26; Lev 27,28). Solo successivamente arrivò a diventare sinonimo di maledizione (cfr. Zac 14,11). In questo modo, stando al primo significato, il gettito della vita, da parte dell’Apostolo, suona come un’offerta totale sull’esempio del Cristo (cfr. Gal 3,13; 2Tm 4,6). La lezione è per tutti i credenti: invece di maledire e creare steccati, dovrebbero seguire l’esempio dell’apostolo delle Genti.
 
Vangelo: Gesù accettando di entrare «in casa di uno dei capi dei farisei per pranzare» fa bene intendere che la sua opposizione verso di essi non è per partito preso o per pregiudizi, ma che si fonda su ragioni molto più profonde delle solite diatribe scolastiche (cfr. Mt 23,13-36; Lc 11,37-52). C’è da ricordare che quel giorno era un sabato e Gesù, appena entrato in casa del fariseo, guarisce un idropico. Una guarigione che è accettata unanimemente anche se malvolentieri. Tutto questo costituiva una miscela esplosiva, i farisei non demordono e sono così eternamente alla ricerca di qualcosa per potere incastrare il giovane Rabbi di Nazaret.
 
Dal Vangelo secondo Luca 14,1-6: Un sabato Gesù si recò a casa di uno dei capi dei farisei per pranzare ed essi stavano ad osservarlo. Ed ecco, davanti a lui vi era un uomo malato di idropisia. Rivolgendosi ai dottori della Legge e ai farisei, Gesù disse: “È lecito o no guarire di sabato?” Ma essi tacquero. Egli lo prese per mano, lo guarì e lo congedò. Poi disse loro: “Chi di voi, se un figlio o un bue gli cade nel pozzo, non lo tirerà fuori subito in giorno di sabato?”. E non potevano rispondere nulla a queste parole.
 
Un sabato Gesù accetta di andare a pranzare in casa di uno dei capi dei farisei. Non si conosce il motivo dell’invito, ma la nota essi stavano ad osservalo potrebbe rivelarlo. I farisei tallonavano Gesù per metterlo alla prova e trarlo in errore, ma spesso non uscivano allo scoperto perché avevano paura della folla (Mt 21,26), ora può essere osservato con più calma.
Gesù non ha mai lesinato di sottoporre la mentalità e la vita dei Farisei a una dura critica: sferza la loro superbia (Lc 18,10-14), la loro avidità (Mt 12,40), la loro ambizione (Mt 23,5ss) e la loro ipocrisia (Mt 15,3-7). È in casa di uno dei capi dei farisei non per condannarli ma per guarirli: “Paradossalmente si può dire che Gesù ama i farisei più di tutti i peccatori, perché affetti dal peccato più tremendo e più nascosto che ci sia: quello che, sotto un manto di bene, si oppone direttamente a quel Dio che è grazia e misericordia” (Silvano Fausti. Una comunità legge il Vangelo di Luca).
Ed ecco, davanti a lui vi era un uomo malato di idropisia, forse era stato piazzato davanti a Gesù di proposito per provocare una sua reazione: e stavano a vedere se lo guariva in giorno di sabato, per poi accusarlo (Mc 3,2).
 È lecito o no guarire di sabato?”. Ma essi tacquero, i farisei conoscono la risposta, ma preferiscono il silenzio per indurre Gesù a uscire allo scoperto, e Gesù lo fa: Egli lo prese per mano, lo guarì e lo congedò.
Chi di voi, se un figlio o un bue gli cade nel pozzo, non lo tirerà fuori subito in giorno di sabato? (cfr. Mt 12,11; Lc 13,15). Con questa domanda Gesù spiazza i suoi interlocutori, come già aveva fatto tante altre volte: “Siete veramente abili nel rifiutare il comandamento di Dio per osservare la vostra tradizione” (Mc 7,9; cfr. Mt 15,2-3.6; Mc 7,8), i farisei così ancora una volta si trovano a corto di una risposta, difatti non potevano rispondere nulla a queste parole.
C’è tanta amarezza in questo confronto perché va considerato che i farisei hanno molte cose in comune con Gesù, e dai Vangeli viene messo in evidenza come Egli apprezzi la loro religiosità e perfino nelle controversie si preoccupi della loro salvezza. Ma la cecità, la superbia di sentirsi giusti e l’errata convinzione di essere gli unici custodi legittimi della Legge e della volontà di Dio ha fatto sì che essi si autoescludessero dall’entrare nel regno di Dio.
 
Gesù e la Legge - Catechismo della Chiesa Cattolica 581-582: Gesù è apparso agli occhi degli Ebrei e dei loro capi spirituali come un «rabbi». Spesso egli ha usato argomentazioni che rientravano nel quadro dell’interpretazione rabbinica della Legge. Ma al tempo stesso, Gesù non poteva che urtare i dottori della Legge; infatti, non si limitava a proporre la sua interpretazione accanto alle loro; «egli insegnava come uno che ha autorità e non come i loro scribi» (Mt 7,29). In lui, è la Parola stessa di Dio, risuonata sul Sinai per dare a Mosè la Legge scritta, a farsi di nuovo sentire sul monte delle beatitudini. Questa Parola non abolisce la Legge, ma la porta a compimento dandone in maniera divina l’interpretazione definitiva: «Avete inteso che fu detto agli antichi [...]; ma io vi dico» (Mt 5,33-34). Con questa stessa autorità divina, Gesù sconfessa certe «tradizioni degli uomini» care ai farisei i quali annullano la parola di Dio. Spingendosi oltre, Gesù dà compimento alla Legge sulla purità degli alimenti, tanto importante nella vita quotidiana giudaica, svelandone il senso «pedagogico» con una interpretazione divina: «Tutto ciò che entra nell’uomo dal di fuori non può contaminarlo [...]. Dichiarava così mondi tutti gli alimenti [...]. Ciò che esce dall’uomo, questo sì contamina l’uomo. Dal di dentro infatti, cioè dal cuore dell’uomo, escono le intenzioni cattive» (Mc 7,18-21). Dando con autorità divina l’interpretazione definitiva della Legge, Gesù si è trovato a scontrarsi con certi dottori della Legge, i quali non accettavano la sua interpretazione, sebbene fosse garantita dai segni divini che la accompagnavano. Ciò vale soprattutto per la questione del sabato: Gesù ricorda, ricorrendo spesso ad argomentazioni rabbiniche, che il riposo del sabato non viene violato dal servizio di Dio o del prossimo, servizio che le guarigioni da lui operate compiono.
 
Un sabato Gesù si recò a casa di uno dei capi dei farisei… - Alice Baum: Il Nuovo Testamento dipinge i farisei come i veri e propri avversari di  Gesù; va però considerato, d’altro canto, che Gesù ha molto in comune con i farisei, che egli prende sul serio la loro religiosità e perfino nelle dispute si preoccupa di loro. Il conflitto nasce da una differente posizione nei confronti della Legge. Per Gesù (e per il cristianesimo primitivo - Paolo) la Torah non poteva essere considerata una necessità assoluta per la salvezza. Non la “tradizione dei padri” ma Gesù era l’interprete autentico della volontà assoluta di Dio. Di qui la sua libertà sovrana di fronte alla Legge, cosa che per la credenza dei farisei nell’origine divina della Torah non era possibile imitare. La seconda causa del conflitto era la distanza dei farisei da tutte le attese messianico-escatologiche imminenti, cosicché la pretesa messianica che Gesù avanzava con la parola e l’azione era per loro inaccettabile. Certo, nella concezione della Legge dei farisei c’era il pericolo di una religiosità esteriorizzata, e non di rado vi ci sono caduti. I rimproveri che il Nuovo Testamento solleva contro di loro si trovano anche negli scritti rabbinici.
Tuttavia dedurre dalla radicalizzazione e dalla polemica inasprita del Nuovo Testamento che i farisei fossero tutti indistintamente degli ipocriti e il fariseismo soltanto un adempimento esteriore della Legge, contraddice i dati di fatto storici. Diversamente non avrebbe potuto dar vita alle grandi figure del periodo post-biblico e vitalizzare con una nuova linfa il giudaismo successivo al 70 d.C. e al 135 d.C. 71.
 
Ireneo (Contro le eresie, 4,11-13.15.16): Il Signore non ha abrogato, ma ha ampliato e completato i precetti naturali della legge, quelli cioè che giustificano l’uomo, e che venivano osservati anche prima della legge da coloro che erano giusti per la loro fede e piacevano a Dio. Risulta chiaro dalle sue parole: È stato detto agli antichi: Non commettere adulterio. Ma io dico a voi: Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore (Mt 5,27-28). E ancora: È stato detto: Non uccidere. Ma io vi dico: Chiunque si adira con suo fratello senza motivo è passibile di condanna (Mt 5,21-22). E ancora: È stato detto: Non spergiurare... Ma io vi dico di non giurare mai. Il vostro sì, sia un sì; il vostro no, un no (Mt 5,33-37). E altre espressioni simili. Tutti questi precetti non sono contrari e non aboliscono i precedenti, come vanno dicendo i seguaci di Marcione, ma li dilatano ed estendono, come il Signore stesso ha detto: Se la vostra giustizia non è superiore a quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli (Mt 5,20).
 
Si compia in noi, o Signore,
la realtà significata dai tuoi sacramenti,
perché otteniamo in pienezza
ciò che ora celebriamo nel mistero.
Per Cristo nostro Signore