16 LUGLIO 2025
 
MERCOLEDÌ DELLA XV SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO
 
Es 3,1-6.9-12; Sal 102 (103); Mt 11,25-27
 
Colletta
O Dio, che mostri agli erranti la luce della tua verità
perché possano tornare sulla retta via,
concedi a tutti coloro che si professano cristiani
di respingere ciò che è contrario a questo nome
e di seguire ciò che gli è conforme.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo - Benedetto XVI (Udienza Generale 7 Dicembre 2011): Poniamoci adesso la domanda: a chi il Figlio vuole rivelare i misteri di Dio? All’inizio dell’Inno Gesù esprime la sua gioia perché la volontà del Padre è quella di tenere nascoste queste cose ai dotti e ai sapienti e rivelarle ai piccoli (cfr Lc 10,21). In questa espressione della sua preghiera, Gesù manifesta la sua comunione con la decisione del Padre che schiude i suoi misteri a chi ha il cuore semplice: la volontà del Figlio è una cosa sola con quella del Padre. La rivelazione divina non avviene secondo la logica terrena, per la quale sono gli uomini colti e potenti che possiedono le conoscenze importanti e le trasmettono alla gente più semplice, ai piccoli. Dio ha usato tutt’altro stile: i destinatari della sua comunicazione sono stati proprio i «piccoli». Questa è la volontà del Padre, e il Figlio la condivide con gioia. Dice il Catechismo della Chiesa Cattolica: «Il suo trasalire «Sì, Padre!» esprime la profondità del suo cuore, la sua adesione al beneplacito del Padre, come eco al «Fiat» di sua Madre al momento del suo concepimento e come preludio a quello che egli dirà al Padre durante la sua agonia. Tutta la preghiera di Gesù è in questa amorosa adesione del suo cuore di uomo al “mistero della ... volontà” del Padre (Ef 1,9)» (2603). Da qui deriva l’invocazione che rivolgiamo a Dio nel Padre nostro: «sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra»: insieme con Cristo e in Cristo, anche noi chiediamo di entrare in sintonia con la volontà del Padre, diventando così anche noi suoi figli. Gesù, pertanto, in questo Inno di giubilo esprime la volontà di coinvolgere nella sua conoscenza filiale di Dio tutti coloro che il Padre vuole renderne partecipi; e coloro che accolgono questo dono sono i «piccoli».
Ma che cosa significa «essere piccoli», semplici? Qual è «la piccolezza» che apre l’uomo all’intimità filiale con Dio e ad accogliere la sua volontà? Quale deve essere l’atteggiamento di fondo della nostra preghiera? Guardiamo al «Discorso della montagna», dove Gesù afferma: «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio» (Mt 5,8). Ed è la purezza del cuore quella che permette di riconoscere il volto di Dio in Gesù Cristo; è avere il cuore semplice come quello dei bambini, senza la presunzione di chi si chiude in se stesso, pensando di non avere bisogno di nessuno, neppure di Dio.
 
I Lettura: La narrazione della vocazione di Mosè è vergata con elementi caratteristici e costanti in simili racconti biblici. Alla chiamata di Dio il vocato protesta la propria indegnità e le proprie perplessità che vengono superate da un segno e dalla promessa della protezione divina. Il fuoco che brucia senza consumarsi è simbolo fondamentale delle teofanie. Dio  rivela a Mosè il suo nome usando il verbo essere che in ebraico è verbo attivo, cioè non indica uno stato, ma un’attività. Dio è Colui che è, colui che opera (Gv 5,17) a differenza degli idoli muti dei pagani che sono nulla: manufatti inerti «che non possono giovare né salvare, perché sono vanità» (1Sam 12,21).
 
Vangelo
Hai nascosto queste cose ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli.
 
Gesù è colui che rivela il Padre, Lui è la pienezza della rivelazione, e questo è possibile per la particolare relazione che intercorre tra il Padre e Gesù, il Figlio unigenito, è possibile per la vita di intimità tra il Padre e il Figlio fin dall’eternità.
 
Dal Vangelo secondo Matteo
Mt 11,25-27

In quel tempo Gesù disse:
«Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza.
Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo».
 
Parola del Signore.
 
Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra... - L’espressione Signore del cielo e della terra, evoca l’azione creatrice di Dio (Cf. Gen 1,1). Il motivo della lode sta nel fatto che il Padre ha «nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le ha rivelate ai piccoli». Le cose nascoste «non si riferiscono a ciò che precede; si devono intendere invece dei “misteri del regno” in generale [Mt 13,11], rivelati ai “piccoli”, i discepoli [Cf. Mt 10,42], ma tenuti nascosti ai “sapienti”, i farisei e i loro dottori» (Bibbia di Gerusalemme).
Molti anni dopo Paolo ricorderà queste parole di Gesù ai cristiani di Corinto: «Considerate infatti la vostra chiamata, fratelli: non ci sono fra voi molti sapienti dal punto di vista umano, né molti potenti, né molti nobili. Ma quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti; quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto per ridurre al nulla le cose che sono, perché nessuno possa vantarsi di fronte a Dio» (1Cor 1,26-29).
... nessuno conosce il Figlio... La rivelazione della mutua conoscenza tra il Padre e il Figlio pone decisamente il brano evangelico in relazione «con alcuni passi della letteratura sapienziale riguardanti la sophia. Solo il Padre conosce il Figlio, come solo Dio la sapienza [Gb 28,12-27; Bar 3,32]. Solo il Figlio conosce il Padre, così come solo la sapienza conosce Dio [Sap 8,4; 9,1-18]. Gesù fa conoscere la rivelazione nascosta, come la sapienza rivela i segreti divini [Sap 9,1-18; 10,10] e invita a prendere il suo giogo su di sé, proprio come la sapienza [Prov 1,20-23; 8,1-36]» (Il Nuovo Testamento, Vangeli e Atti degli Apostoli).
... nessuno conosce il Padre se non il Figlio... Gesù è l’unico rivelatore dei misteri divini, in quanto il Padre ne ha comunicato a lui, il Figlio, la conoscenza intera. Da questa affermazione si evince che Gesù è uguale al Padre nella natura e nella scienza, è Dio come il Padre, di cui è il Figlio Unico.
 
Gesù rivela il Padre - Pierre Ternani: In prossimità dell’era cristiana, Israele conserva piena coscienza che Dio è padre del suo popolo e di ciascuno dei suoi fedeli. L’appellativo di padre, molto raro nelle apocalissi e nei testi di Qumràn, che temono forse l’uso che ne fa l’ellenismo, è frequente negli scritti rabbinici, dove si ritrova persino, tale e quale, la formula «Padre nostro, che sei nei cieli» (Mt 6,9). Gesù Cristo porta a compimento il meglio della riflessione giudaica sulla paternità di Dio. Come il povero del salmo, per il quale la comunità degli «uomini dal cuore puro», solo vero Israele (Sai 73,1), rappresenta la «generazione dei figli di Dio» (73,15), Gesù pensa ad una comunità (ci fa dire «Padre nostro», e non «Padre mio») composta dei «piccolissimi» (Mt 11,25 par.) ai quali il Padre rivela i suoi segreti, e ciascuno dei quali è personalmente figlio di Dio (Mt 6,4.6.18). Ma egli innova, andando oltre lo stesso universalismo a cui era giunta una corrente del tardo giudaismo. Questa, pur collegando la paternità di Dio alla sua qualità di creatore, non ne traeva ancora la conclusione che Dio fosse padre di tutti gli uomini e che gli uomini fossero tutti  fratelli (cfr. Is 64,7; Mal 2, 10). Così pure, se concepiva la pietà divina come estendentesi ad «ogni carne» (Eccli 18,13), generalmente aggiungeva che soltanto i figli di Dio, cioè i giusti di Israele, ne risentono l’effetto completo (Sap 12,19-22; cfr. 2Mac 6,13-16); in concreto, ad essi soli applicava il tema deuteronomico (Deut 8, 5) di una «correzione di Jahve» ispirata dall’amore paterno (Prov 3,11s; cfr. Ebr 12,5-13). Per Gesù, invece, la comunità dei «piccolissimi», ancora limitata di fatto ai soli Giudei pentiti che fanno la volontà del Padre (Mt 21,31ss), comprenderà anche dei pagani (Mt 25, 32 ss), che soppianteranno i «figli del regno» (Mt 8,12). A questo nuovo Israele, che di diritto è già aperto a tutti, il Padre prodiga i beni necessari (Mt 6,26.32; 7,11), anzitutto lo Spirito Santo (cfr. Lv 11,13), e manifesta l’immensità della sua tenerezza misericordiosa (Lc 15,11- 32): non rimane che riconoscere umilmente quest’unica paternità (Mt 23,9), e vivere come figli che pregano il loro Padre (7,7-11), pongono in lui la loro fiducia (6,25-34), si sottomettono a lui imitando il suo amore universale (5,44s), la sua inclinazione a perdonare (18,33; cfr. 6,14s), la sua misericordia (Lc 6,36; cfr. Lev 19,2), la sua stessa perfezione (Mt 5,48). Se questo tema dell’imitazione del Padre non è nuovo (infatti Lc 6, 36 si ritrova in un targum), nuova è l’insistenza sulla sua applicazione al perdono vicendevole ed all’amore dei nemici. Dio non è mai tanto nostro padre come quando ama e perdona, e noi non siamo mai tanto suoi figli come quando agiamo allo stesso modo verso tutti i nostri fratelli.
Il Padre di Gesù: Per mezzo di Gesù, Dio si è rivelalo come Padre di un Figlio unico. Che Dio sia suo Padre in un senso unico, Gesù lo fa comprendere col suo modo di distinguere «il mio Padre» (ad es. Mt 7,21; 11,27 par.; Lc 2,49; 22,29) ed «il vostro Padre» (ad es. Mt 5,45; 6,1; 7,11; Lc 12,32), di presentarsi talvolta come «il Figlio» (Mc 13, 32), il Figlio diletto, cioè unico (Mc 12,6 par.; cfr. 1,11 par.; 9,7 par.), e soprattutto di esprimere la coscienza di un’unione così stretta tra loro, che egli penetra tutti i segreti del Padre e li può, egli solo, rivelare (Mt 11,25 ss). La portata trascendente di queste parole, «Padre» e «Figlio», che (almeno nella formula «Figlio di Dio», evitata del resto da Gesù) non è per sé evidente e non era percepita dai suoi interlocutori (in Lc 4,41 Figlio di Dio equivale a Cristo), è confermata da quella del titolo «figlio dell’uomo» e dalla rivendicazione di un’autorità Che trascende il creato. Lo è pure dalla preghiera di Gesù, che si rivolge al Padre dicendo «Abba» (MC 14, 36), equivalente del nostro «Papà»: familiarità di cui non c’è esempio prima di lui, e che manifesta un’intimità senza pari.  
 
Ti benedico...: Catechismo della Chiesa Cattolica 2603: Gli evangelisti hanno riportato in modo esplicito due preghiere pronunciate da Gesù durante il suo ministero. Ognuna comincia con il rendimento di grazie. Nella prima, Gesù confessa il Padre, lo riconosce e lo benedice perché ha nascosto i misteri del Regno a coloro che si credono dotti e li ha rivelati ai «piccoli» (i poveri delle beatitudini). Il suo trasalire: «Sì, Padre!» esprime la profondità del suo cuore, la sua adesione al «beneplacito» del Padre, come eco al «Fiat» di sua Madre al momento del suo concepimento e come preludio a quello che egli dirà al Padre durante la sua agonia. Tutta la preghiera di Gesù è in questa amorosa adesione del suo cuore di uomo al «mistero della volontà» del Padre.
 
M. Eckart (Exp. ev. Joh., 550): ... nessuno conosce il Padre se non il Figlio...: tutte le volte che si forma in te un’immagine che non è il Verbo eterno, o qualcosa che non ha rapporto con il Verbo eterno, per quanto buona sia, non è affatto ciò che deve essere. Perciò, è giusto soltanto quell’uomo che ha annullato in sé tutte le cose create e si rivolge, senza voltarsi mai, al Verbo eterno ed in Lui è formato e da Lui riceve il riflesso nella giustizia. Quest’uomo riceve il Figlio stesso. Nessuno conosce il Padre se non il Figlio: perciò, se volete veramente conoscere Dio, dovete non soltanto essere simile al Figlio, ma essere il Figlio stesso.
 
Il Santo del Giorno - 16 Luglio 2025 - Beata Vergine Maria del Monte Carmelo. Quel dolce manto protettore che vince l’aridità dei cuori: Come lacrime del cielo che fecondano la terra e generano vita, speranza e futuro: la visione di Elia sul monte Carmelo ci parla di un Dio che si prende cura dell’umanità e, come un manto, la protegge dall’arsura provocata dalle asperità e dalla siccità della storia. Siccità spirituale e asperità esistenziali sono esperienza comune, ecco perché la tradizione ha da sempre visto in quella leggera nube recante pioggia e risalente dal mare un segno della dolcezza divina, la stessa da sempre legata anche alla vicenda e all’icona della Vergine, di Maria, la madre di Dio. Di fronte alla nostra sete interiore d’Infinito la devozione alla Madonna del Carmelo è un invito a lasciarci avvolgere dall’amore delicato e ristoratore di Dio. Un messaggio che arriva dal racconto riportato al capitolo 18 del primo Libro dei Re: sul Monte Carmelo il profeta Elia mostra ad Acab la potenza del Signore, contenuta in una piccola nuvola che porta la pioggia e vince l’arsura. Un’immagine potente nella quale la tradizione ha visto l’opera di Maria, il cui ventre ha donato al mondo l’unica fonte in grado di vincere ogni aridità del cuore. Da questo stesso brano è poi nata l’esperienza dei monaci del Carmelo. La Madonna del Carmine, in seguito, apparve il 16 luglio 1251 a Simone Stock, priore generale dell’Ordine carmelitano, promettendo la salvezza a coloro che avrebbero portato lo scapolare consegnato allo stesso religioso, simbolo di protezione e di totale affidamento a Dio. (Matteo Liut)
 
O Signore, che ci hai nutriti con i tuoi doni,
fa’ che per la celebrazione di questi santi misteri
cresca in noi il frutto della salvezza.
Per Cristo nostro Signore.
 
 15 Luglio 2025
 
San Bonaventura, Vescovo e Dottore della Chiesa
 
Es 2,1-15 ; Salmo Responsoriale Dal Salmo 68 (69); Mt 11,20-24
 
Colletta
Dio onnipotente, concedi a noi,
che celebriamo la nascita al cielo
del santo vescovo Bonaventura,
di essere illuminati dalla sua eminente sapienza
e di imitare il suo serafico ardore.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Benedetto XVI (Catechesi 10 Marzo 2010): (...) per san Bonaventura governare non era semplicemente un fare, ma era soprattutto pensare e pregare. Alla base del suo governo troviamo sempre la preghiera e il pensiero; tutte le sue decisioni risultano dalla riflessione, dal pensiero illuminato dalla preghiera. Il suo contatto intimo con Cristo ha accompagnato sempre il suo lavoro di Ministro Generale e perciò ha composto una serie di scritti teologico-mistici, che esprimono l’animo del suo governo e manifestano l’intenzione di guidare interiormente l’Ordine, di governare, cioè, non solo mediante comandi e strutture, ma guidando e illuminando le anime, orientando a Cristo.
Di questi suoi scritti, che sono l’anima del suo governo e che mostrano la strada da percorrere sia al singolo che alla comunità, vorrei menzionarne solo uno, il suo capolavoro, l’Itinerarium mentis in Deum, che è un “manuale” di contemplazione mistica. Questo libro fu concepito in un luogo di profonda spiritualità: il monte della Verna, dove san Francesco aveva ricevuto le stigmate. Nell’introduzione l’autore illustra le circostanze che diedero origine a questo suo scritto: “Mentre meditavo sulle possibilità dell’anima di ascendere a Dio, mi si presentò, tra l’altro, quell’evento mirabile occorso in quel luogo al beato Francesco, cioè la visione del Serafino alato in forma di Crocifisso. E su ciò meditando, subito mi avvidi che tale visione mi offriva l’estasi contemplativa del medesimo padre Francesco e insieme la via che ad esso conduce” (Itinerario della mente in Dio, Prologo, 2, in Opere di San Bonaventura. Opuscoli Teologici /1, Roma 1993, p. 499).
Le sei ali del Serafino diventano così il simbolo di sei tappe che conducono progressivamente l’uomo dalla conoscenza di Dio attraverso l’osservazione del mondo e delle creature e attraverso l’esplorazione dell’anima stessa con le sue facoltà, fino all’unione appagante con la Trinità per mezzo di Cristo, a imitazione di san Francesco d’Assisi. Le ultime parole dell’Itinerarium di san Bonaventura, che rispondono alla domanda su come si possa raggiungere questa comunione mistica con Dio, andrebbero fatte scendere nel profondo del cuore: “Se ora brami sapere come ciò avvenga, (la comunione mistica con Dio) interroga la grazia, non la dottrina; il desiderio, non l’intelletto; il gemito della preghiera, non lo studio della lettera; lo sposo, non il maestro; Dio, non l’uomo; la caligine, non la chiarezza; non la luce, ma il fuoco che tutto infiamma e trasporta in Dio con le forti unzioni e gli ardentissimi affetti ... Entriamo dunque nella caligine, tacitiamo gli affanni, le passioni e i fantasmi; passiamo con Cristo Crocifisso da questo mondo al Padre, affinché, dopo averlo visto, diciamo con Filippo: ciò mi basta” (ibid., VII, 6).
Cari amici, accogliamo l’invito rivoltoci da san Bonaventura, il Dottore Serafico, e mettiamoci alla scuola del Maestro divino: ascoltiamo la sua Parola di vita e di verità, che risuona nell’intimo della nostra anima. Purifichiamo i nostri pensieri e le nostre azioni, affinché Egli possa abitare in noi, e noi possiamo intendere la sua Voce divina, che ci attrae verso la vera felicità.
 
I Lettura: Mosè, figlio di ebrei, è salvato dalla furia omicida egiziana dalla figlia del faraone ed entra in questo modo a far parte della casa reale, ma il suo cuore batte per Israele, il suo popolo. Diventato adulto, un giorno, per salvare un ebreo dalla ferocia di un egiziano si spinge all’omicidio. Un gesto che gli costerà l’esilio in terra di Madian.
 
Vangelo
Nel giorno del giudizio, Tiro e Sidòne e la terra di Sòdoma saranno trattate meno duramente di voi.
 
Molti cristiani amano giocare con il fuoco. Sono maestri nell’arte del rimandare, oggi non posso, domani... oggi ho tante cose da fare è meglio domani ... altri, più che mai incoscienti, decidono di regolare i conti sul letto di morte. Non possiamo approfittare della pazienza di Dio (2Pt 3,8-10). E, tanto meno, non possiamo essere così sciocchi da dire ho peccato, e che cosa mi è successo? (Sir 5,1ss). Eppure, l’esperienza dovrebbe suggerirci che ad ogni passo la morte si avvicina: “Ad ogni ora, ad ogni momento ci avviciniamo a quella che sarà la nostra forca, cioè appunto l’ultima malattia che ci costringerà ad abbandonare il mondo” (Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, Apparecchio alla morte, Riflessione IV, Punto II). Attento, dunque, chiunque tu sia, a non giocare con il fuoco, alla fine ti potresti trovare ad essere salato con il fuoco (Mc 9,49).

Dal Vangelo secondo Matteo
Mt 11,20-24
 
In quel tempo, Gesù si mise a rimproverare le città nelle quali era avvenuta la maggior parte dei suoi prodigi, perché non si erano convertite: «Guai a te, Corazìn! Guai a te, Betsàida! Perché, se a Tiro e a Sidòne fossero avvenuti i prodigi che ci sono stati in mezzo a voi, già da tempo esse, vestite di sacco e cosparse di cenere, si sarebbero convertite. Ebbene, io vi dico: nel giorno del giudizio, Tiro e Sidòne saranno trattate meno duramente di voi.
E tu, Cafàrnao, sarai forse innalzata fino al cielo? Fino agli inferi precipiterai! Perché, se a Sòdoma fossero avvenuti i prodigi che ci sono stati in mezzo a te, oggi essa esisterebbe ancora! Ebbene, io vi dico: nel giorno del giudizio, la terra di Sodòma sarà trattata meno duramente di te!».
 
Parola del Signore.
 
Benedetto Prete (I Quattro Vangeli): 20 Le maledizioni di Gesù (11, 20-24) furono pronunziate molto probabilmente alla fine del ministero galilaico; Matteo le inserisce convenientemente in questa parte del suo scritto, poiché ha accennato al rifiuto del piano salvifico progettato dalla sapienza divina.
21 Corozein (Corazin) identificata con Kkirbet Kerazeh, sorgeva nell’interno a circa 4 chilometri a nord-ovest di Cafarnao; Bethsaida era sulla riva del lago sull’estuario del Giordano (sponda sinistra). Si è pensato all’esistenza di due città chiamate Bethsaida: una Bethsaida orientale (detta Bethsaida Giulia, la città di questo passo) e una Bethsaida occidentale (cf. Mc., 6, 45) chiamata Bethsaida di Galilea; cf. Gto., 12, 21; l’antichità, tuttavia, non conosce l’esistenza di due Bethsaida. Tiro e Sidone: due città della costa fenicia in territorio interamente pagano. Il Maestro rimprovera queste città per la loro ostinazione, non già per fatti di perversione morale come nel caso di Sodoma e Gomorra. Avrebbero fatto penitenza con il cilicio e con la cenere; espressione tradizionale per indicare la penitenza (cf. Giona 3, 5-8); il cilicio è una stoffa rude (sacco) di cui ci si rivestiva nei giorni di digiuno. Gesù si esprime in modo popolare; egli non intende trattare il problema se Dio conosca i così detti “futuribili”, cioè le cose possibili nel futuro, ma che non si attueranno mai.
23 Cielo... inferno: termini metaforici per indicare la condanna (cf. Isaia, 14, 13, 15). Sodoma; la città, distrutta per le innominabili turpitudini commesse dagli abitanti, è rimasta come l’esempio tradizionale della giustizia vendicatrice di Dio. Gesù fa appello alle proprie opere portentose (δυνάμεις), le quali testimoniano in favore della verità del suo messaggio. Gli abitanti di queste città maledette, rimasti sordi alla predicazione e ciechi davanti ai miracoli compiuti da Cristo, sono inescusabili e, conseguentemente, meritano un giudizio severo.
 
Invito alla conversione - Felipe F. Ramos (Commento alla Bibbia Liturgica): La misura della responsabilità è il dono che la rende possibile: a un dono maggiore corrisponde una maggiore responsabilità. La piccola storia raccolta in questa lettura è un’illustrazione pratica di queste affermazioni. L’attività di Gesù in Galilea fu concentrata principalmente nelle città intorno al lago di Genezaret. Corazin, al nord del lago, all’interno, è menzionata solo qui, mentre è menzionata spesso Betsaida. Ma la città nella quale Gesù rimase più a lungo fu senza dubbio Cafarnao, che Matteo (9,1) chiama «la sua città» e nella quale, secondo Marco, aveva una casa (Mc 2,1). Diremmo che persino l’ordine col quale esse compaiono nel racconto evangelico ha la sua importanza: sono ricordate secondo l’ordine della minore attività che Gesù esercitò in esse: Corazin, Betsaida, Cafarnao. Abbiamo già detto che Corazin è menzionata solo in questo passo e che Cafarnao fu il luogo in cui Gesù dimorò più a lungo durante la sua attività in Galilea.
Anche l’ordine nel contrappunto è intenzionale: Tiro e Sidone erano città pagane, che sono ricordate insieme come testimoni dell’ira divina (Is 23; Am 1,9-10), e Sodoma era passata alla storia biblica come la città peccatrice per eccellenza.
Tenendo conto di queste osservazioni, possiamo comprendere facilmente la lezione del testo evangelico: a una maggiore attività di Gesù in ciascuna di quelle città corrisponde una maggiore responsabilità. Furono invitate alla penitenza e non risposero all’invito; perciò saranno giudicate con maggior severità che le città menzionate nel contrappunto del paragone. Queste ultime città avrebbero risposto all’invito alla conversione, se fossero state testimoni dei miracoli che Gesù compì nelle altre.
Il nostro testo parla di miracoli di Gesù in modo generico: non è specificato esattamente quali siano stati operati nelle città ricordate. Meglio così. Infatti questo ci porta a una considerazione, anch’essa generica, sui miracoli di Gesù. Essi sono un’epifania dell’azione dello Spirito, della vittoria su satana, della misericordia di Dio, che invita sempre il traviato a tornare alla casa paterna. Opere che sono predicazione-parola allo stesso tempo, opere-parola che potrebbero spingere alla penitenza le città più empie. La responsabilità maggiore ricade su Cafarnao per la ragione che abbiamo detta: in Cafarnao fu presente, fisicamente presente per un tempo più lungo il regno dei cieli, per la più lunga permanenza di Gesù in essa. Questo stesso fatto fu forse un motivo d’orgoglio? Comunque sia, la città è descritta con le parole di Isaia (14,13-15) che si riferiscono alla città di Babilonia. Il messaggio di Gesù livella ogni genere di privilegi e pone sul terreno personale di chiamata-risposta. La risposta personale alla sua parola decide l’appartenenza o l’esclusione dal suo regno.
 
Come attraverso il fuoco ...: Spe salvi 47: Alcuni teologi recenti sono dell’avviso che il fuoco che brucia e insieme salva sia Cristo stesso, il Giudice e Salvatore. L’incontro con Lui è l’atto decisivo del Giudizio. Davanti al suo sguardo si fonde ogni falsità. È l’incontro con Lui che, bruciandoci, ci trasforma e ci libera per farci diventare veramente noi stessi. Le cose edificate durante la vita possono allora rivelarsi paglia secca, vuota millanteria e crollare. Ma nel dolore di questo incontro, in cui l’impuro ed il malsano del nostro essere si rendono a noi evidenti, sta la salvezza. Il suo sguardo, il tocco del suo cuore ci risana mediante una trasformazione certamente dolorosa «come attraverso il fuoco». È, tuttavia, un dolore beato, in cui il potere santo del suo amore ci penetra come fiamma, consentendoci alla fine di essere totalmente noi stessi e con ciò totalmente di Dio. Così si rende evidente anche la compenetrazione di giustizia e grazia: il nostro modo di vivere non è irrilevante, ma la nostra sporcizia non ci macchia eternamente, se almeno siamo rimasti protesi verso Cristo, verso la verità e verso l’amore. In fin dei conti, questa sporcizia è già stata bruciata nella Passione di Cristo. Nel momento del Giudizio sperimentiamo ed accogliamo questo prevalere del suo amore su tutto il male nel mondo ed in noi. Il dolore dell’amore diventa la nostra salvezza e la nostra gioia. È chiaro che la «durata» di questo bruciare che trasforma non la possiamo calcolare con le misure cronometriche di questo mondo. Il «momento» trasformatore di questo incontro sfugge al cronometraggio terreno - è tempo del cuore, tempo del «passaggio» alla comunione con Dio nel Corpo di Cristo. Il Giudizio di Dio è speranza sia perché è giustizia, sia perché è grazia. Se fosse soltanto grazia che rende irrilevante tutto ciò che è terreno, Dio resterebbe a noi debitore della risposta alla domanda circa la giustizia – domanda per noi decisiva davanti alla storia e a Dio stesso. Se fosse pura giustizia, potrebbe essere alla fine per tutti noi solo motivo di paura. L’incarnazione di Dio in Cristo ha collegato talmente l’uno con l’altra - giudizio e grazia - che la giustizia viene stabilita con fermezza: tutti noi attendiamo alla nostra salvezza «con timore e tremore» (Fil 2,12). Ciononostante la grazia consente a noi tutti di sperare e di andare pieni di fiducia incontro al Giudice che conosciamo come nostro «avvocato», parakletos (cfr. 1Gv 2,1). 
 
Giovanni Crisostomo (Omelie sulla Lettera agli Efesini, 4,3-4): La bontà di Dio ti conduce alla penitenza, non a un maggior numero di peccati. Se invece tu diventi cattivo a causa della bontà di Dio, la farai allora odiare maggiormente dagli uomini; vediamo, infatti, come siano in molti a stigmatizzare la longanimità di Dio. Ne sconterai perciò la pena, se non userai di questa come si conviene. Dio è buono? Ma è anche giusto giudice. Perdona i peccati? Ma rende anche a ciascuno secondo le sue opere. Sorvola sulle iniquità e toglie le trasgressioni? Eppure le passa altresì in rassegna. Non si contraddicono dunque tutte queste cose? Nient’affatto, una volta che le abbiamo divise a seconda dei momenti: quaggiù Dio rimette le trasgressioni per mezzo del lavacro e della penitenza; lassù egli compie l’indagine delle azioni compiute, mediante il fuoco e i tormenti.
 
Il Santo del giorno - 15 Luglio 2025 - San Bonaventura, Vescovo e Dottore della Chiesa: Giovanni Fidanza nacque a Bagnoregio (Viterbo) nel 1218. Bambino fu guarito da san Francesco, che avrebbe esclamato: «Oh bona ventura». Gli rimase per nome ed egli fu davvero una «buona ventura» per la Chiesa. Studiò a Parigi e durante il suo soggiorno in Francia, entrò nell’Ordine dei Frati Minori. Insegnò teologia all’università di Parigi e formò intorno a sé una reputatissima scuola. Nel 1257 venne eletto generale dell’Ordine francescano, carica che mantenne per diciassette anni con impegno al punto da essere definito secondo fondatore dell’Ordine. Scrisse numerose opere di carattere teologico e mistico ed importante fu la «Legenda maior», biografia ufficiale di San Francesco, a cui si ispirò Giotto per il ciclo delle Storie di San Francesco. Fu nominato vescovo di Albano e cardinale. Partecipò al II Concilio di Lione che, grazie anche al suo contributo, segnò un riavvicinamento fra Chiesa latina e Chiesa greca. Proprio durante il Concilio, morì a Lione, il 15 luglio 1274. (Avvenire)
 
O Signore, che ci hai nutriti di Cristo, pane vivo,
nella memoria di san Bonaventura,
formaci alla scuola del Vangelo,
perché conosciamo la tua verità
e la viviamo nella carità fraterna.
Per Cristo nostro Signore.
 
 14 Luglio 2025
 
Lunedì XV Settimana Tempo Ordinario
 
Es 1,8-14.22; Salmo Responsoriale Dal Salmo 123 (124); Mt 10,34-11,1
 
Colletta
O Dio, che mostri agli erranti la luce della tua verità
perché possano tornare sulla retta via,
concedi a tutti coloro che si professano cristiani
di respingere ciò che è contrario a questo nome
e di seguire ciò che gli è conforme.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Deus caritas est 6: L’amore comprende la totalità dell’esistenza in ogni sua dimensione, anche in quella del tempo. Non potrebbe essere diversamente, perché la sua promessa mira al definitivo: l’amore mira all’eternità. Sì, amore è «estasi», ma estasi non nel senso di un momento di ebbrezza, ma estasi come cammino, come esodo permanente dall’io chiuso in se stesso verso la sua liberazione nel dono di sé, e proprio così verso il ritrovamento di sé, anzi verso la scoperta di Dio: «Chi cercherà di salvare la propria vita la perderà, chi invece la perde la salverà» (Lc 17,33), dice Gesù - una sua affermazione che si ritrova nei Vangeli in diverse varianti (cfr Mt 10,39; 16,25; Mc 8,35; Lc 9,24; Gv 12,25). Gesù con ciò descrive il suo personale cammino, che attraverso la croce lo conduce alla resurrezione: il cammino del chicco di grano che cade nella terra e muore e così porta molto frutto. Partendo dal centro del suo sacrificio personale e dell’amore che in esso giunge al suo compimento, egli con queste parole descrive anche l’essenza dell’amore e dell’esistenza umana in genere.
 
I Lettura: La mano dell’oppressore inizia a scrivere per gli Israeliti la dolorosa pagina della schiavitù.
L’Egitto “non sembra aver conosciuto una organizzazione regolare del lavoro forzato, ma la mano d’opera dei grandi lavori pubblici era reclutata in parte tra i prigionieri di guerra e gli schiavi addetti ai domini regali [cfr. per Israele 2Sam 12,31]. Gli israeliti hanno risentito come un’oppressione insopportabile la loro equiparazione a queste categorie inferiori: si comprende che essi abbiano voluto riprendere la vita libera del deserto, si comprende anche che gli egiziani abbiano considerato la loro proposta come una rivolta di schiavi” (Bibbia di Gerusalemme).
 
Vangelo
Sono venuto a portare non pace, ma spada.
 
Chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me... ascoltare questo insegnamento di Gesù a molti fa venire la pelle d’oca... sono pagine che danno fastidio, e che vorremmo strappare... e così, qualche volta, nella nostra insipienza riusciamo a neutralizzarle apportandovi becere correzioni secondo i nostri gusti. Ma è in questa pagina che troviamo il cuore della Buona Novella: la Croce, e soltanto la Croce può dare all’uomo, su questa terra, la vera pace, e, oltrepassati i confini della vita, la vera ed eterna beatitudine. Il tuo distintivo di cristiano non è nel crocifisso d’oro che porti al collo o vezzosamente come bijou sul bavero del tuo elegante tailleur. Potrai dimostrare di essere cristiano soltanto quando, mostrando le tue spalle, esse appariranno letteralmente scarnificate dal legno della Croce.
 
Dal Vangelo secondo Matteo
Mt 10,34-11,1
 
In quel tempo, Gesù disse ai suoi apostoli:
«Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; sono venuto a portare non pace, ma spada. Sono infatti venuto a separare l’uomo da suo padre e la figlia da sua madre e la nuora da sua suocera; e nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa.
Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me; chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me.
Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà.
Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato.
Chi accoglie un profeta perché è un profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto perché è un giusto, avrà la ricompensa del giusto.
Chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa».
Quando Gesù ebbe terminato di dare queste istruzioni ai suoi dodici discepoli, partì di là per insegnare e predicare nelle loro città.
 
Parola del Signore.
 
Pace e spada - Felipe F. Ramos (Commento alla Bibbia Liturgica): Abbiamo davanti a noi uno dei paradossi più vistosi. Sembrano parole in contrasto con le speranze nel Messia che doveva essere il principe della pace (Is 9,5); sono contrarie alle speranze di tutti gli uomini che lottano e lavorano per la pace; sono contrarie alla stessa parola di Gesù che ha proclamato beati tutti quelli che lavorano per la pace (5,9: saranno chiamati figli di Dio) e ha ordinato ai suoi discepoli di annunziare la pace.
È agevole uscire da questo tremendo paradosso? Naturalmente no, se lo si prende nel senso che gli è stato dato talvolta per giustificare la «guerra santa» o aspirazioni umane o intransigenze religiose. La spada o lotta portata da Gesù non è dichiarazione di guerra contro il resto dei mortali che non accettano la fede cristiana. I figli del tuono furono ripresi duramente per questa mentalità: «Vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?» (Lc 9,54-55) dissero; ma egli li rimproverò. Non si tratta della lotta dei discepoli contro altri uomini, ma di questi uomini contro i discepoli.
La spada-divisione è implicita nelle esigenze della presenza di Gesù. Lo stesso messaggio porta alla divisione: esige la rinunzia alle cose più amate, esige che nessuno e nulla sia al di sopra di lui nella scala dei valori che l’uomo deve trattare. Gerarchizzando questi valori, egli intende stare alla vetta; e non tutti, e anzi pochi sono disposti ad accettare questo criterio. Solo una fede profonda può farlo accettare. La divisione di cui si parla nel testo era già stata vissuta come esperienza nella Chiesa, subito dopo che il giudaismo ufficiale aveva lanciato il decreto di scomunica contro tutti quelli che avessero ammesso che Gesù era il Messia. Questo portò nelle famiglie la divisione a cui accenna il testo. Ma, al di sopra e al di là di questo livello sta l’esperienza della Chiesa, dei discepoli di Gesù che vogliono essere pienamente coerenti con la loro vocazione, con la chiamata del Signore e con le esigenze cristiane. L’esigenza che, a volte, è imposta ai discepoli di Gesù, di rinunziare a tutto e a tutti, anche alle cose più amate (8,22), va incontro all’incomprensione, alla divisione, alla lotta, la spada in azione, che è la stessa parola di Dio (Eb 4,12).
 
In quei giorni, sorse sull’Egitto un nuovo re, che non aveva conosciuto - Giuseppe René Motte e Pierre Grelot: 1. Funzione dell’Egitto nella storia sacra.- Tra le nazioni straniere con le quali Israele è stato in rapporto,nessuna forse manifesta meglio dell’Egitto l’ambiguità delle potenze temporali. Questa terra d’abbondanza è il rifugio provvidenziale dei patriarchi affamati (Gen 12,10; 42ss), dei proscritti (1 Re 11,40; Ger 26,21), degli Israeliti vinti (Ger 42s), di Gesù fuggiasco (Mt 2,13); ma con ciò stesso costituisce una tentazione facile per persone senza ideali (Es 14,12; Num 11,5,...).
Impero tronfio della sua forza, esso un tempo ha oppresso gli Ebrei (Es 1-13); e non di meno conserva il suo prestigio agli occhi di Israele durante i secoli in cui questo aspira alla grandezza temporale. David (2Sam 20,23-26) e soprattutto Salomone (1Re 4,1-6) si ispirarono al modello egiziano per organizzare la corte reale e l’amministrazione del regno. Se ne ricerca l’appoggio nei periodi di crisi, sia a Samaria (Os 7,11), sia a Gerusalemme (2 Re 17,4; 18,24; Is 30,1-5; Ger 2,18...; Ez 29,6s...).
Centro di cultura, esso ha contribuito all’educazione di Mosè (Atti 7,22), ed i sapienti ispirati sfruttano all’occasione la sua letteratura (specialmente Prov 22,17 - 23,11); ma, in cambio, è una è una terra di idolatria e di magia (Sap 15,14-19) la cui seduzione nefasta allontana gli Israeliti dal loro Dio (Ger 44,8 ...).
2. L’Egitto dinanzi a Dio. - Non è quindi sorprendente che ci sia un giudizio di Dio contro l’Egitto: al momento dell’esodo, per costringerlo a liberare Israele (Es 5-5; cfr. Sap 16-19); all’epoca regia, per punire questa potenza orgogliosa che promette ad Israele un aiuto vano (Is 30,1-7; 31,1-3; Ger 46; Ez 29-32), per umiliare questa nazione pagana sedotta dai suoi sapienti (Is 19,1-15). A tutti questi titoli esso continuerà a raffigurare simbolicamente le collettività umane votate all’ira di Dio (Apoc 11,8). Tuttavia, anche quando lo punisce in tal modo, Dio usa moderazione verso di esso: gli Egiziani rimangono sue creature, ed egli vorrebbe anzitutto distoglierli dal male (Sap 11,15-12, 2). E questo perché egli intende convertire infine l’Egitto ed unirlo al suo popolo, affinché impari a sua volta a servirlo (Is 19,16-25; Sal 87,4-7). Giudicato per il suoi peccati, esso parteciperà non di meno alla salvezza come tutte le altre nazioni.
 
Basilio Caballero - La croce, segno d’amore e di vita - A partire dal vangelo di oggi, la croce appare all’orizzonte cristiano come simbolo convincente della sequela di Gesù, perché è segno d’amore, come dare la vita per qualcuno. E questa è la suprema prova d’amore. Vedendo l’immagine di Cristo, crocifisso perché Dio amò così tanto l’uomo (Gv 3,16), si capisce che la croce e dare la vita per amore sono sinonimi per il discepolo di Gesù. Le sue parole sono più che espressioni metaforiche: egli vuole inculcarci un modo di pensare è uno stile di vita per realizzare ogni giorno la sequela che ci chiede.
Nei sacramenti, a partire dal battesimo, tutta la nostra vita cristiana è segnata con la croce di Cristo. La croce battesimale sulla nostra fronte, insieme all’acqua e allo Spirito, ci ha dato il nome di cristiani. Ma questo non è un titolo che si conferisce per eredità, e neanche honoris causa; bisogna superare le prove necessarie, ci dice oggi Gesù. « Chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me».
Per meditare, assimilare e trasmettere integralmente il messaggio di Cristo bisogna far parlare la croce nella vita del cristiano. Ricordare questa verità è dovere di chi è al servizio della parola, di chi educa alla fede e dei genitori cristiani verso i loro figli. Nostra gloria è la croce di Cristo, possiamo dire con san Paolo, perché è segno positivo di vita e non di morte, di liberazione e non di schiavitù.
La mistica della sequela attraverso la rinuncia e la croce è monopolio del cristianesimo, perché fu esclusiva dell’atteggiamento e della dottrina di Gesù e supera di molto l’ideale di tutte le religioni della storia. Non ha punti di paragone con le tecniche orientali del silenzio dei sensi e del nirvana delle passioni, né con l’atarassia o serenità dispregiativa degli stoici come Seneca. 
La rinuncia a se stessi e l’abnegazione cristiana non sono passività fatalista né droga o narcotico per calmare il dolore, il disprezzo e la persecuzione, ma attività feconda dell’amore che distrugge i criteri e i centri d’interesse dell’uomo vecchio, creando la vita dell’uomo nuovo, cioè di Cristo e del discepolo che si incorpora a lui attraverso la fede del battesimo.
Gesù conclude oggi il discorso missionario parlando di ricompensa per chi accoglierà i suoi inviati. La sua richiesta di fedeltà incondizionata ha una contropartita gratificante a misura di colui del quale ci siamo fidati. Ogni sacrificio, lavoro e sforzo per il regno di Dio e ogni servizio prestato al fratello, fosse solo un bicchiere d’acqua fresca, non resteranno senza ricompensa.
 
Giovanni Crisostomo (Commento al Vangelo di Matteo 35, 2): Gesù parla in tal modo per rendere al tempo stesso i figli più forti, quando è in causa l’amore di Dio, e i genitori, che volessero ostacolarli, più miti e ragionevoli. Costatando che Dio ha tale forza e potenza da attirare a sé i figli degli uomini, separandoli dai loro genitori, questi ultimi desisteranno dall’opporsi, ben comprendendo che tutti i loro sforzi in tal senso sarebbero inutili. Ecco perché in questo passo Gesù si rivolge solo ai fiali, e non indirizza le sue parole anche ai padri, i quali, però, dalle sue parole sono avvertiti di non tentare mai di allontanare da Dio i loro figli trattandosi di impresa impossibile. Ma affinché i padri non rimangano indignati e non si ritengano offesi da questo comando ch’egli rivolge ai giovani, osservate come prosegue il suo di orso. Dopo aver detto: «Se uno viene a me senza disamare il proprio padre e la madre», aggiunge subito, «e persino la propria vita». Credete voi - egli dice in sostanza - che io vi chieda soltanto di rinunziare ai vostri genitori, ai vostri fratelli, alle vostre sorelle, alle vostre spose?
Non c’è niente di più strettamente unito all’uomo della sua vita: ebbene, se non giungerete a disprezzare anche quella, io non vi considererò né vi tratterò certo da amici, ma in modo del tutto contrario.
 
Il Santo del Giorno - 14 Luglio 2025 - San Camillo de Lellis. La profezia della cura, volto di un Dio che guarisce: È la profezia della cura il messaggio più prezioso dell’eredità umana e spirituale lasciataci da san Camillo de Lellis. Nel suo apostolato fu testimone di un Dio che si fa compagno dell’umanità, soprattutto nei momenti di sofferenza e difficoltà. Nato a Bucchianico (Chieti) nel 1550 in una famiglia nobile intraprese la carriera militare, ma a causa di una piaga al piede per un periodo fu ricoverato a Roma. Riprese le armi, fu rovinato dal vizio del gioco, che lo portò a perdere tutti i suoi averi. Si ritrovò così al servizio dei frati cappuccini di San Giovannni Rotondo. Nel 1575 fu ricoverato nuovamente all’ospedale di San Giacomo degli Incurabili a Roma e lì finalmente trovò la sua strada: si mise a servire con dedizione e delicatezza i compagni malati ed ebbe l’idea di fondare una congregazione votata a questa attività. Nacquero così nel 1582 i Ministri degli Infermi, i Camilliani: l’esperienza militare del fondatore fu una risorsa preziosa per modernizzare l’assistenza ai malati, che prese così una forma più organizzata. De Lellis morì nel 1614 a Roma. Fu beatificato il 7 aprile 1742 e canonizzato il 29 giugno 1746 da Benedetto XIV. Con san Giovanni di Dio, tra l’altro, è patrono degli ospedali e dei malati dal 1886 e degli infermieri dal 1930. (Avvenire)
 
O Signore, che ci hai nutriti con i tuoi doni,
fa’ che per la celebrazione di questi santi misteri
cresca in noi il frutto della salvezza.
Per Cristo nostro Signore.
 
 
 
 13 Luglio 2025
 
XV Domenica Tempo Ordinario
 
Dt 30,10-14; Salmo Responsoriale Dal Salmo 18 (19); Col 1,15-20; Lc 10,25-37
 
Colletta
Padre misericordioso,
che nel comandamento dell’amore
hai portato a compimento la legge e i profeti,
donaci un cuore capace di misericordia
affinché, a immagine del tuo Figlio,
ci prendiamo cura dei fratelli
che sono nel bisogno e nella sofferenza.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Deus caritas est 15: La parabola del buon samaritano (cfr. Lc 10,25-37) conduce soprattutto a due importanti chiarificazioni. Mentre il concetto di «prossimo» era riferito, fino ad allora, essenzialmente ai connazionali e agli stranieri che si erano stanziati nella terra d’Israele e quindi alla comunità solidale di un paese e di un popolo, adesso questo limite viene abolito. Chiunque ha bisogno di me e io posso aiutarlo, è il mio prossimo. Il concetto di prossimo viene universalizzato e rimane tuttavia concreto. Nonostante la sua estensione a tutti gli uomini, non si riduce all’espressione di un amore generico ed astratto, in se stesso poco impegnativo, ma richiede il mio impegno pratico qui ed ora. Rimane compito della Chiesa interpretare sempre di nuovo questo collegamento tra lontananza e vicinanza in vista della vita pratica dei suoi membri. Infine, occorre qui rammentare, in modo particolare, la grande parabola del Giudizio finale (cfr. Mt 25,31-46), in cui l’amore diviene il criterio per la decisione definitiva sul valore o il disvalore di una vita umana. Gesù si identifica con i bisognosi: affamati, assetati, forestieri, nudi, malati, carcerati. «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). Amore di Dio e amore del prossimo si fondono insieme: nel più piccolo incontriamo Gesù stesso e in Gesù incontriamo Dio.
 
Prima Lettura: Mosè, alla vigilia di entrare nella terra promessa, rivolge tre discorsi a Israele. Come condizione per possedere e godere la terra promessa raccomanda l’osservanza della legge di Dio, proponendo per la seconda volta il decalogo e il codice. La Legge è la base irrinunciabile di ogni convivenza civile, di ogni moralità. Per il credente questo assunto si fa più forte perché per lui la fonte della Legge è Dio.
 
Seconda Lettura: La comunità cristiana di Colossi è scossa da una dottrina d’origine ebraica e pagana. Contro aberranti teorie che esaltano il ruolo di misteriose potenze celesti, Paolo propone una riflessione approfondita sulla persona e sul ruolo di Cristo, «capo» della Chiesa e dell’intero creato. L’inno cristologico è composto da due strofe che celebrano Cristo come il primogenito di tutta la creazione e come il primogenito dei morti: alla «cristologia cosmica della prima strofa corrisponde la soteriologia cosmica della seconda strofa. Creazione e redenzione sono rapportate reciproca­mente. Cristo in quanto esaltato nella redenzione cosmica è anche come il detentore di una sovranità cosmica, quella che presiede e orienta tutta la creazione» (Mauro Orsatti).
 
Vangelo
Chi è il mio prossimo?
 
I personaggi del racconto evangelico appartengono a due mondi contrapposti, «l’un contro l’altro armato» (Alessandro Manzoni): da una parte il Samaritano, lo straniero ed eretico (Cf. Gv 8,48; Lc 9,53), dal quale non si attenderebbe normalmente che odio e dall’altra il sacerdote e il levita, coloro che in Israele sono maggiormente tenuti a osservare la legge della carità. Quest’ultimi sono convinti di amare Dio anche se lasciano morire per strada chi ha avuto la disavventura di incappare nei briganti: non si accorgono che è una pura scempiaggine credere di amare Dio disprez­zando il prossimo. La religione che separa totalmente il religioso dal profano, che ha cura del rito senza integrarlo con la morale, che non assomma il culto con la carità, è praticamente una religione atea con pericolosi propensioni al fanatismo e all’idolatria.
 
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 10,25-37
 
In quel tempo, un dottore della Legge si alzò per mettere alla prova Gesù e chiese: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?». Costui rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso». Gli disse: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai».
Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è mio prossimo?». Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gèrico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levìta, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. Invece un Sa- maritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: “Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ri- torno”. Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». Quello rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ così».
 
Parola del Signore.
 
Un uomo scendeva... - Solo Luca parla di questo episodio. Il «dottore della Legge» che si «alza» per mettere alla prova Gesù è un esperto della Legge e trascinare intenzio­nalmente il giovane maestro di Nazaret in questioni riguardanti la Legge era come spingerlo sulle sabbie mobili. La domanda posta a Gesù, - che devo fare per ereditare la vita eterna? -, era di vitale importanza per ogni ebreo e la preoccupazione del dottore della Legge non è sul piano teorico, ma pratico (Cf. Lc 18,18). Non era facile districarsi in una selva di precetti e trovarvi la via che conduceva alla vita eterna. Basti pensare che il numero dei precetti della Torà era ben 613, di cui 248 precetti positivi e 365 precetti negativi.
Alla domanda del leguleio, Gesù risponde a sua volta con una domanda in modo che sia lo stesso interlocutore a dare la risposta. Quando il dottore della Legge cita la sacra Scrittura, e precisamente: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza... » (Dt 6,5) e la legge parallela «amerai il tuo prossimo come te stesso» (Lev 19,18), Gesù gli dice che ha risposto corretta­mente e lo invita a comportarsi di conseguenza.
Il monito fa’ questo (tu fa’ così) è ripetuto anche alla fine della parabola per sottolineare l’importanza della pratica di vita di cui certamente difettava il borioso dottore della Legge, il quale volendosi giustificare chiede a Gesù: «E chi è mio prossimo?».
La risposta per l’interlocutore era in verità già scontata. In linea di massima, il prossimo, per un Giudeo, era il connazionale o lo straniero che dimorava in Israele (Cf. Lev 19,33-34). Più tardi saranno considerati prossimo i pagani convertiti.
Da questa lista certamente erano esclusi i nemici e sopra tutto i Samaritani. Secondo Rinaldo Fabris, al tempo di Gesù erano state aggiunte altre restrizioni, «per cui praticamente il prossimo era il membro della setta o del gruppo religioso [farisei, esseni, zeloti, ecc.]. È su questo sfondo che deve essere trascritto il racconto magistrale di Gesù».
Gesù, a questo punto, perché sia più chiara la sua esortazione, narra la parabola dell’uomo incappato nei briganti. Di proposito gli attori del racconto sono un sacerdote, un levita e un Samarita­no. I primi due, consci di essere gli «eletti» rappre­sentanti religiosi dell’ebraismo, appartengono al popolo d’Israele; il Samaritano invece a un popolo considerato dai Giudei eretico, pagano. Un’antica ferita che si perdeva nella notte dei tempi quando Sargon re degli Assiri, nel 721 a.C., aveva conquistato il regno del Nord deportando i suoi abitanti e al loro posto erano state trasferite genti di altre nazioni (Cf. 2Re 17) che si erano amalgamate con i pochi rimasti in patria. Anche in campo religioso si era creato un sincretismo che aveva spinto i Giudei scampati all’esilio, e che erano ritornati nella loro terra, a considerare i Samaritani come popolo misto.
Gesù nel raccontare la parabola, di propo­sito, opera uno spostamento di accento, dall’oggetto al soggetto. Mentre il dottore della Legge aveva chiesto chi doveva essere oggetto del suo amore, Gesù fa vedere il soggetto, chi è colui che ama veramente; al dottore della Legge che chiedeva chi fosse il prossimo da amare, Gesù gli insegna come lui avrebbe dovuto diventare prossi­mo. Praticamente, Gesù chiede al dottore della legge di rientrare in se stesso e di verificare in che modo egli si pone nei confronti degli altri, quali relazioni costruisce con gli altri. Al termine della parabola, il saccente custode della Legge scopre il senso dell’insegnamento di Gesù: come il Samaritano deve avere il coraggio di farsi prossimo di chi nell’immediato ha bisogno del suo aiuto senza stare a sofisticare in questioni di lana capri­na. Una bella lezione per chi era abituato a «filtrare il moscerino» (Mt 23,24). Non va poi dimenticato il senso cristologico della parabola: il buon Samaritano è Gesù che nell’amare l’umanità rivela e realizza l’infinito amore del Padre per tutti gli uomini. In questa ottica l’amore verso il prossimo, che con la parabola viene comandato a tutti i discepoli, deve essere interpretato come continuazione dell’amore di Gesù, come insegnano le sue stesse parole: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 15,34).
 
Obbedirai alla voce del Signore - Giuseppe Barbaglio: Il motivo tematico è espresso in greco con il verbo hypakouein e il sostantivo corrispondente hypakoé. In ebraico vi corrisponde il verbo shama’, che vuol dire «ascoltare», non solo l’atto di udire ma soprattutto l’adesione alla parola. Dunque nel tema dell’ascolto, proprio dell’Antico Testamento, è compresa la realtà dell’obbedienza. Di fatto, hypakouein-hypako é è terminologia preferita da Paolo che vi esprime contenuti teologici rilevanti.
Altri termini greci da tener presenti sono peitharchein (obbedire: Cf. At 5,29; 5,32; 27,21; Tt 3,1); peithesthai che a volte presenta il significato di obbedire, soprattutto per indicare l’adesione di fede; parako-uein-parakoé (dissobedire-disobbedienza).
La testimonianza dell’Antico Testamento - A volte la traduzione greca rende il verbo shama’ (= ascoltare) con hypakouein (= obbedire).
In Gn 22,18 e 26,5 si afferma l’obbedienza di Abramo, in particolare quando si dimostrò pronto a sacrificare il figlio e, più in generale, quando aderì alla parola di Jahvé. Per questo Dio conferma a lui e alla sua discendenza la promessa solenne, già giurata all’inizio, quando fu chiamato a lasciare Ur dei caldei e a venire in un paese sconosciuto. Un’obbedienza esemplare, che la lettera agli Ebrei richiamerà nella sua esortazione ai credenti: «Per fede Abramo chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava» (11,8).
Nel libro del Levitico poi le maledizioni divine sono minacciate a quanti disobbediscono a Jahvé: «Se non mi obbedirete», dice Jahvé, vi capiterà questo e quest’altro ancora (26,14.18.21.27).
Positivamente, invece, Dio dichiara che egli sarà il Dio d’Israele, se questi obbedirà alla sua voce (Dt 26,17).
In Sir 24,22 poi si parla dell’obbedienza alla sapienza. Ma più spesso si parla dell’in­vito della sapienza rivolto agli israeliti perché l’ascoltino.
Infine, gravi pene vengono comminate al figlio che si ribella ai genitori: «Se un uomo avrà un figlio testardo e ribelle che non obbedisce alla voce né di suo padre né di sua madre e, benché l’abbiano castigato, non dà loro retta, suo padre e sua madre lo prenderanno e lo condurranno dagli anziani della città, alla porta del luogo dove abita, e diranno agli anziani della città: Questo nostro figlio è testardo e ribelle; non vuole obbedire alla nostra voce, è uno sfrenato e un bevitore. Allora tutti gli uomini della sua città lo lapideranno ed egli morirà; così estirperai da te il male e tutto Israele lo saprà e avrà timore» (Dt 21,18-21).
È tutto e, come si vede, è poco. In realtà, come già detto sopra, il tema dell’obbedienza nell’Antico Testamento si identifica con quello dell’ascolto.
L’obbedienza a Dio - Di grande rilievo è senz’altro, nel Nuovo Testamento, la dichiarazione degli apostoli diffidati dal fare propaganda a favore di Gesù: «Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (At 5,29). Il comando delle autorità di Gerusalemme, che proibiscono agli apostoli la predicazione cristiana, non solo può, ma deve essere disatteso, perché in contrasto con il volere di Dio che li ha mandati a testimoniare la morte e risurrezione del suo Figlio. In altre parole, l’obbedienza ad autorità umane non può essere assolutizzata; c’è un’istanza superiore, di fronte a cui viene meno.
Sempre gli Atti parlano della disobbedienza degli israeliti a Mosè, in ultima analisi a Dio che mediante Mosè guidava il cammino del popolo nel deserto verso la terra (7,39). E in proposito la lettera agli Ebrei aggiunge che quanti sono stati disobbedienti nel deserto non sono potuti entrare nella terra, nel riposo (3,18 e 4,6). Anche At 26,19 rientra in questo quadro teologico: Paolo dichiara davanti al re Agrippa che egli non è stato ribelle/disobbediente alla visione celeste sulla via di Damasco; giustifica così la sua attività apostolica di annuncio cristiano: all’origine c’è un espresso comando di Dio.
 
Gesù è il buon samaritano - Ambrogio, Esposizione del Vangelo secondo Luca 7, 74: Non è di poco conto questo samaritano, il quale non disdegnò anche lui quell’uomo che il sacerdote, che il levita aveva disdegnato. E non stimarlo poco a motivo del nome della setta, perché lo ammirerai quando avrai conosciuto la traduzione dell’appellativo: la parola «samaritano» significa «custode». Questa è la spiegazione. E chi è il custode, se non Colui del quale è stato detto: Il Signore custodisce i piccoli (Sal 114, )?
Perciò, come vi è un Giudeo secondo la lettera, e uno secondo lo spirito, così vi è un samaritano che si vede e uno nascosto. Questo samaritano, che stava scendendo - chi è Colui che è disceso dal cielo, se non colui che è asceso al cielo, il Figlio dell’ uomo che è nel cielo (Gv 3, 13)? -, vedendolo mezzo morto, poiché nessuno prima era stato capace di curarlo, [ ... ] si accostò a lui, cioè: si fece simile a noi avendo preso sopra di sé la nostra compassione, e si fece vicino donandoci la sua misericordia.
 
Il Santo del giorno: 13 Luglio 2025: Sant’Enrico II, Imperatore: Enrico nacque sulle rive del Danubio il 6 maggio del 973. Il giovane principe venne affidato dalla madre alle cure dei canonici di Hildesheim e, in seguito, a quelle del vescovo di Regensburg (Ratisbona), san Wolfgang, alla cui scuola si formò culturalmente e spiritualmente. Crebbe in un ambiente cristiano. Il fratello Bruno divenne vescovo di Augsburg (Augusta), una sorella si fece monaca e l’altra sposò un futuro santo, il re d’Ungheria Stefano. Un episodio, dal sapore leggendario, contribuì a mantenerlo sulla retta via: a 23 anni gli apparve in sogno il suo precettore, morto da poco, che tracciava sul muro della camera le seguenti parole: «Fra 6». Enrico le interpretò come una predizione di morte, pensando che la sua ora sarebbe arrivata di lì a 6 giorni; invece i 6 giorni passarono e non successe nulla. Allora Enrico pensò si trattasse di 6 mesi e si preparò all’evento con pii esercizi; ma neanche dopo 6 mesi la morte lo portò via, ed egli ringraziò Dio per avere ancora 6 anni a disposizione. Trascorsi i 6 anni, Enrico si trovò sul trono di Germania spiritualmente ben fortificato per non cadere nelle tentazioni della mondanità. Nel 1014 quando “già re di Germania e d’Italia” Papa Benedetto VIII, lo incoronò a guida del Sacro Romano Impero. Nel corso della sua vita, Enrico governò con fermezza e al tempo stesso con moderazione, promosse la riforma del clero e dei monasteri. Raro esempio di correttezza civile, di onestà morale e di santità, tra i consiglieri ebbe Odilone, abate di Cluny, centro di riforma della Chiesa. Morì il 13 luglio 1024 e fu sepolto a Bamberga. Fu lui a sollecitare l’introduzione del Credo nella Messa domenicale. 
 
O Signore, che ci hai nutriti con i tuoi doni,
fa’ che per la celebrazione di questi santi misteri
cresca in noi il frutto della salvezza.
Per Cristo nostro Signore.