1 Maggio 2021
 
San Giuseppe Lavoratore
 
Gen 1,26-2,3 oppure Col 3,14-15.17.23-24; Sal 89 (90); Mt 13,54-58
 
 Il santo del Giorno - 1 Maggio 2021 - San Giuseppe Lavoratore - Il 1° maggio, prima di diventare in Europa la “Festa del Lavoro”, fu per lungo tempo, alla fine del XIX secolo e all’inizio del XX, una giornata di rivendicazioni e spesso di lotte per la promozione della classe lavoratrice. A questo richiamo non poteva rimanere insensibile la Chiesa, che i papi Pio IX e Leone XIII col loro magistero via via aprivano ai problemi del mondo del lavoro. Pio XII istituì questa memoria liturgica, per dare una dimensione cristiana a questo giorno, mettendola sotto il patrocinio di S. Giuseppe lavoratore (1955). San Giovanni XXIII rese omaggio a san Giuseppe, all’esemplare maestro di vita cristiana, all’uomo laborioso, onesto, fedele alla parola di Dio, obbediente, virtù che il Vangelo sintetizza con due parole:  “uomo giusto”. “I proletari e gli operai - scriveva Leone XIII - hanno come diritto speciale a ricorrere a S. Giuseppe e a proporsi la sua imitazione. Giuseppe infatti, di stirpe regale, unito in matrimonio con la più grande e la più santa delle donne, considerato come il padre del Figlio di Dio, passa ciò nonostante la sua vita a lavorare e chiede al suo lavoro di artigiano tutto ciò che è necessario al mantenimento della famiglia». Il lavoro nell’insegnamento della Chiesa non è un castigo, eleva l’uomo riconducendolo nella vocazione primaria voluta dal suo Creatore. L’uomo infatti, “creato ad immagine di Dio, ha ricevuto il comando di sottomettere a sé la terra con tutto quanto essa contiene, e di governare il mondo nella giustizia e nella santità, e così pure di riferire a Dio il proprio essere e l’universo intero, riconoscendo in lui il Creatore di tutte le cose; in modo che, nella subordinazione di tutta la realtà all’uomo, sia glorificato il nome di Dio su tutta la terra” (Gaudium et spes 4).
 
Colletta: O Dio, che hai chiamato l’uomo a cooperare con il lavoro al disegno della tua creazione, fa’ che per l’esempio e l’intercessione di san Giuseppe siamo fedeli ai compiti che ci affidi, e riceviamo la ricompensa che ci prometti. Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
San Giuseppe sposo di Beata Vergine Maria e Patrono della Chiesa Universale: Benedetto XVI (Angelus 19 Marzo 2006): La figura di questo grande Santo, pur rimanendo piuttosto nascosta, riveste nella storia della salvezza un’importanza fondamentale. Anzitutto, appartenendo egli alla tribù di Giuda, legò Gesù alla discendenza davidica, così che, realizzando le promesse sul Messia, il Figlio della Vergine Maria può dirsi veramente “figlio di Davide”. Il Vangelo di Matteo, in modo particolare, pone in risalto le profezie messianiche che trovarono compimento mediante il ruolo di Giuseppe: la nascita di Gesù a Betlemme (2,1-6); il suo passaggio attraverso l’Egitto, dove la santa Famiglia si era rifugiata (2,13-15); il soprannome di “Nazareno” (2,22-23). In tutto ciò egli si dimostrò, al pari della sposa Maria, autentico erede della fede di Abramo: fede nel Dio che guida gli eventi della storia secondo il suo misterioso disegno salvifico. La sua grandezza, al pari di quella di Maria, risalta ancor più perché la sua missione si è svolta nell’umiltà e nel nascondimento della casa di Nazaret. Del resto, Dio stesso, nella Persona del suo Figlio incarnato, ha scelto questa via e questo stile nella sua esistenza terrena. Dall’esempio di San Giuseppe viene a tutti noi un forte invito a svolgere con fedeltà, semplicità e modestia il compito che la Provvidenza ci ha assegnato. Penso anzitutto ai padri e alle madri di famiglia, e prego perché sappiano sempre apprezzare la bellezza di una vita semplice e laboriosa, coltivando con premura la relazione coniugale e compiendo con entusiasmo la grande e non facile missione educativa. Ai Sacerdoti, che esercitano la paternità nei confronti delle comunità ecclesiali San Giuseppe ottenga di amare la Chiesa con affetto e piena dedizione, e sostenga le persone consacrate nella loro gioiosa e fedele osservanza dei consigli evangelici di povertà, castità e obbedienza. Protegga i lavoratori di tutto il mondo, perché contribuiscano con le loro varie professioni al progresso dell’intera umanità, e aiuti ogni cristiano a realizzare con fiducia e con amore la volontà di Dio, cooperando così al compimento dell’opera della salvezza.
 
Vangelo Gesù insegnava nella sinagoga di Nazaret, e la gente, pur rimanendo stupita delle sue parole, restava dubbiosa, infatti si chiedeva: Da dove gli vengono questa sapienza? I compatrioti di Gesù credevano di conoscere tutto della sua vita, parenti, amici, familiari, eppure c’era qualcosa che a loro sfuggiva e non potendo dare una risposta alle loro domande si scandalizzavano per il suo modo di agire. Albagia, incredulità, scandalo... velenose piante che cresceranno rigogliose anche in alcune comunità cristiane, e che continuano ancora oggi ad avvelenare il cuore di molti credenti. Matteo annota alla fine che Gesù a causa della loro incredulità non fece molti prodigi, una lezione chiara anche per i nostri tempi: non avvengono miracoli perché non c’è fede, il vero problema sta proprio nel fatto che in molti cuori si è spenta la fede, ed è da questo buio che nasce il rifiuto del Cristo.
 
Dal Vangelo secondo Matteo 13,54-58: In quel tempo Gesù venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: “Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?”. Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: “Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua”. E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi.
 
Felipe F. Ramos (Vangelo secondo Matteo): La presentazione «ufficiale» di Gesù nella sinagoga del suo paese, a Nazaret, fu un insuccesso. Dalla sorpresa iniziale per i suoi insegnamenti i suoi conterranei giunsero fino allo scandalo; e la loro incredulità tagliò tutte le vie alla parola e persino al miracolo.
Il nostro racconto è parallelo a quello di Marco (6,1-6) dal quale dipende. Matteo introduce due cambiamenti: a) invece di chiamare Gesù «carpentiere», lo presenta come «figlio del carpentiere», forse per conferire maggior dignità a Gesù affermando che, dal momento in cui cominciò a predicare, cessò d’essere un lavoratore del legno; b) attenua la frase di Marco: «non vi poté operare nessun prodigio» dicendo che «non fece molti miracoli». Questa differenza fra i due evangelisti si può giustificare tenendo conto dei loro diversi punti di vista. Marco raccoglie la mentalità, generalizzata nella Bibbia, secondo la quale Dio è vicino a coloro che lo invocano, e quindi il suo inviato può agire solo là dove trova la fede. Per Matteo, questo vorrebbe dire condizionare eccessivamente il potere di Gesù, il quale può compiere miracoli indipendentemente dai condizionamenti che l’uomo gli può imporre.
La frase più significativa di tutto il brano evangelico è la seguente: si scandalizzavano per causa sua. Con essa l’evangelista ci introduce nel mistero di Gesù. L’atteggiamento dei nazaretani è rappresentativo di tutti coloro che cercano di comprendere Gesù partendo unicamente da quello che si può sapere di lui: è del nostro stesso paese, è figlio del carpentiere, conosciamo la sua famiglia, non ha frequentato l’università... Tentar di spiegare il mistero di Gesù, partendo da tutte le possibilità e da tutti gli aspetti umani vuol dire cacciarsi in un vicolo chiuso. Quello che è detto dei suoi concittadini, è già stato detto anche dei «suoi»: lo considerarono come pazzo (Mc 3,21). La stessa cosa e detta anche dei discepoli, e la ripeterà san Paolo parlando dello scandalo della croce (Mc 14,27-29; 1Cor 1,23). Gesù fu incompreso e disprezzato (Is 50,6: Mt 27,27-31.39-4,4; Eb 12,2). Non avrebbe avuto una sorte migliore, se si fosse tenuto al semplice livello dei profeti. Il profeta porta con sé l’incomprensione. Tanto più la porta in sé il profeta (Dt 18,15) che in più è il servo di Yahveh. Ma anche qui si dovrebbe ricordare la sentenza di Gesù: «Alla sapienza è stata resa giustizia dalle sue opere» (11,19).
 
Il lavoro come ogni onesta attività umana è sacro: Paolo VI (Omelia, 1 maggio 1968): Eccoci a celebrare insieme il primo maggio, la festa del lavoro. È una festa nuova, che ha trovato posto nel calendario religioso in questi ultimi tempi; ed è chiaro che la Chiesa, introducendola nella serie delle sue sacre celebrazioni, manifesta un’intenzione redentrice, quasi un desiderio di ricupero, e certamente uno scopo santificatore. S’era prodotto un distacco in questi ultimi secoli fra la psicologia del lavoro e quella religiosa, un distacco che ha avuto grandi ripercussioni sociali, e che ancora tiene lontane dalla fede tante folle di uomini e di donne, che fanno del lavoro non solo la loro professione, ma altresì la loro qualifica spirituale, l’espressione della loro suprema concezione della vita, in opposizione a quella cristiana. È questo uno dei più grandi malintesi della società moderna, e che tutti oramai dovrebbero sapere risolvere da sé, non solo a lode della verità, ma a tutto vantaggio altresì del lavoro stesso e dei lavoratori, che della fatica e dell’attività produttiva portano nella loro vita l’impronta distintiva. Infatti, per ciò che riguarda il lavoro, il pensiero cristiano, e per esso la Chiesa, lo considera come espressione delle facoltà umane, e non soltanto di quelle fisiche, ma altresì di quelle spirituali, che imprimono nell’opera manuale il segno della personalità umana, e perciò il suo progresso, la sua perfezione, e alla fine la sua utilità economica e sociale. Il lavoro è l’esplicazione normale delle facoltà umane, fisiche, morali, spirituali! e riveste perciò la dignità, il talento, il genio perfettivo e produttivo dell’uomo. Ne esplica la sua fondamentale pedagogia, ne segna la statura del suo sviluppo. Obbedisce al disegno primigenio di Dio creatore, che volle l’uomo esploratore, conquistatore, dominatore della terra, dei suoi tesori, delle sue energie, dei suoi secreti. Non è perciò il lavoro, di per sé, un castigo, una decadenza, un giogo di schiavo, come lo consideravano gli antichi, anche i migliori; ma è l’espressione del naturale bisogno dell’uomo di esercitare le sue forze e di misurarle con le difficoltà delle cose, per ridurle al suo servizio; è l’esplicazione libera e cosciente delle facoltà umane, delle mani dell’uomo guidate dalla sua intelligenza. È nobile perciò il lavoro, e, come ogni onesta attività umana, è sacro.

Il lavoro espressione dell’amore: Giovanni Paolo II (Redemptoris Custos, 22-24): Espressione quotidiana di questo amore nella vita della Famiglia di Nazaret è il lavoro. Il testo evangelico precisa il tipo di lavoro, mediante il quale Giuseppe cercava di assicurare il mantenimento alla Famiglia: quello di carpentiere. Questa semplice parola copre l’intero arco della vita di Giuseppe. Per Gesù sono questi gli anni della vita nascosta, di cui parla l’Evangelista dopo l’episodio avvenuto al tempio: «Partì dunque con loro e tornò a Nazaret e stava loro sottomesso» (Lc 2,51) Questa «sottomissione», cioè l’obbedienza di Gesù nella casa di Nazaret, viene intesa anche come partecipazione al lavoro di Giuseppe. Colui che era detto il «figlio del carpentiere» aveva imparato il lavoro dal suo «padre» putativo. Se la Famiglia di Nazaret nell’ordine della salvezza e della santità è l’esempio e il modello per le famiglie umane, lo è analogamente anche il lavoro di Gesù a fianco di Giuseppe carpentiere. Nella nostra epoca la Chiesa ha messo questo in rilievo pure con la memoria liturgica di san Giuseppe artigiano, fissata al primo maggio. Il lavoro umano e, in particolare, il lavoro manuale trovano nel Vangelo un accento speciale. Insieme all’umanità del Figlio di Dio esso è stato accolto nel mistero dell’Incarnazione, come anche è stato in particolare modo redento. Grazie al banco di lavoro presso il quale esercitava il suo mestiere insieme con Gesù, Giuseppe avvicinò il lavoro umano al mistero della Redenzione. Nella crescita umana di Gesù «in sapienza, in età e in grazia» ebbe una parte notevole la virtù della laboriosità, essendo «il lavoro un bene dell’uomo» che «trasforma la natura» e rende l’uomo «in un certo senso più uomo» («Laborem Exersens», 9). L’importanza del lavoro nella vita dell’uomo richiede che se ne conoscano ed assimilino i contenuti «per aiutare tutti gli uomini ad avvicinarsi per il suo tramite a Dio, creatore e redentore, a partecipare ai suoi piani salvifici nei riguardi dell’uomo e del mondo e per approfondire nella loro vita l’amicizia con Cristo, assumendo mediante la fede viva una partecipazione alla sua triplice missione: di sacerdote, di profeta e di re» [...]. Si tratta, in definitiva, della santificazione della vita quotidiana, che ciascuno deve acquisire secondo il proprio stato e che può esser promossa secondo un modello accessibile a tutti: «San Giuseppe è il modello degli umili che il cristianesimo solleva a grandi destini; San Giuseppe è la prova che per essere buoni ed autentici seguaci di Cristo non occorrono “grandi cose”, ma si richiedono solo virtù comuni, umane, semplici, ma vere ed autentiche».
 
San Giuseppe figura degli apostoli: (Ilario di Poitiers, In Matth., 2, 1): In seguito, morto Erode, Giuseppe è avvertito da un angelo di riportarsi in Giudea con il bambino e sua madre. Nel far ritorno, avendo appreso che il figlio di Erode, Archelao, era re, ebbe paura di andarvi, e venne ancora avvertito da un angelo di passare in Galilea e di fissare la sua dimora in una cittadina di quella regione, Nazareth (cfr. Mt 2,22-23). Così, egli riceve avviso di far ritorno in Giudea e, ritornato, ha paura. E, ricevuto nuovo avviso in sogno, ha l’ordine di recarsi in paese di pagani. Tuttavia, non avrebbe dovuto aver paura, dal momento che aveva ricevuto un avvertimento, oppure l’avvertimento che in seguito sarebbe stato modificato non avrebbe dovuto essere apportato da un angelo. Ma è stata osservata una ragione tipologica. Giuseppe è figura degli apostoli, ai quali è stato affidato Cristo per essere portato dovunque. Siccome Erode passava per morto, cioè il suo popolo si era perduto in occasione della Passione del Signore, essi hanno ricevuto il comando di predicare ai Giudei. Erano infatti stati inviati alle pecore perdute della casa d’Israele (cfr. Mt 15,24), ma, permanendo il dominio dell’incredulità ereditaria, essi temono e si ritirano. Avvertiti da un sogno, ovvero contemplando nei pagani il dono dello Spirito Santo (cfr. Gl 2,28-31), portano Cristo a questi ultimi, pur essendo stato inviato alla Giudea, chiamato però vita e salvezza dei pagani.
 
O Signore, che ci hai nutriti con il pane del cielo,
fa’ che, sull’esempio di san Giuseppe,
conserviamo nei nostri cuori la memoria del tuo amore,
per godere il frutto della pace senza fine.
Per Cristo nostro Signore.

 

 30 Aprile 2021
 
Venerdì IV Settimana di Pasqua
 
 At 13,26-33; Sal 2; Gv 14,1-6
 
Il Santo del giorno - 30 Aprile 2021 - San Giuseppe Benedetto Cottolengo: Giuseppe Benedetto Cottolengo nacque a Bra (Cuneo) il 3 maggio 1786, primogenito di dodici fratelli, da un modesto esattore del pubblico erario. Dalla mamma ereditò quel tenero amore per i poveri e i malati che lo contraddistinse per l’intera vita. Divenuto sacerdote a Torino, aprì nella regione di Valdocco le Piccole Case della Divina Provvidenza, prima per i malati rifiutati da tutti, poi per “famiglie” di handicappati, orfani, ragazze in pericolo e invalidi. Le Piccole Case, oltre a dare rifugio e assistenza materiale, tendevano a costruire una identità umana e cristiana nelle persone completamente emarginate. Con Giuseppe nacquero i preti della Santissima Trinità, varie famiglie di suore, i fratelli di S. Vincenzo, il seminario dei Tommasini. Apostolo, asceta, penitente, mistico, egli portò nelle sue case una vita spirituale intensa. Devotissimo alla Madonna, quando era a corto di viveri o di soldi, il santo era solito inginocchiarsi ai piedi della Vergine ed ottenere così infallibilmente tutto quanto gli occorreva. Fu formatore di vita religiosa e precursore dell’assistenza ospedaliera. Il 21 aprile 1842 affidò al Canonico Luigi Anglesio la direzione della sua opera per potersi ritirare presso il fratello, canonico nella collegiata di Chieri. In tale città morì santamente il 30 aprile 1842 nel letto che dodici ani prima si era fatto preparare, dopo aver esclamato: “Mi sono rallegrato perché mi è stato detto: Andiamo nella casa del Signore”.
 
Colletta: O Dio, autore della nostra libertà e della nostra salvezza, esaudisci le preghiere di chi ti invoca, e fa’ che i redenti dal Sangue del tuo Figlio vivano per te e godano della beatitudine eterna. Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me: Credere in un solo Dio: Catechismo della Chiesa Cattolica 150-151: La fede è innanzi tutto una adesione personale dell’uomo a Dio; al tempo stesso ed inseparabilmente, è l’assenso libero a tutta la verità che Dio ha rivelato. In quanto adesione personale a Dio e assenso alla verità da Lui rivelata, la fede cristiana differisce dalla fede in una persona umana. È bene e giusto affidarsi completamente a Dio e credere assolutamente a ciò che Egli dice. Sarebbe vano e fallace riporre una simile fede in una creatura. Per il cristiano, credere in Dio è inseparabilmente credere in Colui che Egli ha mandato, “il suo Figlio prediletto” nel quale si è compiaciuto (Mc 1,11); Dio ci ha detto di ascoltarlo. Il Signore stesso dice ai suoi discepoli: “Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me” (Gv 14,1). Possiamo credere in Gesù Cristo perché Egli stesso è Dio, il Verbo fatto carne: “Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, Lui lo ha rivelato” (Gv 1,18). Poiché Egli “ha visto il Padre” (Gv 6,46 ), è il solo a conoscerlo e a poterlo rivelare.
 
I Lettura:  Paolo ripercorre le vicende terrene di Gesù di Nazaret: “gli abitanti di Gerusalemme ... non hanno riconosciuto lui né le Scritture, e (le) hanno adempiute condannandolo a morte” (Bibbia di Gerusalemme). La morte di Gesù, innocente e condannato ingiustamente a una morte atroce e ripugnante, è il tema ricorrente nella predicazione degli Apostoli.
 
Vangelo: Gli Apostoli sono turbati perché Gesù ha preannunziato loro il tradimento di Giuda e quello di Pietro. Per rincuorarli li incoraggia dicendo che va a preparare loro una dimora nei Cieli, poiché, nonostante le povertà e i vacillamenti, essi saranno perseveranti fino alla fine. Parole e promessa che travalicano i secoli e raggiungono il cuore di tutti gli Apostoli, di ieri, di oggi, di domani... nonostante tutto, per il sangue di Gesù versato per la nostra salvezza, le porte del Cielo resteranno per sempre spalancate.
 
Dal Vangelo secondo Giovanni 14,1-6: In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: Vado a prepararvi un posto? Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi. E del luogo dove io vado, conoscete la via». Gli disse Tommaso: «Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?». Gli disse Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me».
 
«Non sia turbato il vostro cuore»: la passione è imminente, Gesù ha preconizzato il tradimento di Giuda, il rinnegamento di Pietro; l’atmosfera è satura di tristezza, di domande alle quali i discepoli non sanno dare risposte convincenti, si avverte un futuro prossimo di dolore e di angoscia, si respira un clima di attesa e di stupore.
Nell’espressione Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me (= Credete in Dio, e credete anche in me), tra le traduzioni possibili, i due verbi (credere) possono essere tradotti con il presente indicativo: Voi credete (già) in Dio e credete anche in me. Se così è, Gesù vuol dire ai suoi amici (Cf. Gv 15,15): voi già avete la fede, dovete semplicemente continuare a credere, non fermatevi davanti a quanto vi ho preannunziato (i due tradimenti e la sua morte) e a quelli che sto per svelarvi. Per Giovanni «la fede in Dio e in Gesù è una sola: se si scuote la fede in Dio, cede anche quella in Gesù. I discepoli sono invitati a continuare a tenersi saldi al Padre di Gesù. Gesù torna presso di Lui per preparare loro un posto» (Gianfranco Nolli).
Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore: Gesù non si discosta dal linguaggio comune dei suoi conterranei. Gli ebrei credono che in cielo vi siano le dimore dei giusti (Cf. Lc 16,9; Mc 10,40).
Gesù fa due promesse agli Apostoli: quella di preparare loro un posto nella casa del Padre e quella di ritornare per prenderli per sempre con lui. Anche questa promessa può avere diverse traduzioni: Gesù ritornerà alla morte di ogni singolo apostolo, giorno in cui ciascuno sarà accolto dal Signore e introdotto nella visione di Dio; oppure alla fine dei tempi (sarebbe un raro richiamo alla parusia (Cf. Gv 2,28); oppure dopo la morte, con la risurrezione. Probabilmente tutti e tre questi significati sono contemporaneamente presenti, secondo lo stile pregnante del quarto evangelista. Ma al di là del significato, Gesù sta assicurando ai suoi discepoli  che sarà con loro e rimarrà ad essi unito «tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20). Una promessa che si realizza nella Chiesa e soprattutto nel cuore di chi si apre a Lui, per mezzo della fede.
Voi conoscete la via: alla perplessità di Tommaso, Gesù si proclama «la via», cioè l’unico mediatore per giungere al Padre. Non si può «incontrare Dio e vivere in comunione con lui se non per mezzo di Gesù, in quanto è il Rivelatore definitivo che dona la vita per la salvezza del mondo. Le parole «la verità e la vita» hanno valore epesegetico: Gesù è la via, cioè il mediatore verso il Padre, perché ne è la rivelazione totale, l’epifania del suo amor salvifico [aletheia = verità], e comunica ai credenti la vita stessa del Padre, di cui è in pieno possesso» (Angelico Poppi).
 
Ermes Ronchi (19 Maggio 2011): Io sono la via: la strada per arrivare a casa, a Dio, al cuore, agli altri. Sono la strada: davanti non si erge un muro o uno sbarramento, ma orizzonti aperti e una meta. Sono la strada che non si smarrisce. Shakespeare scrive «la vita è una favola sciocca recitata da un idiota sulla scena, piena di rumore e di furore, ma che non significa nulla». Con Gesù la favola senza senso diventa la storia più ambiziosa del mondo, il sogno più grandioso mai sognato, la conquista di amore e libertà, di bellezza e di comunione: con Dio, con il cosmo con l’uomo.
Io sono la verità: non in una dottrina, in un libro, in una legge migliori delle altre, ma in un «io» sta la verità, in una vita, nella vita di Gesù, venuto a mostrarci il vero volto dell’uomo e di Dio. Il cristianesimo non è un sistema di pensiero o di riti, ma una storia e una vita (F. Mauriac).
Io sono: verità disarmata è il suo muoversi libero, regale e amorevole tra le creature.
Mai arrogante. La tenerezza invece, questa sorella della verità.
La verità sono occhi e mani che ardono! (Ch. Bobin). Così è Gesù: accende occhi e mani.
Io sono la vita. Che hai a che fare con me, Gesù di Nazareth? La risposta è una pretesa perfino eccessiva, perfino sconcertante: io faccio vivere. Parole enormi, davanti alle quali provo una vertigine. La mia vita si spiega con la vita di Dio. Nella mia esistenza più Dio equivale a più io. Più Vangelo entra nella mia vita più io sono vivo. Nel cuore, nella mente, nel corpo. E si oppone alla pulsione di morte, alla distruttività che nutriamo dentro di noi con le nostre paure, alla sterilità di una vita inutile.
 
Meravigliosa rivelazione: Catechismo degli Adulti 1233: «Disse Gesù: “Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me”» (Gv 14,6). Il Signore Gesù è l’unica via per arrivare al Padre, perché è la rivelazione di Dio in questo mondo e la comunicazione della sua vita agli uomini. È la via, perché è anche la meta: «Io e il Padre siamo una cosa sola» (Gv 10,30). L’originalità del cristianesimo è proprio questa: Dio si è fatto uomo e ci chiama a vivere eternamente con sé; si è donato nella storia, perché vuole donarsi nell’eternità. Le altre religioni intuiscono che esiste la divinità, sorgente misteriosa di ogni cosa; avvertono che, dopo la morte, ci deve essere un premio per i giusti e un castigo per i malvagi. Ma sono lontane dal pensare che Dio abbia condiviso personalmente la nostra condizione umana, legandosi a noi per sempre, e che il premio destinato ai giusti sia la partecipazione alla vita stessa di Dio.
 
Tutti sono chiamati alla casa del Padre - Agostino (In Ioan. 67, 2): Ma che cosa vogliono dire le parole che seguono: “Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore” (Gv 14,2)? È proprio perché i discepoli temevano anche per sé medesimi, che il Signore dice loro: «non si turbi il vostro cuore». E chi tra loro poteva evitare di esser colto da timore, dopo che Gesù aveva detto a Pietro, tra loro il più fiducioso e pronto: «Non canterà il gallo, che tu mi avrai rinnegato tre volte»? Giustamente si turbano, in quanto temono di perire lontano da lui. Ma quando ascoltano il Signore che dice: «Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore»; “se non fosse così ve lo avrei detto, perché vado a preparare un posto per voi (ibid)”, il loro turbamento si calma e sono sicuri e fiduciosi che, al di là dei pericoli della tentazione essi resteranno presso Dio, con Cristo.
Uno sarà più forte dell’altro, uno più sapiente, un altro più giusto, un altro ancora più santo; ma «nella casa del Padre vi sono molte dimore», nessuno di essi sarà tenuto fuori da quella casa, dove ognuno avrà, secondo i meriti, la sua dimora. Uguale denaro viene dato a tutti, quel denaro che il padre di famiglia ordina di dare a coloro che hanno lavorato nella vigna, senza far distinzione tra chi ha faticato di più e chi di meno. Questo denaro significa la vita eterna, dove nessuno vive più a lungo dell’altro, poiché nell’eternità non vi può essere una diversa durata della vita. E le molte dimore significano i diversi gradi di merito che vi sono nell’unica vita eterna. Uno è lo splendore del sole, un altro quello della luna, un altro ancora quello delle stelle: e una stella differisce dall’altra quanto a splendore. Così accade nella risurrezione dei morti (cf. 1Cor 15,41.42.48). Come le stelle nel cielo, i santi hanno nel regno dimore diverse per il loro fulgore; ma nessuno è escluso dal regno, poiché tutti hanno ricevuto la stessa mercede. E così Dio sarà tutto in tutti, in quanto, essendo Dio carità, per effetto di questa carità ciascuno avrà quello che hanno tutti. È così infatti che ognuno possiede, a motivo della carità, non le cose che ha veramente, ma le cose che ama negli altri. La diversità dello splendore non susciterà invidia, perché l’unità della carità regnerà in tutti e in ciascuno.
 
O Padre, che ci hai nutriti
con il Corpo e il Sangue del tuo Figlio,
prezzo del nostro riscatto,
concedi a noi di cooperare,
nella libertà e nella concordia, al tuo regno di giustizia e di pace.
Per Cristo nostro Signore.

 

 

29 Aprile 2021
 
Santa Caterina da Siena
 
Vergine e Dottore della Chiesa, Patrona d’Italia e d’Europa
 
1Gv 1,5-2,2; Sal 102 (103); Mt 11,25-30
 
Il Santo del Giorno - 29 Aprile 2021 - Santa Caterina da Siena, Vergine e Dottore della Chiesa - «Niuno Stato si può conservare nella legge civile in stato di grazia senza la santa giustizia»: queste alcune delle parole che hanno reso questa santa, patrona d’Italia, celebre. Nata nel 1347 Caterina non va a scuola, non ha maestri. I suoi avviano discorsi di maritaggio quando lei è sui 12 anni. E lei dice di no, sempre. E la spunta. Del resto chiede solo una stanzetta che sarà la sua “cella” di terziaria domenicana [o Mantellata, per l’abito bianco e il mantello nero]. La stanzetta si fa cenacolo di artisti e di dotti, di religiosi, di processionisti, tutti più istruiti di lei. Li chiameranno “Caterinati”. Lei impara a leggere e a scrivere, ma la maggior parte dei suoi messaggi è dettata. Con essi lei parla a papi e re, a donne di casa e a regine, e pure ai detenuti. Va ad Avignone, ambasciatrice dei fiorentini per una non riuscita missione di pace presso papa Gregorio XI. Ma dà al Pontefice la spinta per il ritorno a Roma, nel 1377. Deve poi recarsi a Roma, chiamata da papa Urbano VI dopo la ribellione di una parte dei cardinali che dà inizio allo scisma di Occidente. Ma qui si ammala e muore, a soli 33 anni. Sarà canonizzata nel 1461 dal papa senese Pio II. Nel 1939 Pio XII la dichiarerà patrona d’Italia con Francesco d’Assisi» (Avvenire)
 
Colletta: O Dio, che in santa Caterina [da Siena], ardente del tuo Spirito di amore, hai unito la contemplazione di Cristo crocifisso e il servizio della Chiesa, per sua intercessione concedi al tuo popolo di essere partecipe del mistero di Cristo, per esultare quando si manifesterà nella sua gloria. Egli è Dio, e vive e regna con te.    
 
Benedetto XVI (Udienza Generale 24 Novembre 2010): La dottrina di Caterina, che apprese a leggere con fatica e imparò a scrivere quando era già adulta, è contenuta ne Il Dialogo della Divina Provvidenza ovvero Libro della Divina Dottrina, un capolavoro della letteratura spirituale, nel suo Epistolario e nella raccolta delle Preghiere. Il suo insegnamento è dotato di una ricchezza tale che il Servo di Dio Paolo VI, nel 1970, la dichiarò Dottore della Chiesa, titolo che si aggiungeva a quello di Compatrona della città di Roma, per volere del Beato Pio IX, e di Patrona d’Italia, secondo la decisione del Venerabile Pio XII.
In una visione che mai più si cancellò dal cuore e dalla mente di Caterina, la Madonna la presentò a Gesù che le donò uno splendido anello, dicendole: “Io, tuo Creatore e Salvatore, ti sposo nella fede, che conserverai sempre pura fino a quando celebrerai con me in cielo le tue nozze eterne” (Raimondo da Capua, S. Caterina da Siena, Legenda maior, n. 115, Siena 1998). Quell’anello rimase visibile solo a lei. In questo episodio straordinario cogliamo il centro vitale della religiosità di Caterina e di ogni autentica spiritualità: il cristocentrismo. Cristo è per lei come lo sposo, con cui vi è un rapporto di intimità, di comunione e di fedeltà; è il bene amato sopra ogni altro bene.
Questa unione profonda con il Signore è illustrata da un altro episodio della vita di questa insigne mistica: lo scambio del cuore. Secondo Raimondo da Capua, che trasmette le confidenze ricevute da Caterina, il Signore Gesù le apparve con in mano un cuore umano rosso splendente, le aprì il petto, ve lo introdusse e disse: “Carissima figliola, come l’altro giorno presi il tuo cuore che tu mi offrivi, ecco che ora ti do il mio, e d’ora innanzi starà al posto che occupava il tuo” (ibid.). Caterina ha vissuto veramente le parole di san Paolo, “… non vivo io, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20).
Come la santa senese, ogni credente sente il bisogno di uniformarsi ai sentimenti del Cuore di Cristo per amare Dio e il prossimo come Cristo stesso ama. E noi tutti possiamo lasciarci trasformare il cuore ed imparare ad amare come Cristo, in una familiarità con Lui nutrita dalla preghiera, dalla meditazione sulla Parola di Dio e dai Sacramenti, soprattutto ricevendo frequentemente e con devozione la santa Comunione.
 
I Lettura: L’unione con Dio, che è luce, amore e verità, si riconosce dalla fede e dall’amore fraterno. Il peccato che assedia l’uomo non deve essere una forza destabilizzante: il cuore dell’uomo deve aprirsi alla certezza che Dio è fedele e giusto tanto da perdonargli i peccati e purificarlo da ogni iniquità. Giovanni parla qui di mancanze passeggere, sebbene la comunione con Dio comporti di per sé una vita santa e senza peccato.
 
Salmo: Eusebio: Sintesi dei benefici di Dio: perdona i nostri peccati per mezzo della propiziazione che è il Cristo; ti libera dalla morte dando per la tua morte il sangue del Figlio suo; ti corona della grazia d’adozione; ti dona la speranza della risurrezione col pegno dello Spirito. Tutto questo sono i doni dello sposo alla sposa, e questa non porta che la propria fede.
 
Vangelo: Nel brano evangelico si possono mettere in evidenza almeno tre temi. Il primo è quello dei piccoli, i quali proprio per la loro umiltà riescono a cogliere il mistero del Cristo. Il secondo tema è la rivelazione della divinità di Gesù: il Figlio conosce il Padre con la medesima conoscenza con cui il Padre conosce il Figlio. Il terzo tema è quello del giogo di Gesù che è dolce e sopportabile a differenza di quello imposto dai Farisei, insopportabile perché reso pesante da minuziose norme di fatto impraticabili.

Dal Vangelo secondo Matteo 11,25-30: In quel tempo Gesù disse: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo.
Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero».
 
Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra. - L’espressione «Signore del cielo e della terra», evoca l’azione creatrice di Dio (Cf. Gen 1,1). Il motivo della lode sta nel fatto che il Padre ha «nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le ha rivelate ai piccoli». Le cose nascoste «non si riferiscono a ciò che precede; si devono intendere invece dei “misteri del regno” in generale (Mt 13,11), rivelati ai “piccoli”, i discepoli [Cf. Mt 10,42], ma tenuti nascosti ai “sapienti”, i farisei e i loro dottori» (Bibbia di Gerusalemme).
Molti anni dopo Paolo ricorderà queste parole di Gesù ai cristiani di Corinto: «Considerate infatti la vostra chiamata, fratelli: non ci sono tra voi molti sapienti secondo la carne, non molti potenti, non molti nobili. Ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono, perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio» (1Cor 1,26-29).
La rivelazione della mutua conoscenza tra il Padre e il Figlio pone decisamente il brano evangelico in relazione «con alcuni passi della letteratura sapienziale riguardanti la sophia. Solo il Padre conosce il Figlio, come solo Dio la sapienza [Gb 28,12-27; Bar 3,32]. Solo il Figlio conosce il Padre, così come solo la sapienza conosce Dio [Sap 8,4; 9,1-18]. Gesù fa conoscere la rivelazione nascosta, come la sapienza rivela i segreti divini [Sap 9,1-18; 10,10] e invita a prendere il suo giogo su di sé, proprio come la sapienza [Prov 1,20-23; 8,1-36]» (Il Nuovo Testamento, Vangeli e Atti degli Apostoli).
Gesù nell’offrire ai suoi discepoli il suo giogo dolce fa emergere la «nuova giustizia» evangelica in netta contrapposizione con la giustizia farisaica fatta di precetti e di leggi; una giustizia ipocrita, strisciante da sempre in tutte le religioni, anche nel cuore di tanti cristiani. Il ristoro che Gesù dona a coloro che sono «stanchi e oppressi», in ogni caso, non esime chi si mette seriamente al suo seguito di accogliere, senza tentennamenti, la «clausola» che la sequela esige: rinnegare se stessi e portare la croce dietro di lui, ogni giorno (Cf. Lc 9,23), senza infingimenti o accomodamenti.
È la croce che diventa, per il Cristo come per il suo discepolo, motivo discriminante della vera sapienza, quella sapienza che agli occhi del mondo è considerata sempre «stoltezza» o «scandalo» (1Cor 1,17-31). Un carico, la croce di Cristo, che non soverchia le forze umane, non annienta l’uomo nelle sue aspettative, non lo umilia nella sua dignità di creatura, anzi lo esalta, lo promuove, lo avvia, «di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito Santo» (2Cor 3,18) ad un traguardo di felicità e di beatitudine eterna. La croce va quindi piantata al centro del cuore e della vita del credente.
Invece, molti cristiani tendono a porre al centro di tutto la loro vita, spesso disordinata; le loro scelte, non sempre in sintonia con la morale; o gusti o programmi e tentano di far ruotare attorno a questo centro anche l’intero messaggio evangelico, accettandolo in parte o corrompendolo o assoggettandolo ai propri capricci; da qui la necessità di imporre alla Bibbia, distinguo, precetti o nuove leggi, frutto della tradizione umana; paletti issati come muri di protezione per contenere la devastante e benefica azione esplosiva della Parola di Dio (Cf. Mc 7,8-9).
 
Umiltà - Gottfried Hierzenberger: Nell’Antico Testamento è un atteggiamento dello spirito che esplica i propri positivi effetti nei confronti di Dio e nei confronti dei propri simili. Nei confronti di Dio umiltà significa pietà, giustizia. Dio protegge gli umili (Mi 6,8), li consola (Is 57,15), li innalza (Sal 147,6) ed entra in comunione con loro (Sal 51,19), I superbi, invece, Dio li distrugge e dimostra che la loro apparente potenza è in realtà impotenza e nullità. Per mezzo dell’umiltà nei confronti dei propri simili si può trovare Dio (2Cr 16,12); in questo caso l’umiltà  è l’atteggiamento veramente umano del servire. Accanto all’atteggiamento dello spirito, l’umiltà  indica anche la situazione della piccolezza, della necessità o povertà, cosicché i poveri possono esser considerati gli umili. Questa concezione veterotestamentaria permane ancora nella beatitudine in Luca (6,20). Per il resto, invece, l’umiltà  nel Nuovo Testamento acquisisce una motivazione nuova e un significato più profondo, quale comportamento adeguato del redento.
1. L’irrompente  signoria di Dio richiama a un atteggiamento nuovo che Gesù stesso aveva vissuto in maniera esemplare (Mt 11,28s). Non è intesa come virtù nel senso di mansuetudine personale ma affonda le sue radici  nella di disponibilità attiva a servire nell’amore (Mc 10,45).
2. Ciò esige dal cristiano un cosciente abbassamento (Lc 14,11) del superbo e autoritario voler-vivere-di-se-stessi all’atteggiamento del bambino (Mt 18,3s). Ogni autoesaltazione è assurda (1Cor 1,28-31) di fronte alla colpa e ai limiti della propria fede (Rm 12,3); la consapevolezza di dipendere dalla pietà di Dio (Rm 3,21ss) deve portare a far proprio questo amore pietoso di Dio e di concretizzarlo (Col 3,12-14) nel servizio al prossimo (Rm 12,10) e al debole (Rm 14,1).
Detto ciò l’umiltà non ha nulla a che vedere con la debolezza o la passività, al contrario, essa esige pieno impegno al servizio di Dio e degli uomini. L’umiltà non è l’atteggiamento di schiavi (da qui deriva la negatività del significato), ma di esseri umani liberi e pieni di amore. 

L’umiltà del cuore - Origene (In Luc. 8, 5): Dice il Salvatore: Imparate da me che sono mite e umile di cuore, e troverete riposo alle anime vostre” (Mt 11,29). E se vuoi conoscere il nome di questa virtù, cioè come essa è chiamata dai filosofi, sappi che l’umiltà su cui Dio rivolge il suo sguardo è quella stessa virtù che i filosofi chiamano atyfìa, oppure metriòtes. Noi possiamo peraltro definirla con una perifrasi: l’umiltà è lo stato di un uomo che non si gonfia, ma si abbassa. Chi infatti si gonfia, cade, come dice l’Apostolo, «nella condanna del diavolo» - il quale appunto ha cominciato col gonfiarsi di superbia -; l’Apostolo dice: “Per non incappare, gonfiato d’orgoglio, nella condanna del diavolo” (1Tm 3,6).
 
O Signore,
questo cibo spirituale,
che fu nutrimento e sostegno di santa Caterina nella vita terrena,
comunichi a noi la tua vita immortale.
Per Cristo nostro Signore.

 

 

28 Aprile 2021

 Mercoledì IV Settimana di Pasqua
 
At 12,24-13,5; Sal 66 (67); Gv 12,44-50
 
Il Santo del Giorno: 28 Aprile 2021 - Beato Lucchese, Terziario: Lucchese nacque presso Poggibonsi (SI) lo stesso anno di S. Francesco d’Assisi (1181). In gioventù combatté per il partito dei Guelfi; ma poi, abbandonata la vita militare, si sposò con Bona Segni e si mise a commerciare in granaglie e fare il cambiavalute approfittando dei pellegrini che si recavano a Roma lungo la via Francigena. Nell’ottobre1212 Lucchese ebbe modo di ascoltare una predica di S. Francesco a S. Gimignano e da lì iniziò la sua conversione: risarcì tutti coloro che aveva impoveriti con i suoi traffici, fece penitenza, si mise al servizio dei frati, donò tutti i suoi beni e insieme alla moglie trasformò la sua casa in ospedale. Oltre all’amore verso il prossimo si distinse nella pratica della povertà e dell’umiltà. Quando S. Francesco tornò in Valdelsa, nel 1221, donò a questa coppia di sposi l’abito della Penitenza, facendone i primi Terziari francescani. Morì a Poggibonsi il 28 aprile 1260.

Colletta: O Dio, vita dei tuoi fedeli, gloria degli umili, beatitudine dei giusti, ascolta con bontà le preghiere del tuo popolo, perché coloro che hanno sete dei beni da te promessi siano sempre ricolmati dell’abbondanza dei tuoi doni. Per il nostro Signore Gesù Cristo.

Gesù è la luce: Paolo VI (Udienza Generale, 22 giugno 1966): Cristo è la sorgente della luce; è la luce. Ma come giunge a noi questa luce? Il Signore ha voluto stabilire un sistema, disporre un ordine, per cui la sua luce giungesse a noi mediante un servizio umano, mediante un riflesso qualificato e autorizzato, e cioè mediante il magistero e il ministero apostolico. Egli infatti disse agli Apostoli: «Voi siete la luce del mondo» (Mt 5,14); e mediante una trasparenza interiore di Cristo stesso, emanante dall’intero corpo mistico e visibile della Chiesa, quasi ch’essa fosse l’ostensorio di Cristo; così che è essa stessa chiamata «sacramento», segno sacro cioè e tramite dell’unione di Dio con l’umanità (cfr. Cost. Lumen Gentium, 1). «Chi ascolta voi, disse Gesù riferendosi ai discepoli elevati a funzioni gerarchiche, ascolta me; e chi disprezza voi, disprezza me» (Lc 10,16). Praticamente perciò noi non potremo arrivare a Cristo, se non cercandolo e trovandolo nella sua Chiesa. Ricordiamo ancora la famosa esortazione di S. Giovanni Crisostomo: «Non ti allontanare dalla Chiesa! Nulla è più forte di essa! La tua speranza è la Chiesa, il tuo rifugio è la Chiesa. Essa è più alta del cielo e più vasta della terra. Essa non invecchia mai, ma sempre vigoreggia». Un altro grande dottore orientale, Origene, fin dalla prima metà del terzo secolo, commentando la Genesi, diceva: «Se vogliamo essere noi pure come il cielo, avremo in noi i luminari che ci possono illuminare: Cristo e la sua Chiesa. Egli infatti è la luce del mondo, che illumina pure la Chiesa con la sua luce; ... e la Chiesa, preso il lume di Cristo, illumina tutti quelli che si trovano nella notte dell’ignoranza» (In Gen. Hom. 1, 5; P. G. 12, 150).

I Lettura: Lo Spirito Santo muove i passi dei missionari, suscita uomini atti alla diffusione del Vangelo ed elargisce carismi perché bene sia governata la Chiesa: “Il carisma proprio del dottore o didascalo lo rende adatto a dare ai fratelli un insegnamento morale e dottrinale basato normalmente sulla Scrittura [cfr. 1Cor 12-14]. I cinque profeti e dottori qui enumerati rappresentano il governo della chiesa di Antiochia” (Bibbia di Gerusalemme).

Salmo: Agostino: Faccia risplendere il suo volto su di noi. Hai impresso su di noi il tuo volto, ci hai fatti a tua immagine e somiglianza... non è bene che la tua immagine resti oscurata. Invia un raggio della tua sapienza, perché risplenda in noi la tua immagine. O anima riscattata dal sangue dell’Agnello immacolato, pensa a quanto vali. Portiamo in noi l’immagine del tuo volto: possa apparire come volto tuo; e se appare un po’ deformata dal mio peccato, riforma ciò che tu avevi formato.

Vangelo: Il dodicesimo capitolo del vangelo di Giovanni termina con l’ultimo discorso di Gesù sulla sua identità e il suo rapporto con il Padre. Tra il Padre e Gesù il legame è così profondo che vedere Gesù è vedere il Padre, e chi crede in Gesù crede in colui che lo ha mandato. Gesù è venuto nel mondo come luce, perché chiunque crede in lui non rimanga nelle tenebre: in questa ottica si comprende allora la radicalità del giudizio, il rifiuto di Gesù è un rigetto di Dio stesso, il rifiuto di Gesù è un precipitare nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti (Mt 22,13; 25,30).

 Dal Vangelo secondo Giovanni 12,44-50: In quel tempo, Gesù esclamò: «Chi crede in me, non crede in me ma in colui che mi ha mandato; chi vede me, vede colui che mi ha mandato. Io sono venuto nel mondo come luce, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre. Se qualcuno ascolta le mie parole e non le osserva, io non lo condanno; perché non sono venuto per condannare il mondo, ma per salvare il mondo. Chi mi rifiuta e non accoglie le mie parole, ha chi lo condanna: la parola che ho detto lo condannerà nell’ultimo giorno. Perché io non ho parlato da me stesso, ma il Padre, che mi ha mandato, mi ha ordinato lui di che cosa parlare e che cosa devo dire. E io so che il suo comandamento è vita eterna. Le cose dunque che io dico, le dico così come il Padre le ha dette a me».

Io sono venuto nel mondo come luce : La luce, tratta dal vuoto dell’abisso (cfr Gen 1,1-2), sarà presentata in tutti i testi della sacra Scrittura, in senso proprio o figurato, come la fonte, la condizione, il simbolo di ogni vita per contrapposizione alle tenebre che evocano il caos, il deserto, il nulla e simboleggiano la morte. La luce è anche segno di gioia, di felicità, di salvezza mentre le tenebre rappresentano la sventura, l’ignoranza, il male e la dannazione. La luce è concessa ai giusti che la irradiano a loro volta ed è rifiutata o sottratta ai malvagi: “Per i tuoi santi invece c’era una luce grandissima; ... desti loro una colonna di fuoco, come guida di un viaggio sconosciuto e sole inoffensivo per un glorioso migrare in terra straniera. Meritavano di essere privati della luce e imprigionati nelle tenebre quelli che avevano tenuto chiusi in carcere i tuoi figli, per mezzo dei quali la luce incorruttibile della legge doveva essere concessa al mondo. ” (Sap 18,1-4).  La Sapienza è un “riflesso della luce perenne” (Sap 7,26) che assicura la conoscenza di Dio e della sua Parola. E luce è anche il Messia annunciato dal profeta Isaia: “Io ti renderò luce delle nazioni perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra” (Is 49,6; cfr. Is 42,6). Gesù, in cui “era la vita e la vita era la luce degli uomini” (Gv 1,4), dice di se stesso: “Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita” (Gv 8,12). A coloro che fuggono questa luce, perché denuncia le loro opere malvagie, viene rivolto un avvertimento severo: sono già giudicati, quindi condannati. A coloro che rifiutano di vederla e di accoglierla, viene rivolto l’ammaestramento illustrato dal racconto della guarigione del cieco-nato (Gv 9,1ss): essi sono fra coloro cui “il dio di questo mondo [Satana] ha accecato la mente, perché non vedano lo splendore del glorioso vangelo di Cristo, che è immagine di Dio” (2Cor 4,4). Coloro che operano in Dio vengono alla luce, dimorano nella luce e camminano nella luce. Dio ha chiamato i cristiani “dalle tenebre alla sua luce meravigliosa” (1Pt 2,9) “per far risplendere la conoscenza della gloria di Dio sul volto di Cristo” (2Cor 4,6). I discepoli di Gesù, “figli della luce” (Ef  5,7), sono “luce nel Signore” (Ef 5,7); rivestiti delle “armi della luce” (Rom 12,13) brillano “come astri nel mondo, tenendo salda la parola di vita” (Fil 2,15-16). Nel Regno del Padre, “che abita una luce inaccessibile” (1Tm 6,16), saranno adempiute per sempre, a favore della Chiesa, le promesse dei profeti: “sarà un giorno unico... non ci sarà né giorno né notte, e verso sera risplenderà la luce” (Zac 14,7) e il Signore sarà per essa luce eterna, sarà il suo splendore (Cf Is 60,19). Questo giorno luminoso lo ritroviamo nella Gerusalemme celeste, che risplende di un fulgore che non deve nulla alle luci che Dio pose “nel firmamento del cielo” (Gen 1,14): la città santa sarà illuminata dalla gloria di Dio e “la sua lampada è l’Agnello” (Ap 21,23). “Le nazioni cammineranno alla sua luce” (Ap 21,24) e “il Signore Dio illuminerà [i suoi servi]. E regneranno nei secoli dei secoli” (Ap 22,5).

A. Feuillet e P. Grelot: Cristo, luce del mondo: 1. Compimento della promessa. - Nel Nuovo Testamento la luce escatologica promessa dai profeti è diventata realtà: quando Gesù incomincia a predicare in Galilea, si compie l’oracolo di Is 9,1 (Mt 4,16). Quando risorge secondo le profezie, si è per «annunziare la luce al popolo ed alle nazioni pagane» (Atti 26,23). Perciò i cantici conservati da Luca salutano in lui sin dall’infanzia il sole nascente che deve illuminare coloro che stanno nelle tenebre (Lc 1,78s; cfr. Mal 3,20; Is 9,1; 42,7), la luce che deve illuminare le nazioni (Lc 2,32; cfr. Is 42,6; 49,6). La vocazione di Paolo, annunziatore del vangelo ai pagani, si inserirà nella linea degli stessi testi profetici (Atti 13,47; 26,18). 2. Cristo rivelato come luce. - Tuttavia vediamo che Gesù si rivela come luce del mondo soprattutto con i suoi atti e le sue parole. Le guarigioni di ciechi (cfr. Mc 8,22-26) hanno in proposito un significato particolare, come sottolinea Giovanni riferendo l’episodio del cieco nato (Gv 9). Gesù allora dichiara: «Finché sono nel mondo, sono la luce del mondo» (9,5). Altrove commenta: «Chi mi segue non cammina nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (8, 12); «io, la luce, sono venuto nel mondo affinché chiunque crede in me non cammini nelle tenebre» (12,46). La sua azione illuminatrice deriva da ciò che egli è in se stesso: la parola stessa di Dio, vita e luce degli uomini, luce vera che illumina ogni uomo venendo in questo mondo (1,4.9). Quindi il dramma che si intreccia attorno a lui è un affrontarsi della luce e delle tenebre: la luce brilla nelle tenebre (1,4), ed il mondo malvagio si sforza di spegnerla, perché gli uomini preferiscono le tenebre alla luce quando le loro opere sono malvagie (1,19). Infine, al momento della passione, quando Giuda esce dal cenacolo per tradire Gesù, Giovanni nota intenzionalmente: «Era notte» (13,30); e Gesù, al momento del suo arresto, dichiara: «E l’ora vostra, ed il potere delle tenebre» (Lc 22,53).

Io sono venuto nel mondo come luce - Wolfgang Klein: Nell’Antico Testamento è designazione dell’opera della creazione e simbolo di felicità e di salvezza. Dio dona entrambe. Luce significa anche la sua gloria e quella del mondo celeste. Il mondo dei morti è il paese delle tenebre.
- L’“uomo tra due mondi” viene poi caratterizzato a Qumran mediante l’antitesi etico-cosmologica luce-tenebre (lQ III,13). I membri della setta, in quanto “figli della luce” nel combattimento escatologico lottano contro gli altri esseri umani, i “figli delle tenebre”. Il dualismo poggia sulla predestinazione di ogni essere umano agli ambiti luce o tenebre già prevista nel progetto creazionale di Dio; è dunque legato al concetto veterotestamentario di Dio: “Dio ha creato i due spiriti della luce e delle tenebre” il cui campo di battaglia sono il mondo e l’uomo. Per la comprensione del simbolismo neotestamentario della luce questi antecedenti giudaici sono importanti; Paolo estende la loro applicazione in senso etico-escatologico all’evento Cristo nella parenesi battesimale, Rm 13,11-14: luce e tenebre sono come a Qumran i due ambiti di potere nei quali si compie il cammino dell’uomo, la sua condotta di vita non per predestinazione, ma attraverso la decisione per la fede o per 1’incredulità. L’immagine della vicinanza del “giorno” usata come motivazione per deporre le “opere delle tenebre” e rivestire le “armi della luce”. La vicinanza del  ritorno significa dunque combattimento: “Questo combattimento è identico a quello tra fede e incredulità”. In Giovanni, Cristo, la “luce del mondò” (Gv 8,12), entra nel cosmo tenebroso. Con la venuta della “vera luce” il tempo escatologico della salvezza è diventato presente: la luce come salvezza non è più soltanto immagine, ma designa l’essenza storica del rivelatore. I concetti luce e tenebre servono a designare la discriminazione degli uomini provocata da Cristo (Gv 1,11s). Il giudizio s’identifica con la decisione per l’incredulità, la salvezza con la decisione per la fede. A partire da questo dualismo decisionale, luce e tenebre designano due modi d’esistere: “La doppia possibilità dell’esistere umano, quella a partire da Dio, o quella a partire dall’uomo”. II significato del “cammino” come compimento di vita è limitato, nel Nuovo Testamento, quasi esclusivamente a Paolo e Giovanni.

Tommaso d’Aquino (In Jo. ev. exp., XII): Chi crede in Me, non crede in Me, ma in colui che mi ha inviato: frase questa che sembra contraddittoria, perché dice: Chi crede in Me, non crede in Me. Per comprenderla bisogna notare, con Agostino, che il Signore disse così per distinguere in se stesso la natura divina dalla natura umana. Poiché oggetto della fede è Dio, noi possiamo credere nell’esistenza di una creatura, però non dobbiamo credere nella creatura, ma solo in Dio.  Ora, in Gesù Cristo c’era una natura creata e una natura increata. Quindi  la verità della fede esige che la nostra fede tenda a Cristo quanto alla sua natura increata; e per questo egli afferma: Chi crede in Me, ossia nella mia Persona, non crede in Me in quanto uomo, ma in Colui che mi ha inviato, cioè crede in Me in quanto inviato dal Padre. Analogamente sopra [Gv 7,16] aveva detto: La mia dottrina non è mia, ma di Colui che mi ha inviato.

Assisti con bontà il tuo popolo, o Signore,
e poiché lo hai colmato della grazia di questi santi misteri,
donagli di passare dalla nativa fragilità umana
alla vita nuova nel Cristo risorto.
Egli vive e regna nei secoli dei secoli.

 


27 Aprile 2021
 
MARTEDÌ DELLA IV SETTIMANA DI PASQUA
 
At 11,19-26; Sal 86 (87); Gv 10,22-30
 
Il Santo del giorno: 27 Aprile 2021 - Beato Giacomo da Bitetto, Religioso: Della vita di fra Giacomo si hanno solo alcuni flash. Nato a Zara nel 1400 circa, lo ritroviamo giovane frate francescano nel convento di San Pietro a Bari. Visse poi a Conversano e Cassano delle Murge come cuciniere, ortolano e frate cercatore. La nobile famiglia degli Acquaviva lo prese a benvolere. Ma - giunto in età avanzata al convento di San Francesco di Bitetto - fu lui a salvare uno dei membri della potente famiglia, il conte Andrea. Questi, inseguito da sicari del re di Napoli, contro cui aveva congiurato, si era infatti rifugiato nel convento. Per sdebitarsi gli Acquaviva fecero costruire la strada che collega il luogo di preghiera con la città. Il frate, che aveva un’intensa vita contemplativa, si prodigò nella carità per i poveri: sia nella peste del 1483, sia nelle numerose siccità. Morto tra il 1485 e il 1490, il corpo vent’anni dopo fu trovato incorrotto. È beato dal 1700. La festa porta a Bitetto molti emigrati. (Avvenire)
 
Colletta: Dio onnipotente, che ci dai la grazia di celebrare il mistero della risurrezione del tuo Figlio, concedi a noi di testimoniare con la vita la gioia di essere salvati. Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Paolo VI (Omelia 30 Giugno 1968 - Professione di fede): Noi dunque crediamo al Padre che genera eternamente il Figlio; al Figlio, Verbo di Dio, che è eternamente generato; allo Spirito Santo, Persona increata che procede dal Padre e dal Figlio come loro eterno Amore. In tal modo, nelle tre Persone divine, coaeternae sibi et coaequales (Dz-Sch. 75), sovrabbondano e si consumano, nella sovreccellenza e nella gloria proprie dell’Essere increato, la vita e la beatitudine di Dio perfettamente uno; e sempre «deve essere venerata l’Unità nella Trinità e la Trinità nell’Unità» (Dz-Sch. 75).
Noi crediamo in Nostro Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio. Egli è il Verbo eterno, nato dal Padre prima di tutti i secoli, e al Padre consustanziale, homoousios to Patri (Dz-Sch. 150); e per mezzo di Lui tutto è stato fatto. Egli si è incarnato per opera dello Spirito nel seno della Vergine Maria, e si è fatto uomo: eguale pertanto al Padre secondo la divinità, e inferiore al Padre secondo l’umanità (Cfr. Dz.-Sch. 76), ed Egli stesso uno, non per una qualche impossibile confusione delle nature ma per l’unità della persona (Cfr. Ibid.).
 
I Lettura La Chiesa amplia sempre più i suoi confini, complice la persecuzione scatenata dal Sinedrio contro i discepoli di Gesù. Il brano  introduce l’episodio della fondazione della chiesa di Antiochia, come conseguenza diretta del martirio di Stefano ed è ad Antiochia che i credenti vengono chiamati cristiani: ossia adepti e seguaci di Christus. I pagani di Antiochia, coniando questo appellativo hanno preso il titolo «Cristo» (unto) per un nome proprio.
 
Vangelo Fino a quando ci terrai nell’incertezza? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente: chi vola basso non vedrà mai il cielo, chi non abbandona la carne e il sangue (Mt 16,17)  non potrà entrare nel mistero del Cristo. I Giudei avevano tutto, prove inoppugnabili, morti risuscitati, paralitici risanati, lebbrosi purificati, ciechi che avevano ricuperato la vista, muti la favella, sordi l’udito..., eppure non capivano ancora. L’evangelista svela il perché: non avevano fede, e non erano pecore di Cristo. Due condizioni necessarie perché vengano nettati gli occhi dell’anima, e aprirsi alla luce folgorante della rivelazione: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente, e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio (Mt 16,16; Gv 6,69).
 
Dal Vangelo secondo Giovanni 10,22-30: Ricorreva, in quei giorni, a Gerusalemme la festa della Dedicazione. Era inverno. Gesù camminava nel tempio, nel portico di Salomone. Allora i Giudei gli si fecero attorno e gli dicevano: «Fino a quando ci terrai nell’incertezza? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente». Gesù rispose loro: «Ve l’ho detto, e non credete; le opere che io compio nel nome del Padre mio, queste danno testimonianza di me. Ma voi non credete perché non fate parte delle mie pecore. Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola».
 
Le mie pecore ascoltano la mia voce ... Io do loro la vita eterna - Gesù pronunzia queste parole nel tempio di Gerusalemme, nella festa della Dedicazione (Cf. Gv 10,22). Celebrata il 25 di Chisleu del 148, corrispondente al 15 dicembre del 164 a.C. (Cf.1Mac 4,41-51; 2Mac 1,19), la festa commemorava la riconsacrazione dell’altare del tempio dopo la profanazione dell’esercito seleucida del 167 a.C. Presso gli Ebrei è ricordata con il nome originario di Hanukkà ed è celebrata ancora oggi.
Gesù è il buon Pastore, i credenti sono le pecore che ascoltano la voce del Pastore: l’ascolto è il sigillo che contrassegna l’appartenenza al gregge di Cristo, Parola di Dio, fatta Carne (Cf. Ap 19,13; Gv 1,14). Ascolto è sinonimo di accoglienza attenta e obbediente della Parola che in questo modo diventa guida, «luce ai passi» del credente (Sal 119,105).
L’ascolto è la caratteristica del discepolo cristiano e chi «ascolta la voce di Gesù, lo segue [...]. Metter­si dietro le orme di questa guida significa percorrere tutto il tragitto da lui compiuto per giungere alla vetta del Calvario. Il buon Pastore infatti si mette alla testa del suo gregge e lo conduce ai pascoli della vita eterna, attraverso il cammino della croce e della rinuncia» (Salvatore Alberto Panimolle).
Un cammino che va percorso fino in fondo e che non esclude, nel suo bilancio, il martirio per il Signore e il Vangelo (Cf. Ap 7,14).
Gesù-Pastore conosce le sue pecore: una conoscenza che supera il campo dell’intelletto e sconfina nell’amore (Cf. Os 6,6; 1Gv 1,3).
Nel vangelo di Giovanni «conoscenza e amore crescono insieme, per cui è difficile dire se l’amore è il frutto della conoscenza o la conoscenza è frutto di amore [...]. L’amore è unito alla conoscenza quando il rapporto tra Gesù e il Padre è descritto come una reciproca conoscenza [Gv 7,29; 8,55; 10,15). La stessa reciproca conoscenza è il vincolo tra Gesù e i suoi discepoli [Gv 10,14ss]» (John L. McKenzie).
Questa profonda intimità genera nel cuore dei credenti il frutto della vita eterna: essendo stati «rigenerati non da un seme corruttibile ma incorruttibile, per mezzo della parola di Dio viva ed eterna» (1Pt 1,23), i credenti gustano la gioia della vita eterna già d’adesso, nelle pieghe di una quotidianità a volte impastata di peccato e di acute contraddizioni.
Questa intensa comunione di amore con il Cristo sarà portata perfettamente a compimento nel Regno dei Cieli: solo nel Regno i credenti, strappati dalla contingenza della vita terrena, non «avranno più fame né avranno più sete, non li colpirà il sole né arsura alcuna... Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi» (Ap 7,16-17).
In attesa di questi beni, la comunione amorosa con il Buon Pastore dona ai discepoli già ora pace, serenità e sicurezza.
«Colui che si affida a Gesù con la fede trova in lui quella sicurezza assoluta che non trova mai in alcuna sicurezza o protezione umana. In lui infatti è presente il potere divino. Lo stesso potere viene poi attribuito al Padre e la stessa sicurezza proviene dalla certezza che “ciò che mi ha dato” [Cf. 6,36-40] nessuno lo può rapire dalla mano del Padre [Cf. Is 43,13; Sap 3,1). In questi due versetti 28-29 si riflette la serena esperienza della comunità giovannea che si sentiva il gregge protetto dal Figlio di Dio e che nessuno poteva rapire: né le persecuzioni [16,4] né le eresie [1Gv]» (Giuseppe Segalla).
Questa sicurezza è significata anche dalle parole di Gesù che rivelano l’identità di sostanza tra lui e il Padre: «Io e il Padre siamo una cosa sola».
In questo modo i credenti vicini al Cristo sentono una sicurezza assoluta e totale. Nessuno li strapperà dalle mani del Cristo: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? [...]. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rom 8,35-39).
I discepoli di Cristo devono solo temere il peccato che li seduce a trovare altre strade, lontane dal percorso del gregge guidato da Cristo.
 
Ve l’ho detto, e non credete: Benedetto XVI (Omelia, Venerdì, 29 giugno 2007): ... l’integrità della fede cristiana è data dalla confessione di Pietro, illuminata dall’insegnamento di Gesù sulla sua “via” verso la gloria, cioè sul suo modo assolutamente singolare di essere il Messia e il Figlio di Dio. Una “via” stretta, un “modo” scandaloso per i discepoli di ogni tempo, che inevitabilmente sono portati a pensare secondo gli uomini e non secondo Dio (cfr. Mt 16,23). Anche oggi, come ai tempi di Gesù, non basta possedere la giusta confessione di fede: è necessario sempre di nuovo imparare dal Signore il modo proprio in cui egli è il Salvatore e la via sulla quale dobbiamo seguirlo. Dobbiamo infatti riconoscere che, anche per il credente, la Croce è sempre dura da accettare. L’istinto spinge ad evitarla, e il tentatore induce a pensare che sia più saggio preoccuparsi di salvare se stessi piuttosto che perdere la propria vita per fedeltà all’amore. Che cosa era difficile da accettare per la gente a cui Gesù parlava? Che cosa continua ad esserlo anche per molta gente di oggi? Difficile da accettare è il fatto che Egli pretenda di essere non solo uno dei profeti, ma il Figlio di Dio, e rivendichi per sé la stessa autorità di Dio. Ascoltandolo predicare, vedendolo guarire i malati, evangelizzare i piccoli e i poveri, riconciliare i peccatori, i discepoli giunsero poco a poco a capire che Egli era il Messia nel senso più alto del termine, vale a dire non solo un uomo inviato da Dio, ma Dio stesso fattosi uomo. Chiaramente, tutto questo era più grande di loro, superava la loro capacità di comprendere. Potevano esprimere la loro fede con i titoli della tradizione giudaica: “Cristo”, “Figlio di Dio”, “Signore”. Ma per aderire veramente alla realtà, quei titoli dovevano in qualche modo essere riscoperti nella loro verità più profonda: Gesù stesso con la sua vita ne ha rivelato il senso pieno, sempre sorprendente, addirittura paradossale rispetto alle concezioni correnti. E la fede dei discepoli ha dovuto adeguarsi progressivamente. Essa ci si presenta come un pellegrinaggio che ha il suo momento sorgivo nell’esperienza del Gesù storico, trova il suo fondamento nel mistero pasquale, ma deve poi avanzare ancora grazie all’azione dello Spirito Santo. Tale è stata anche la fede della Chiesa nel corso della storia, tale è pure la fede di noi, cristiani di oggi. Saldamente appoggiata sulla “roccia” di Pietro, è un pellegrinaggio verso la pienezza di quella verità che il Pescatore di Galilea professò con appassionata convinzione: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16,16).
 
Agostino (In Ioannis Evang. tractatus 36 9): Ascolta lo stesso Figlio: “Io e il Padre siamo una cosa sola”. Non ha detto: Io sono il Padre, oppure: Io e il Padre è uno solo, ma siccome ha detto: “Io e il Padre siamo una cosa sola tieni conto di ambedue le espressioni” [ ... ]. Se è una cosa sola” vuol dire che non è diverso; dicendo “siamo” comprende il Padre e il Figlio.
 
Esaudisci, o Signore, le nostre preghiere,
perché la partecipazione al mistero della redenzione
sia per noi aiuto nella vita presente
e ci ottenga la gioia eterna.
Per Cristo nostro Signore.