16 Settembre 2024
 
Santi Cornelio, Papa e Cipriano, Vescovo, Martiri
 
1Cor 11,17-26.33; Salmo Responsoriale Dal Salmo 39 (40); Lc 7,1-10
 
Colletta
O Dio, che hai dato al tuo popolo i santi Cornelio e Cipriano,
pastori generosi e martiri intrepidi,
per la loro intercessione rendici forti e perseveranti nella fede
e fa’ che operiamo assiduamente per l’unità della Chiesa.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Significato di martirio - Catechismo della Chiesa Cattolica 2473 Il martirio è la suprema testimonianza resa alla verità della fede; il martire è un testimone che arriva fino alla morte. Egli rende testimonianza a Cristo, morto e risorto, al quale è unito dalla carità. Rende testimonianza alla verità della fede e della dottrina cristiana. Affronta la morte con un atto di fortezza. «Lasciate che diventi pasto delle belve. Solo così mi sarà concesso di raggiungere Dio»
Comportamento dei martiri - 2113 L’idolatria non concerne soltanto i falsi culti del paganesimo. Rimane una costante tentazione della fede. Consiste nel divinizzare ciò che non è Dio. C’è idolatria quando l’uomo onora e riverisce una creatura al posto di Dio, si tratti degli dèi o dei demoni (per esempio il satanismo), del potere, del piacere, della razza, degli antenati, dello Stato, del denaro, ecc. «Non potete servire a Dio e a mammona», dice Gesù (Mt 6,24). Numerosi martiri sono morti per non adorare «la Bestia», rifiutando perfino di simularne il culto. L’idolatria respinge l’unica Signoria di Dio; perciò è incompatibile con la comunione divina.
Atti dei martiri - 2474 Con la più grande cura la Chiesa ha raccolto le memorie di coloro che, per testimoniare la fede, sono giunti sino alla fine. Si tratta degli atti dei martiri. Costituiscono gli archivi della verità scritti a lettere di sangue:  
«Nulla mi gioverebbe tutto il mondo e tutti i regni di quaggiù; per me è meglio morire per [unirmi a] Gesù Cristo, che essere re sino ai confini della terra. Io cerco colui che morì per noi; io voglio colui che per noi risuscitò. Il parto è imminente...».  
«Ti benedico per avermi giudicato degno di questo giorno e di quest’ora, degno di essere annoverato tra i tuoi martiri [...]. Tu hai mantenuto la tua promessa, o Dio della fedeltà e della verità. Per questa grazia e per tutte le cose, ti lodo, ti benedico, ti rendo gloria per mezzo di Gesù Cristo, Sacerdote eterno e onnipotente, Figlio tuo diletto. Per lui, che vive e regna con te e con lo Spirito, sia gloria a te, ora e nei secoli dei secoli. Amen».
Culto dei martiri - 957 La comunione con i santi. «Non veneriamo la memoria dei santi solo a titolo d’esempio, ma più ancora perché l’unione di tutta la Chiesa nello Spirito sia consolidata dall’esercizio della fraterna carità. Poiché come la cristiana comunione tra coloro che sono in cammino ci porta più vicino a Cristo, così la comunione con i santi ci unisce a Cristo, dal quale, come dalla fonte e dal capo, promana tutta la grazia e tutta la vita dello stesso popolo di Dio»:
«Noi adoriamo Cristo quale Figlio di Dio, mentre ai martiri siamo giustamente devoti in quanto discepoli e imitatori del Signore e per la loro suprema fedeltà verso il loro Re e Maestro; e sia dato anche a noi di farci loro compagni e condiscepoli».
Quando, nel ciclo annuale, la Chiesa fa memoria dei martiri e degli altri santi, essa «proclama il mistero pasquale» in coloro «che hanno sofferto con Cristo e con lui sono glorificati; propone ai fedeli i loro esempi, che attraggono tutti al Padre per mezzo di Cristo, e implora per i loro meriti i benefici di Dio».
 
I Lettura: La comunità cristiana di Corinto è una comunità divisa, litigiosa, e ancora paganeggiante. Anche nella frazione comune alligna la divisione: Ciascuno infatti, quando siete a tavola, comincia a prendere il proprio pasto e così uno ha fame, l’altro è ubriaco. Una triste testimonianza, all’insegna della divisione e dell’egoismo. Con questi prodromi non è cristiano né ragionevole sedersi attorno a un comune desco.
Perciò, fratelli miei, quando vi radunate per la cena, aspettatevi gli uni gli altri: concludendo “il brano, Paolo fa delle raccomandazioni di carattere pratico: leucarestia non si celebri prima che tutta la comunità sia riunita (v. 33); ogni banchetto, che non sia quello eucaristico, sia escluso dalla riunione sacra; si elimi perciò l’«agape» fraterna, che servirebbe solo alle intemperanze dei più affamati (v. 34)” (Settimio Cipriani, Le Lettere di Paolo).
 
Vangelo
Neanche in Israele ho trovato una fede così grande.
 
Signore, non disturbarti! Io non sono degno che tu entri sotto il mio tetto; per questo io stesso non mi sono ritenuto degno di venire da te: gli amici del centurione suggeriscono queste parole a Gesù perché era ben noto che a un Giudeo osservante era proibito entrare in una casa pagana. Delicatezza, parole suggerite anche dalla volontà di non urtare la sensibilità dei farisei, certamente presenti all’incontro. Poi, dopo questa affermazione, il centurione fa inaspettatamente una professione di fede in sintonia con il suo essere un soldato: ma di’ una parola e il mio servo sarà guarito. Anch’io infatti sono nella condizione di subalterno e ho dei soldati sotto di me e dico a uno: “Va’!”, ed egli va; e a un altro: “Vieni!”, ed egli viene; e al mio servo: “Fa’ questo!”, ed egli lo fa. Il centurione voleva giustificare il proprio rispetto verso Gesù. Egli conosceva bene la disciplina militare, e l’esercitava sui propri soldati essendone sempre obbedito; quindi, alla stessa maniera, Gesù esercitasse la sua potenza, pronunciasse una sola parola e il suo comando sarebbe subito riconosciuto ed eseguito dalle forze della natura che opprimevano il moribondo. Gesù fu pieno d’ammirazione per il centurione, e all’istante la parola attesa dalla bocca del Maestro fu pronunciata, e il servo malato guarì nello stesso istante. Io vi dico che neanche in Israele ho trovato una fede così grande!: alla luce di questa solenne lode, possiamo affermare che il vero miracolo è quello del pagano che giunge alla fede. Luca ha visto nel centurione di Cafarnao un modello e un anticipo dei pagani simpatizzanti, che entrano a far parte della comunità cristiana.
 
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 7,1-10
 
In quel tempo, Gesù, quando ebbe terminato di rivolgere tutte le sue parole al popolo che stava in ascolto, entrò in Cafàrnao.
Il servo di un centurione era ammalato e stava per morire. Il centurione l’aveva molto caro. Perciò, avendo udito parlare di Gesù, gli mandò alcuni anziani dei Giudei a pregarlo di venire e di salvare il suo servo. Costoro, giunti da Gesù, lo supplicavano con insistenza: «Egli merita che tu gli conceda quello che chiede – dicevano –, perché ama il nostro popolo ed è stato lui a costruirci la sinagoga».
Gesù si incamminò con loro. Non era ormai molto distante dalla casa, quando il centurione mandò alcuni amici a dirgli: «Signore, non disturbarti! Io non sono degno che tu entri sotto il mio tetto; per questo io stesso non mi sono ritenuto degno di venire da te; ma di’ una parola e il mio servo sarà guarito. Anch’io infatti sono nella condizione di subalterno e ho dei soldati sotto di me e dico a uno: “Va’!”, ed egli va; e a un altro: “Vieni!”, ed egli viene; e al mio servo: “Fa’ questo!”, ed egli lo fa».
All’udire questo, Gesù lo ammirò e, volgendosi alla folla che lo seguiva, disse: «Io vi dico che neanche in Israele ho trovato una fede così grande!». E gli inviati, quando tornarono a casa, trovarono il servo guarito.
 
Parola del Signore.
 
Fede di un pagano - Richard Gutzwiller: (Meditazioni su Luca)[Il centurione romano pagano] sa che il suo incontro con Gesù sarà l’incontro dell’impotente con l’Onnipotente. Ed esprime questa sua consapevolezza con le parole: «Io non son degno che tu entri sotto il mio tetto. Ma di’ solo una parola e il mio servo sarà guarito». L’impotenza non può ricevere l’Onnipotenza. Per l’Onnipotente basta dire solo una parola. Egli comanda sulla malattia, sulla morte e sulla vita, come un ufficiale sulle sue truppe.
Non così chiara appariva questa verità ai Giudei. Manca loro la coscienza della propria debolezza e quindi anche la coscienza della potenza di Dio in Gesù. Mentre questo pagano dice: «Io non son degno», i giudei dicono con la loro baldanza: «egli è degno di questo, egli lo merita». Essi non sanno che di fronte a Dio non c’è nessuna dignità e che a rigore non c’è nessun merito, ma che tutto è grazia donata gratuitamente, concessa all’uomo che ne è indegno.
Essi manifestano la loro persuasione della dignità e del merito quando pongono in rilievo che «egli ama il nostro popolo e ha edificato la Sinagoga».
Non è quindi la grandezza di Dio, quella che conta, ma il loro vantaggio. Chi li aiuta merita, secondo la loro mentalità, ricompensa da Dio e ne diventa degno.
Accanto a questo grande senso di distanza, che troviamo nella fede del centurione, sta questa condotta meschina ed egoistica, tanto lontana dalla condotta di Dio e dalla sua inaccessibile grandezza. Perciò la risposta di Gesù suona: «Non ho trovato tanta fede in Israele », Egli guarisce l’infermo, confermando così la rettitudine della fede del centurione romano.
La Chiesa ha accolto questa espressione di fede del pagano nella sua liturgia e ogni giorno nella celebrazione della Messa, nel momento in cui l’Onnipotenza si accosta in Gesù Cristo alla debolezza dell’uomo, vuole che gli uomini ripetano l’umile espressione di fede del soldato romano: «Signore, non son degno che tu entri sotto il mio tetto». La vera fede riconosce la distanza, la larghezza e la profondità dell’abisso che intercorre tra Dio Onnipotente e l’uomo impotente e sa che all’uomo si addice soltanto l’umile preghiera, perché un ponte su questo abisso può essere gettato solo da Dio. La fede è, qui in terra, l’incontro di Dio Onnipotente con l’uomo impotente.
 
Jean Duplacy: 1. La fede pasquale. - Questo passo fu compiuto quando i discepoli, dopo molte esitazioni in occasione delle apparizioni di Gesù (Mt 28,17; Mc 16,11-14; Lc 24,11), credettero alla sua risurrezione. Testimoni di tutto ciò che Gesù ha detto e fatto (Atti 10,39), essi lo proclamano «Signore e Cristo», nel quale sono compiute invisibilmente le promesse (2,33-36). Ora la loro fede è capace di giungere «fino al sangue» (cfr. Ebr 12,4). Essi chiamano i loro uditori a condividerla per beneficiare della promessa ottenendo la remissione dei loro peccati (Atti 2,38s; 10,43). La fede della Chiesa è nata.
2. La fede nella parola. - Credere significa innanzitutto accogliere questa predicazione dei testimoni, il vangelo (Atti 15,7; 1Cor 15,2), la parola (Atti 2,41; Rom 10,17; 1Piet 2,8), confessando Gesù come Signore (1Cor 12,3; Rom 10,9; cfr. 1Gv 2,22). Questo messaggio iniziale, trasmesso come una tradizione (1Cor 15,1-3), potrà arricchirsi e precisarsi in un insegnamento (1Tim 4,6; 2 Tim 4,1-5): questa parola umana sarà sempre, per la fede, la parola stessa di Dio (1Tess 2,13). Riceverla, vuol dire per il pagano abbandonare gli idoli e rivolgersi al Dio vivo e vero (1Tess 1,8ss), significa per tutti riconoscere che il Signore Gesù porta a compimento il disegno di Dio (Atti 5,14; 13,27-37; cfr. 1Gv 2,24). Significa, ricevendo il battesimo, confessare il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo (Mt 28,19).
Questa fede, come constaterà Paolo, apre all’intelligenza «i tesori di sapienza e di scienza (conoscenza)» che sono in Cristo (Col 2,3): la sapienza stessa di Dio rivelata dallo Spirito (1Cor 2), cosi diversa dalla sapienza umana (1Cor 1,17-31; cfr. Giac 2,1-5; 3,13-18; cfr. Is 29,14) e la conoscenza di Cristo e del suo amore (Fil 3,8; Ef 3,19; cfr. 1 Gv 3,16).
3. La fede e la vita del battezzato. - Condotto dalla fede sino al battesimo e alla imposizione delle mani che lo fanno entrare pienamente nella Chiesa, colui che ha creduto nella parola partecipa all’insegnamento, allo spirito, alla «liturgia» di questa Chiesa (Atti 2,41-46). In essa infatti Dio realizza il suo disegno operando la salvezza di coloro che credono (2,47; 1Cor 1,18): la fede si manifesta nell’obbedienza a questo disegno (Atti 6,7; 2Tess 1,8). Si dispiega nell’attività (1Tess 1,3; Giac l,21 ) di una vita morale fedele alla legge di Cristo (Gal 6,2; Rom 8,2; Giac 1,25; 2, 12); agisce per mezzo dell’amore fraterno (Gal 5,6; Giac 2,14-26). Si conserva in una fedeltà capace di affrontare la morte sull’esempio di Gesù (Ebr 12; Atti 7,55-60), in una fiducia assoluta in colui «nel quale ha creduto» (2Tim 1,12; 4,17s). Fede nella parola, obbedienza nella fiducia, questa è la fede della Chiesa, che separa coloro i quali si perdono - l’eretico, per esempio (Tito 3,10) - da coloro che sono salvati (2Tess 1,3-10; 1Piet 2,7s; Mc 16,16).
 
Guarigione del servo del centurione - Efrem, Diatessaron, 6, 22: Il centurione si presentò con gli anziani del popolo e chiese al Signore di non disdegnare di andare a salvare il suo servo. E siccome il Signore aveva accettato di andare con lui (cf. Lc 7,3-6; Mt 8,5-7), “egli aggiunse: Signore, non disturbarti, ma di’ soltanto una parola e il mio servo sarà guarito” (Lc 7,6-7). “Quando il Signore ebbe sentito ciò, ne rimase ammirato” (Lc 7,9). Dio ha ammirato un uomo. “E disse: Non ho mai trovato una tal fele in Israele” (Mt 8,10), per confondere gli Israeliti che non avevano creduto in lui, come invece faceva quello straniero. Il centurione aveva condotto con sé degli Israeliti e li aveva portati per servirsene come avvocati, ma essi furono ripresi, perché non avevano la fede del centurione. Ecco perché: “Essi andranno nelle tenebre esteriori” (Mt 8,12).
 
Il Santo del Giorno - 16 Settembre 2024 - Santi Cornelio, Papa e Cipriano, Vescovo, Martiri: La via della penitenza e del perdono per riaccogliere chi si è allontanato - Cosa viene prima? Il dogma o la misericordia?
La domanda non è così banale e non ha nemmeno una risposta scontata, perché ha attraversato - e ancora oggi attraversa - la vita della Chiesa fin dalle sue origini. Nei primi secoli la questione si pose di fronte a coloro che, dopo un’abiura della fede, a causa delle persecuzioni, chiedevano di essere riammessi alla vita della comunità cristiana. Il dibattito vedeva contrapposti coloro che erano disposti a riaccogliere queste persone e quelli che non ne volevano sapere. Il problema, che nasceva anche dal fatto che il perdono vissuto in una forma sacramentale di fatto non era ancora stato introdotto, rischiava di compromettere l’unità della Chiesa, come dimostra l’elezione di un antipapa, Novaziano, sostenitore del rigorismo. Cornelio, che fu Papa dal 251 al 253, e Cipriano, vescovo di Cartagine, si ritrovarono in sintonia sulla via dell’accoglienza, accompagnata da un percorso di penitenza, unendo così misericordia e verità. Cornelio era originario di Roma e venne scelto per le sue doti di umiltà e bontà. Cipriano era nato a Cartagine verso il 210 ed era stato scelto come vescovo dopo tre anni dalla sua conversione al cristianesimo. A unirli fu anche il martirio: Cornelio morì in esilio nel 253, Cipriano, che fu condannato a morte mentre si trovava in clandestinità a causa della persecuzione, fu decapitato nel 258. (Avvenire)
 
La partecipazione a questi santi misteri, o Signore,
ci confermi con la forza del tuo Spirito,
perché sull’esempio dei martiri Cornelio e Cipriano
possiamo rendere testimonianza alla verità del Vangelo.
Per Cristo nostro Signore.
 
 
 
 
 
15 Settembre 2024
 
XXIV Domenica T. O.
 
Is 50,5-9a; Salmo Responsoriale Dal Salmo 114 (116); Gc 2,14-18; Mc 8,27-35
 
Colletta
O Padre, che conforti i poveri e i sofferenti
e tendi l’orecchio ai giusti che ti invocano,
assisti la tua Chiesa che annuncia il Vangelo della croce, 
perché creda con il cuore
e confessi con le opere che Gesù è il Messia.
Egli è Dio, e vive e regna con te.
 
La confessione di Simone - Benedetto XVI (Omelia 29 Giugno 2007)Secondo tutti gli Evangelisti, la confessione di Simone avviene in un momento decisivo della vita di Gesù, quando, dopo la predicazione in Galilea, Egli si dirige risolutamente verso Gerusalemme per portare a compimento, con la morte in croce e la risurrezione, la sua missione salvifica. I discepoli sono coinvolti in questa decisione: Gesù li invita a fare una scelta che li porterà a distinguersi dalla folla per diventare la comunità dei credenti in Lui, la sua “famiglia”, l’inizio della Chiesa. In effetti, ci sono due modi di “vedere” e di “conoscere” Gesù: uno - quello della folla - più superficiale, l’altro - quello dei discepoli - più penetrante e autentico. Con la duplice domanda: “Che cosa dice la gente - Che cosa dite voi di me?”, Gesù invita i discepoli a prendere coscienza di questa diversa prospettiva. La gente pensa che Gesù sia un profeta. Questo non è falso, ma non basta; è inadeguato. Si tratta, in effetti, di andare in profondità, di riconoscere la singolarità della persona di Gesù di Nazaret, la sua novità. Anche oggi è così: molti accostano Gesù, per così dire, dall’esterno. Grandi studiosi ne riconoscono la statura spirituale e morale e l’influsso sulla storia dell’umanità, paragonandolo a Buddha, Confucio, Socrate e ad altri sapienti e grandi personaggi della storia. Non giungono però a riconoscerlo nella sua unicità. Viene in mente ciò che disse Gesù a Filippo durante l’Ultima Cena: “Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo?” (Gv 14,9). Spesso Gesù è considerato anche come uno dei grandi fondatori di religioni, da cui ognuno può prendere qualcosa per formarsi una propria convinzione. Come allora, dunque, anche oggi la “gente” ha opinioni diverse su Gesù. E come allora, anche a noi, discepoli di oggi, Gesù ripete la sua domanda: “E voi, chi dite che io sia?”. Vogliamo fare nostra la risposta di Pietro. Secondo il Vangelo di Marco Egli disse: “Tu sei il Cristo” (8,29); in Luca l’affermazione è: “Il Cristo di Dio” (9,20); in Matteo suona: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (16,16); infine in Giovanni: “Tu sei il Santo di Dio” (6,69). Sono tutte risposte giuste, valide anche per noi.
 
I Lettura: Il brano è tratto dal «terzo canto del servo del Signore». La missione del servo è quella di istruire coloro che «temono Dio», cioè tutti i pii giudei, ma anche coloro «che camminano nelle tenebre». Grazie al suo coraggio e alla assistenza divina, sopporterà torture e umiliazioni, fisiche e morali, finché Dio gli accorderà un trionfo definitivo. Questa descrizione delle sofferenze del servo sarà ripresa e sviluppata nel quarto canto (cf. Is 52,13-53,12). Tutto si compirà nella persona del Cristo.
 
II Lettura: Giacomo entra in polemica con chi presumeva di salvarsi solo con la fede, escludendo le opere. La fede è viva soltanto se ricca di opere di carità, altrimenti sarebbe ipocrita ostentazione di una fede incapace di portare frutti di salvezza.
 
Vangelo
Tu sei il Cristo... Il Figlio dell’uomo deve molto soffrire.
 
A differenza di Matteo, Marco, come Luca, è molto più stringato: alla confessione della messianicità di Gesù non aggiunge quella della filiazione divina e omette altri particolari. A seguito della professione di fede esplicita nella sua messianicità, Gesù fa il primo annunzio della passione: «al compito glorioso di Messia egli aggiunge il compito doloroso di servo sofferente. Con questa pedagogia, che sarà rafforzata qualche giorno dopo dalla trasfigurazione, anch’essa seguita dall’imposizio-ne del silenzio e da un annunzio analogo (Mt 17,1-12), egli prepara la loro fede alla prossima crisi della sua morte e resurrezione» (Bibbia di Gerusa-lemme). Pietro, non comprendendo appieno le parole, tenta di vanificare il progetto del Maestro, diventando in questo modo il fautore, certo incosciente, dello stesso Satana (cf. Mt 4,1-10).
 
Dal Vangelo secondo Marco
Mc 8,27-35
 
In quel tempo, Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo, e per la strada interrogava i suoi discepoli dicendo: «La gente, chi dice che io sia?». Ed essi gli risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elìa e altri uno dei profeti».
Ed egli domandava loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro gli rispose: «Tu sei il Cristo». E ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno.
E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere.
Faceva questo discorso apertamente. Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo. Ma egli, voltatosi e guardando i suoi discepoli, rimproverò Pietro e disse: «Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini».
 
Parola del Signore
 
Ma voi, chi dite che io sia? - Gesù è «in cammino verso i villaggi intorno a Cesarea di Filippo». La città, ai piedi del monte Ermon, era stata ricostruita sfarzosamente, in stile totalmente ellenistico, da Filippo, figlio di Erode il Grande e Cleopatra di Gerusalemme. L’aveva chiamata Cesarea in onore di Tiberio Cesare aggiungendovi il suo nome per distinguerla dalle altre Cesaree.
Camminando, Gesù saggia la fede dei suoi discepoli e la conoscenza che essi hanno della sua persona. Questo modo informale sembra suggerire che Gesù voglia mettere a proprio agio i suoi interlocutori perché possano esprimere le loro idee con franchezza, in tutta libertà. La risposta è spontanea e fa intendere che essi non si associano al sentire comune. Interpellati personalmente, «voi chi dite che io sia?», essi rispondono affidandosi alla mediazione di Pietro. Che sia Pietro a prendere la parola fa capire che già in gruppo ne avevano parlato ed ora lasciavano la parola a colui di cui riconoscevano una certa autorità.
«Tu sei il Cristo», il Messia. Questa risposta va al di là della stessa comprensione umana di Pietro così come suggerisce Matteo: «Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli» (16,17).
Il divieto severo di «non parlare di lui a nessuno», è volto anche a non suscitare false speranze soprattutto in mezzo al popolo: il messianismo atteso dai giudei, un messianismo politico, liberatore, non era in sintonia con quello di Gesù.
A questo punto, Gesù cominciò a insegnare loro che il «Figlio dell’uomo doveva molto soffrire ... venire ucciso e, dopo tre giorni, risuscitare».
Figlio dell’uomo, questo titolo in origine stava ad indicare l’uomo in tutta la debolezza della sua condizione umana (cf. Ez 2,1), successivamente verrà usato da Daniele (7,13) e poi dall’apocalittica giudaica (Enoch) per indicare il personaggio trascendente, d’origine celeste, che riceve da Dio il regno escatologico, in questo modo si veniva ad evidenziare, in maniera misteriosa ma sufficientemente chiara, il carattere del suo messianismo.
È questa la prima occasione in cui Gesù annunzia ai discepoli i patimenti e la morte che dovrà soffrire, successivamente lo farà altre due volte (cf. Mc 9,30-31; 10,32-34). L’annuncio disorienta gli Apo-stoli. Tutto sembrava andare sull’onda del successo: miracoli, prodigi, risurrezioni di morti, ed anche un ampio consenso popolare. È impossibile accettare che tutto debba volgere verso la disfatta: la loro esaltante avventura non poteva finire tragicamente e soprattutto con la morte ignominiosa di Gesù, così come lui definisce la sua dipartita.
Gesù parla di morte e di risurrezione: se la sua morte imbarazza i discepoli, ancora di più la sua risurrezione; infatti, come si legge altrove, gli stessi discepoli si chiedevano «che cosa volesse dire risuscitare dai morti» (Mc 9,10).
Il discorso era chiaro, deciso senza sconti, appunto «apertamente». Pietro, come si era si sentito in dovere di rispondere in rappresentanza di tutto il gruppo apostolico, così ora si arroga il diritto di chiamare in disparte il Maestro e rimproverarlo.
Voleva convincerlo a gettare acqua sul fuoco, ma in verità non poteva capire perché la sua mente era ancora chiusa (cf. Mc 6,52; 7,18; 8,17-18; 8,21.33; 9,10.32.38), così chiusa da aprirsi al nefasto influsso di Satana.
Lui, il diavolo, Satana, il grande seduttore di tutta la terra (Ap 12,9), aspettava proprio questo momento: aveva promesso di mettersi di traverso, ostacolare il progetto di Dio (Lc 4,13). E Pietro inconsapevolmente fa suo il giuoco: con il suo intervento inopportuno, opponendosi, si mette di traverso avversando il progetto salvifico del Padre che “necessariamente” (Lc 24,26) doveva passare attraverso la morte di croce del Figlio (Fil 2,10).
Il rimprovero di Gesù va in questo senso, non vuole dire che Pietro sia posseduto dal demonio, ma soltanto che le vie di Dio non sono le vie degli uomini (Is 55,8-9).
Il testo greco ha Va’ dietro di me, Satana. Una risposta che vuole fare “ordine gerarchico”. Chi sta dietro è il discepolo. Gesù dice a Pietro: «Ritorna al tuo posto. Riprendi il tuo posto di discepolo».
Gesù, voltatosi, rimprovera Pietro guardando in faccia i discepoli. Il Maestro attua questa manovra non perché non voglia guardare Pietro negli occhi, ma perché il rimprovero fatto al Capo degli Apostoli è una parola che da tutti deve essere intesa e capita, perché tutti, anche le alte cariche gerarchiche della Chiesa, possono essere preda di Satana, possono diventare Satana, nessuno escluso: «Non ho forse scelto io voi, i Dodici? Eppure uno di voi è un diavolo!» (Gv 6,70).
Convocata la folla, Gesù aggiunge quel tassello che mancava e tanto necessario perché Pietro comprendesse il suo dire: «Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua». Anche qui dobbiamo mettere l’accento sulla volontà di Gesù di sottolineare che tutti devo-no seguire il suo insegnamento, folla e Apostoli.
Rinnegare se stessi è rinunciare a ritenersi padroni della propria vita. È donare incondizionatamente la propria vita a Dio: è permettere che Lui l’impasti, secondo la sua infinita sapienza, anche con l’acqua del dolore e della morte cruenta, cioè con la morte di croce. La croce per il cristiano non è un incidente di percorso. Il secondo paradosso è ancora più comprensibile: mentre la vita terrena vissuta rifiutando il Cristo va verso l’eterna dispersione, la vita terrena vissuta nel nome di Cristo, seguendolo nelle fatiche e nei patimenti, nonostante la morte terrena, va verso la perfetta comunione: i credenti infatti saranno una cosa sola con i Tre.
 
La fede e le opere - “Che giova, fratelli miei, se uno dice di avere la fede ma non ha le opere? Forse che quella fede può salvarlo?”. Questa affermazione sembra mettere la lettera di Giacomo in contrapposizione con le lettere paoline, in particolare con la lettera ai Romani. Proprio perché la lettera di Giacomo predicherebbe la legge e non Cristo, fu definita da Martin Lutero «un’epistola di paglia».
In verità, il punto di vista di Giacomo non è inconciliabile con quello difeso da Paolo (Rom 3,20-31; 9,31; Gal 2,16; 3,2.5; 11s; Fil 3,9).
Nel mondo antico contrarre un’alleanza con altri comportava obblighi da entrambe le parti. La sua rottura prevedeva pene e sanzioni. In Israele, il giudeo fedele agli obblighi assunti veniva definito giusto. Non diversamente avveniva nel caso dell’alleanza tra il popolo d’Israele e Dio: Israele si obbligava ad obbedire alla volontà di Dio, veicolata dalla Legge (Torah), mentre Dio si impegnava a custodire il suo popolo e a salvarlo compiendo atti salvifici. Così si radicò la convinzione che l’uomo veniva giustificato solo dall’osservanza della Legge. Trasgredirla o non conoscerla significava essere maledetti (Gv 7,49). Una fedeltà che col passare del tempo si fece sempre più formale e con la quale, nonostante tutto, Israele pretendeva di poter fruire della salvezza venendo in questo modo, con sfrontatezza, a ledere la sovranità, la magnanimità e la libertà di Dio. Sarà la spinosa questione che coinvolgerà da una parte i Farisei che si ritenevano giusti davanti a Dio e agli uomini (Lc 16,15) e dall’altra Cristo e poi i cristiani.
Il Nuovo Testamento, pur recuperando le prospettive concernenti l’alleanza tra Dio e gli uomini, apporterà una rivoluzione a trecentosessanta gradi: l’alleanza sarà suggellata dalla morte e resurrezione di Gesù, il Verbo di Dio fatto carne (Gv 1,14). Su tali basi, la cristologia di Paolo affermerà il principio fondamentale della “giustificazione per fede” (Rom 5,1). Solo se il credente aderisce a Cristo, attraverso la fede e il battesimo, verrà restituito alla sua originaria giustizia: «Noi crediamo che per la grazia del Signore Gesù siamo salvati» (At 15,11).
Solo per Cristo «chiunque crede riceve giustificazione da tutto ciò da cui non fu possibile essere giustificati mediante la legge di Mosè» (At 13,39).
È in questa ottica che san Paolo considera le opere dell’uomo talvolta con profondo pessimismo e quindi prive di valore salvifico («opere delle tenebre» Rom 13,12; «opere infruttuose delle tenebre» Ef 5,11; «opere della carne» Gal 5,19).
Ma in questo Paolo si allinea alla teologia neotestamentaria la quale sostiene per principio che le opere dell’uomo sono totalmente incapaci di ottenere la giustizia che salva. Ciò che respinge l’Apostolo è dunque «il valore delle opere umane per meritare la salvezza senza la fede in Cristo. Una tale fiducia nello sforzo che l’uomo fa per rendersi giusto misconosce il fatto che egli è radicalmente peccatore [Rom 1,18-3,20; Gal 3,22] e rende vana la fede in Cristo [Gal 2,21; cf. Rom 1,16]. Ma anche Paolo ammette che, dopo aver ricevuto la giustificazione per pura grazia, la fede deve essere esercitata dalla carità [1Cor 13,2; Gal 5,6] e occorre osservare veramente la legge [Rom 8,4], che per lui è la legge del Cristo e dello Spirito [Gal 6,2; Rom 8,2], la legge dell’amore [Rom 13,8-10; Gal 5,14]. Ciascuno sarà giudicato secondo le sue opere [Rom 2,6]» (Bibbia di Gerusalemme).
Ora, Giacomo non si discosta da questo pensiero; quindi, il suo vero intento è quello di ricordare e di insegnare che la fede necessariamente deve sfociare nelle buone opere. Infatti, e non a caso, più avanti, ricorderà Abramo il quale fu «giustificato per le opere» (Giac 2,9), alludendo «al sacrificio del suo figlio Isacco o alla disponibilità totale a compiere la volontà di Dio fino al sacrificio del figlio [Gen 22,9-12]. In quell’occasione un ariete sostituì Isacco nel sacrificio, ma l’oggetto del sacrificio non era la propiziazione come tale, bensì una prova dell’ubbidienza dell’uomo di fronte alla volontà di Dio. L’autore della nostra lettera sfrutta questo aspetto del sacrificio di Abramo basandosi sull’interpretazione che avevano data del fatto i teologi del suo tempo. Fu quel gesto che lo rese giusto davanti a Dio» (Felipe F. Ramos).
Quindi sono modi diversi di interpretazione: mentre san Giacomo esige per la salvezza che la fede si dimostri viva nelle opere della carità, san Paolo insegna che a salvare l’uomo è la fede in Cristo e non le opere della Legge, intese come alternativa alla fede in Cristo. Quindi, un contrasto apparente, due pensieri forti che poggiano su un’unica verità, accettata sia da Giacomo che da Paolo: Gesù è il solo e unico Salvatore (Gv 8,24).
 
Amo il Signore, perché ascolta il grido della mia preghiera (Salmo Responsoriale) - Sant’Agostino: Qualunque cosa domanderemo, l’avremo da lui, perché noi osserviamo i suoi comandamenti (1Gv 3,22)... Quali sono i suoi comandamenti? Bisogna sempre ripeterlo? Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate l’un l’altro (Gv 13,24). È la carità questo comandamento di cui si parla e che tanto è raccomandato. Chi dunque avrà la carità fraterna e ciò davanti a Dio, là dove la vede il Signore, potrà interrogare la sua coscienza, scrutarla con diligenza per sentirsi rispondere che la vera radice della carità fraterna è in lui, perché da essa escono frutti di bontà; costui ha fiducia in Dio e Dio gli accorderà tutto ciò che gli domanderà, perché osserva i suoi comandamenti».
 
Il Santo del Giorno - 15 Settembre 2024 - Beata Vergine Maria Addolorata. Nell’ora della sofferenza estrema Dio si fa compagno verso la luce - Quale icona più straziante di quella che ritrae una madre sofferente per la morte del figlio? Eppure quella che è di fatto una delle esperienze più laceranti per un essere umano nasconde un messaggio profetico: anche Dio è sceso nel nostro buio ed è lì che ci viene a cercare per riportarci alla luce. Non è la sofferenza, infatti, né sono le ferite e il dolore che definiscono la nostra identità, ma l’impronta dell’infinito amore che portiamo dentro e che nessun evento può oscurare. E l’immagine della Madonna sofferente accanto al figlio morto ci ricorda che la Vergine di Nazareth, oggi celebrata con il titolo di Addolorata, in quel momento venne "associata" alla passione di Gesù e all’opera di salvezza che si stava realizzando sul Golgota. E noi con lei. Il "sì" pronunciato all’arcangelo Gabriele la condusse non a una vita di privilegi, ma all’esperienza più dolorosa per una madre: agli occhi del mondo la perdita del figlio è la negazione assoluta della speranza. Ma la risurrezione completa il percorso e dona un senso nuovo alla sofferenza: la morte è vinta, il dolore apre all’infinito abbraccio di Dio. L’Addolorata è lì a dirci non solo che dopo la sofferenza troveremo la luce, ma anche che nel dolore nessuno è lasciato da solo. La memoria liturgica odierna, che ha origine nella devozione popolare, fu introdotta nel calendario liturgico romano da papa Pio VI nel 1814.  (Matteo Liut)
 
La forza del tuo dono, o Signore,
operi nel nostro spirito e nel nostro corpo,
perché l’efficacia del sacramento ricevuto
preceda e accompagni sempre i nostri pensieri e le nostre azioni.
Per Cristo nostro Signore.
 
 
 14 Settembre 2024
 
Esaltazione della Santa Croce
 
Nm 21,4b-9 oppure Fil 2,6-11; Salmo Responsoriale dal Salmo 77 [78]; Gv 3,13-17
 
Colletta
O Padre, che hai voluto salvare gli uomini
con la croce del tuo Figlio unigenito,
concedi a noi, che abbiamo conosciuto in terra il suo mistero,
di ottenere in cielo i frutti della sua redenzione.
Egli è Dio, e vive e regna con te.
 
Fatti un serpente di bronzo: Giovanni Paolo II (Omelia, 14 Settembre 1984): Per conformarci all’acclamazione dell’odierna liturgia, seguiamo attentamente il sentiero tracciato da queste sante parole nelle quali ci viene annunciato il mistero dell’Esaltazione della Croce. In primo luogo, in queste parole è contenuto il significato del Vecchio Testamento. Secondo sant’Agostino, il Vecchio Testamento contiene ciò che è pienamente rivelato nel nuovo. Qui abbiamo l’immagine del serpente di bronzo al quale si riferì Gesù nella sua conversazione con Nicodemo. Il Signore stesso ha rivelato il significato di quest’immagine dicendo: “E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il figlio dell’uomo perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna” (Gv 3,14-15). Durante il cammino del popolo di Israele dall’Egitto alla Terra Promessa - poiché la gente si lamentava - Dio mandò un’invasione di serpenti velenosi a causa della quale molti perirono. Quando i sopravvissuti compresero la loro colpa chiesero a Mosè di intercedere presso Dio: “Prega il Signore che allontani da noi questi serpenti” (Nm 21, 7). Mosè pregò e ricevette dal Signore quest’ordine: “Fatti un serpente e mettilo sopra un’asta. Chiunque dopo essere stato morso lo guarderà, resterà in vita” (Nm 21,8). Mosè obbedì all’ordine. Il serpente di bronzo posto sull’asta rappresentò la salvezza dalla morte per tutti coloro che venivano morsi dai serpenti. Nel libro della Genesi il serpente era il simbolo dello spirito del male. Ma adesso, per una sorprendente inversione, il serpente di bronzo issato nel deserto diventa una raffigurazione del Cristo, issato sulla Croce. La festa dell’Esaltazione della Croce richiama alle nostre menti e, in un certo senso, rende attuale, l’elevazione di Cristo sulla Croce. La festa è l’elevazione del Cristo redentore: chiunque crede nel Cristo crocifisso avrà la vita eterna. L’elevazione di Cristo sulla Croce costituisce l’inizio dell’elevazione dell’umanità attraverso la Croce. E il compimento ultimo dell’elevazione è la vita eterna.
 
I Lettura (Nm 21,4b-9): Il racconto ricorda il castigo comminato ad Israele nel deserto a motivo della sua contestazione contro Mosè e conseguentemente contro Dio. Il serpente di bronzo che Mosè innalza su un’asta, per ordine di Dio, al fine di guarire gli Ebrei dalle conseguenze del morso dei serpenti velenosi, diventa un simbolo del Cristo innalzato sulla Croce per la nostra salvezza.
Oppure Fil  2,6-11: Perché nella comunità regni la carità, la pazienza, l’umiltà e l’amore fraterno è necessario avere “gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù”. Il brano qui riportato descrive l’annientamento di Gesù, Figlio di Dio, la sua umiliazione, la sua obbedienza alla volontà del Padre “fino alla morte e alla morte di Croce”. Per questo Dio, premiando la sua fedeltà, lo ha glorificato e lo ha reso Signore.
 
Vangelo
Bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo.
 
Le parole dette da Gesù nell’incontro notturno con Nicodemo aprono il nostro cuore alla gioia e alla speranza, e la nostra mente a sempiterne verità. Parole misteriose, ma gravide di Luce (Gv 8,12; 9,5): E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo: il Figlio dell’uomo (cfr. Dn 7,13; Mt 8,20; 12,32; 24,30) deve essere innalzato, messo sulla croce e nello stesso tempo introdotto di nuovo nella gloria del Padre (Gv 1,51; 8,28; 12,32-34; 13,31-32). Per essere salvati, bisognerà guardare il Cristo innalzato sulla croce, cioè credere che egli è il Figlio unico. Allora si sarà purificati dall’acqua del suo costato trafitto (Gv 19,34; Zc 13,1). Perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna: Dio, padrone assoluto della vita, ha trasmesso il dominio al Figlio. Il Figlio stesso è la Vita (Gv 11,25; 14,6). Ha la vita in sé e la dà a quelli che credono in lui. Questa vita è simbolizzata dall’acqua (Gv 4,1) ed è nutrita dalla parola (Gv 6,35). La vita è promessa ai credenti (cfr. 2Cor 4,18), ma è già data loro, si compirà nella resurrezione. La via per raggiungere la fonte della Vita è la Croce.

Dal Vangelo secondo Giovanni
Gv 3,13-17
 
In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo:
«Nessuno è mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell’uomo. E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna.
Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna.
Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui».

Parola del Signore.
 
Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna - Angelico Poppi (Sinossi e Commento Esegetico-Spirituale dei Quattro Vangeli): vv.14-15 Gesù rivela che il piano salvifico del Padre prevedeva la sua morte in croce (del = deve). Il serpente di bronzo innalzato da Mosè sul palo nel deserto di Punon (Nm 21,8-9) prefigurava la crocifissione del Figlio dell’uomo. Chi guardava il serpente era guarito dal morso letale delle vipere; così chi guarda con l’occhio della fede il Crocifisso (= crede in lui), avrà la vita eterna. Il dono dello Spirito, effuso dal suo fianco trafitto, divenne sorgente di vita (Gv 19,34).
v. 16 Viene approfondito il senso della rivelazione precedente, sottolineando l’iniziativa del Padre, che donò il proprio Figlio, quale manifestazione suprema del suo amore misericordioso.
Il passato remoto “amò” (ègàpèsen, aoristo) rimanda all’evento storico dell’incarnazione del Verbo, che implicava la morte di Gesù, quale epifania culminante dell’agape di Dio per la salvezza del inondo. Unica condizione richiesta per avere la vita è l’accoglienza del dono di Dio con l’adesione di fede al Figlio unigenito.
vv. 17-18 Dio non ha inviato il proprio Figlio per condannare l’umanità peccatrice, ma per salvarla mediante la sua opera. Tuttavia, la venuta storica del Verbo determina una discriminazione: chi crede nella rivelazione del Figlio unigenito di Dio è salvo, chi non crede è già condannato. La salvezza è concepita come una realtà già in atto. Chi presta fede al messaggio di Gesù non deve temere nessuna condanna, perché è già partecipe della vita divina. L’iniziativa di Dio non ha come obiettivo la condanna dei peccatori, ma la loro salvezza. La diversa sorte degli uomini dipende dalla loro libera opzione, con la quale si aprono all’ amore di Dio, rivelatosi in Cristo, oppure lo rifiutano. Giovanni, al contrario dei sinottici, insiste sull’esperienza attuale della comunione di vita con Dio, resa possibile dalla rivelazione e oblazione del Figlio; tuttavia a che si tratta d’una partecipazione parziale, che sarà totale e definitiva soltanto nella vita futura (cf. 5,28-29: 12,46-48).
 
La Croce, segno del Cristiano - Jean Audusseau e Xavier Léon-Dufour (Dizionario di Teologia Biblica): 1 La croce di Cristo. - Rivelando che i due testimoni erano stati martirizzati «là dove Cristo fu crocifisso» (Apoc 11,8), l’Apocalisse identifica la sorte dei discepoli e quella del maestro. Lo esigeva già Gesù: «Chi vuole seguirmi, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mt 16,24 par.). Il discepolo non deve soltanto morire a se stesso: la croce che porta è il segno che egli muore al mondo, che ha spezzato tutti i suoi legami naturali (Mt 10,33-39 par.), che accetta la condizione di perseguitato, a cui forse si toglierà la vita (Mt 23,34). Ma nello stesso tempo essa è pure il segno della sua gloria anticipata (cfr. Gv 12,26).
2. La vita crocifissa. - La croce di Cristo, che, secondo Paolo, separava le due economie della legge e della fede, diventa nel cuore del cristiano la frontiera tra i due mondi della carne e dello spirito. Essa è la sua sola giustificazione e la sua sola sapienza. Se si è convertito, è stato perché ai suoi occhi furono dipinti i tratti di Gesù in croce (Gal 3,1). Se è giustificato, non è per le opere della legge, ma per la sua fede nel crocifisso; infatti egli stesso è stato crocifisso con Cristo nel battesimo, cosicché è morto alla legge per vivere a Dio (Gal 2,19) e non ha più nulla a che vedere con il mondo (6,14). Egli pone quindi la sua fiducia nella sola forza di Cristo, altrimenti si mostrerebbe «nemico della croce» (Fil 3,18).
3. La croce, titolo di gloria del cristiano. - Nella vita quotidiana del cristiano, «l’uomo vecchio è crocifisso» (Rom 6 6), cosicché è pienamente liberato dal peccato. Il suo giudizio è trasformato dalla sapienza della croce (1Cor 2). Mediante questa sapienza egli, sull’esempio di Gesù, diventerà umile ed «obbediente fino alla morte, ed alla morte di croce» (Fil 2,1-8). Più generalmente, egli deve contemplare il «modello» del Cristo, che «sul legno ha portato le nostre colpe nel suo corpo, affinché, morti alle nostre colpe, viviamo per la giustizia» (1 Piet 2,21-24). Infine, se è vero che deve sempre temere l’apostasia, che lo porterebbe a «crocifiggere nuovamente per proprio conto il Figlio di Dio» (Ebr 6,6), egli può tuttavia esclamare fieramente con Paolo: «Per me, non sia mai ch’io mi glori d’altro all’infuori della croce del nostro Signore Gesù Cristo, grazie al quale il mondo è per me crocifisso, ed io lo sono per il mondo» (Gal 6,14).
 
Amare la Croce - Amare la Croce è fare memoria dell’amore misericordioso di Dio, “che ha tanto amato il mondo da donare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16); amare la Croce è fare memoria dell’amore misericordioso del Figlio di Dio che “è apparso per distruggere le opere del diavolo” (1Gv 3,8); amare la Croce è aprire la propria vita all’azione vivificante dello Spirito Santo che “attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio” (Rom 8,16). Amare la Croce è entrare nel mistero della Santa e Indivisa Trinità, perché soltanto la Croce ci fa discepoli di Cristo, lui che è la Via che ci conduce al Padre (cfr. Gv 14,6), l’orante che intercede presso il Padre perché doni al mondo il Consolatore (cfr. Gv 14,16). Amare la Croce non è soltanto attestazione di amore verso Gesù, agnello innocente immolato per la salvezza dell’uomo, ma è soprattutto accogliere nell’anima il Regno di Dio, è far esplodere di gioia il cuore, allargare la bocca al canto di lode. Dov’è tristezza, lutto e pianto, la Croce porta la pace e la consolazione di Dio, dov’è dolore e sofferenza, la Croce dona la pazienza e la perfetta immolazione, dov’è il peccato, la stanchezza, l’infedeltà, la Croce dona la luce della grazia, il profumo della conversione, l’allegrezza della penitenza, dov’è la morte, la Croce porta la vita. Ricusare la Croce è follia, ricusare la Croce è rifiutare l’amore di Dio, ricusare la Croce è rigettare la salvezza, ricusare la Croce significa spalancare la vita ai tormenti della disperazione, ricusare la Croce significa morire senza il consolante conforto dell’intercessione di quel Sangue che è stato sparso sulla Croce per la salvezza dell’uomo.
 
Efficacia e potenza della Croce: “Parlerò ora del mistero della Croce, che nessuno dica: «Se fu necessario che Cristo subisse la morte, essa non doveva essere così infame e turpe, ma conservare un po’ di dignità». So che molti, aborrendo dal nome stesso della Croce, si allontanano dalla verità; eppure vi è in essa un significato profondo e una grande potenza. Egli fu mandato per spalancare la via della salvezza agli uomini più umili; perciò si fece umile per liberarli. Accettò il genere di morte riservato di solito ai più umili, perché a tutti fosse dato di imitarlo; inoltre, dovendo poi egli risorgere, non sarebbe stato conveniente spezzargli le ossa o amputargli parte del corpo, come succede per chi viene decapitato; fu più opportuna la Croce, che preservò il suo corpo con tutte le ossa intatte, per la risurrezione. A ciò si aggiunga che, accettando la passione e la morte, doveva essere innalzato. E la Croce lo innalzò realmente e simbolicamente, perché con la sua passione a tutti si rivelasse chiara la sua potenza e la sua maestà. Estendendo sul patibolo le mani, dilatò anche le ali verso Oriente e verso Occidente, affinché sotto di esse si raccogliessero tutte le genti da ogni parte del mondo a trovar pace. Quale virtù e quale potere abbia questo segno, appare chiaro quando per esso ogni schiera di demoni vien cacciata e fugata.” (Lattanzio, Epit. Div. Iustit., 51). 
 
Il Santo del Giorno - 14 Settembre 2024 - Esaltazione della Santa Croce: “Siamo di fronte al mistero della Croce di Cristo. Dio ha compiuto la redenzione dell’uomo attraverso la morte del Figlio suo Unigenito sul legno della Croce. Soltanto Dio, nella sua sapienza e potenza, ha potuto trasformare la morte in fonte della vita. Una volta, dall’albero del paradiso traeva vittoria Satana, da lì anche sorgeva la morte; ora, dall’albero Satana viene sconfitto e dall’albero della Croce risorge la vita. La Croce diventa un altare su cui si offre il sacrificio per i peccati di tutto il mondo. Cristo sulla Croce stende le sue mani per attrarre tutti a sé ed acquistare al Padre un popolo santo.
La Croce sta al centro della vita della Chiesa, la quale nell’Eucaristia rende continuamente presente il Sacrificio della nostra redenzione.
Il discepolo di Cristo prende la sua croce quotidiana e segue le orme del suo Maestro. Non si vergogna della Croce, che sembra essere stoltezza e scandalo per molti: per lui, la Croce è potenza di Dio e sapienza di Dio [cf. 1Cor 1,23]. Accoglie la Croce col cuore, segna con la Croce la sua fronte, la pone in molti luoghi sulla terra, specialmente dove abita e lavora. Benché non comprendiamo il mistero della Croce di Cristo ed il mistero della nostra croce, preghiamo con le parole: Di null’altro mai ci glorieremo se non della Croce di Gesù Cristo, nostro Signore: egli è la nostra salvezza, vita e risurrezione. Per mezzo di lui siamo stati salvati e liberati [cf. Gal 6,14]”. (La Bibbia e i Padri della Chiesa [I Padri Vivi]).
 
Signore Gesù Cristo, che ci hai nutriti al tuo santo convito,
guida alla gloria della risurrezione
coloro che hai redento con il legno della vivificante croce.
Tu che vivi e regni nei secoli dei secoli.
 
 
 
 
 
 13 Settembre 2024
 
Venerdì XXIII Settimana T. O
 
 1Cor 9,16-19.22b-27; Salmo Responsoriale Dal Salmo 83 (84); Lc 6,39-42

Colletta
O Dio, forza di chi spera in te,
che hai fatto risplendere il santo vescovo Giovanni Crisostomo
per la mirabile eloquenza e la perseveranza nella tribolazione,
fa’ che, illuminati dai suoi insegnamenti,
siamo rafforzati dal suo esempio di eroica costanza.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Benedetto XVI (Catechesi 19 Settembre 2007): Giovanni Crisostomo si preoccupa di accompagnare con i suoi scritti lo sviluppo integrale della persona, nelle dimensioni fisica, intellettuale e religiosa. Le varie fasi della crescita sono paragonate ad altrettanti mari di un immenso oceano: «Il primo di questi mari è l’infanzia» (Omelia 81,5 sul Vangelo di Matteo). Infatti «proprio in questa prima età si manifestano le inclinazioni al vizio e alla virtù». Perciò la legge di Dio deve essere fin dall’inizio impressa nell’anima «come su una tavoletta di cera» (Omelia 3,1 sul Vangelo di Giovanni): di fatto è questa l’età più importante. Dobbiamo tener presente come è fondamentale che in questa prima fase della vita entrino realmente nell’uomo i grandi orientamenti che danno la prospettiva giusta all’esistenza. Crisostomo perciò  raccomanda: «Fin dalla più tenera età premunite i bambini con armi spirituali, e insegnate loro a segnare la fronte con la mano» (Omelia 12,7 sulla prima Lettera ai Corinzi). Vengono poi l’adolescenza e la  giovinezza: «All’infanzia segue il mare dell’adolescenza, dove i venti soffiano violenti..., perchè in noi cresce... la concupiscenza» (Omelia 81,5 sul Vangelo di Matteo). Giungono infine il fidanzamento e il matrimonio: «Alla giovinezza succede l’età della persona matura, nella quale sopraggiungono gli impegni di famiglia: è il tempo di cercare moglie” (ibid.). Del matrimonio egli ricorda i fini, arricchendoli – con il richiamo alla virtù della temperanza – di una ricca trama di rapporti personalizzati. Gli sposi ben preparati sbarrano così la via al divorzio: tutto si svolge con gioia e si possono educare i figli alla virtù. Quando poi nasce il primo bambino, questi è «come un ponte; i tre diventano una carne sola, poiché il figlio congiunge le due parti» (Omelia 12,5 sulla Lettera ai Colossesi), e i tre costituiscono «una famiglia, piccola Chiesa» (Omelia 20,6 sulla Lettera agli Efesini).
 
I Lettura: Condividere l’umiliazione, ma anche la lotta - José Maria González-Ruiz: Il caso concreto di adattamento ai deboli dà a Paolo l’occasione di elevarsi a una tesi generale: a volte, la carità esige che si rinunzi a propri diritti indiscutibili, come nel caso degli stessi Paolo e Barnaba, che potrebbero predicare il vangelo facendosi provvedere economicamente dalla comunità.
In una parola, non si può parlare dei « diritti della Chiesa » in astratto, basandosi unicamente su canoni indiscutibili, ma occorre tener conto in modo specialissimo delle circostanze esistenziali, nelle quali si svolge l’azione militante del cristianesimo, che ha l’unico scopo di cercare la maggior efficacia nella progressiva maturazione parusiaca di tutta la vita umana. E queste circostanze esigeranno spesso un’impostazione esistenziale della questione, in base alla quale si dovrà rinunziare ad alcuni diritti che possono indubbiamente competere alla Chiesa in sé, considerata in astratto.
Da questa considerazione abbastanza concreta, Paolo si eleva alla sua dottrina della « incarnazione sociologica» che pervade tutto il NT: farsi libero con i liberi, debole con i deboli, semplice con i semplici, non per restare fra loro e partecipare della loro debolezza o ignoranza, ma per « guadagnarli tutti a Cristo », per elevarli dalla loro condizione miserabile.
Effettivamente l’apostolo cristiano è come un atleta, che rinuncia a molte cose volontariamente, ma è sempre per qualcosa. L’atleta ha solo la possibilità di conseguire una corona che può marcire; altrimenti i suoi sforzi cadono nel vuoto, non guadagnano nulla. L’apostolo cristiano sa che i suoi sforzi hanno sempre un risultato positivo, sono sempre efficaci.
Come in altri passi, Paolo dimostra qui di essere nemico del puro romanticismo, come sarebbe limitarsi a condividere la miseria degli altri senza, nel medesimo tempo, aiutarli efficacemente a uscirne. Questo e l’unico atteggiamento rivoluzionario: condividere l’umiliazione mentre si fa opera di promozione per riscattarla.
 
Vangelo
Può forse un cieco guidare un altro cieco?
Due insegnamenti fanno da cornice al Vangelo di oggi. Il primo è riferito ai farisei del tempo di Gesù, ma può essere applicato anche ai discepoli successivi, ai maestri di oggi, che non devono essere guide cieche, ma discepoli della Parola dell’unico Maestro. Il secondo insegnamento vuol suggerire che nella correzione fraterna non bisogna usare due pesi e due misure, una per gli altri e una per sé; più indulgenti verso se stessi e più rigidi verso gli altri. Prima di correggere il prossimo, occorre incominciare la critica da se stessi. È nella critica di sé che si trova la giusta misura su cui regolare la nostra critica verso gli altri.
 
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 6,39-42
 
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli una parabola:
«Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutti e due in un fosso? Un discepolo non è più del maestro; ma ognuno, che sia ben preparato, sarà come il suo maestro.
Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? Come puoi dire al tuo fratello: “Fratello, lascia che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio”, mentre tu stesso non vedi la trave che è nel tuo occhio? Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello».

Parola del Signore.
 
Benedetto Prete (I Quattro Vangeli): 39 Disse loro anche una parabola, cioè una breve immagine. Un cieco può forse condurre un altro cieco? In Luca questo detto trova un’applicazione differente da quella che si ha in Matteo; per il primo evangelista infatti i Farisei sono accusati di essere dei ciechi e delle guide dei ciechi (cf. Mt., 15, 14); per Luca invece la parabola ha un valore generale, poiché è rivolta a tutti coloro che, senza avere la scienza e la prudenza sufficienti, pretendono di essere la guida degli altri. Chi è cieco non può erigersi a maestro degli altri.
40 Non v’è discepolo al di sopra del maestro; in Matteo l’affermazione ricorre in altro contesto ed ha un senso differente da quello inteso da Luca nel passo attuale; queste parole in Mt., 10, 24-25 significano che la sorte del discepolo di Cristo non può essere diversa da quella riservata al Maestro; perciò come Gesù fu osteggiato e perseguitato, così anche i suoi discepoli dovranno subire ostilità e persecuzioni. L’affermazione di Luca, presa in senso assoluto, significa che ogni discepolo, anche quando avrà raggiunto la sua perfezione, non supererà il Maestro; tuttavia non si vede con chiarezza il nesso che lega questo vers. con il contesto. Il senso dell’affermazione sembra essere il seguente: chi vuol esser la guida degli altri deve essere perfetto, perché nessun discepolo è superiore al maestro; il discepolo quindi deve raggiungere la perfezione del maestro poiché soltanto chi è maestro ha l’esatta conoscenza delle cose e, di conseguenza, può essere una guida illuminata.
41-42 Perché guardi la scheggia che è nell’occhio del tuo fratello; preferiamo tradurre il sostantivo κάρφος con «scheggia» invece di «pagliuzza», come hanno spesso le versioni, per mantenere il parallelismo dell’immagine (trave-scheggia, cioè un pezzettino di legno). Luca e Matteo sono in perfetto accordo; le due immagini della scheggia e della trave sono in sé evidenti e non hanno bisogno di lunghe spiegazioni. Non si parla più di misericordia per gli altri, ma di onestà verso se stessi e di sincero desiderio di emendarsi. Un’altra condizione fondamentale dello zelo autentico è quella di correggere i propri difetti prima di censurare quelli degli altri.
 
I motivi per non guardare la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello - Richard Gutzwillwer (Meditazioni su Luca): Gesù apporta tre motivi. Il primo, e il più importante, è quello della dipendenza da Dio. Noi siamo soggetti alla giustizia e precisamente ad una giustizia tale dinanzi a cui non possiamo reggere.
Eppure siamo trattati con misericordia. Ecco perché dobbiamo avere comprensione per ogni fratello colpevole, ed essere ben disposti a non censurare mai duramente, ma a trattare sempre con misericordia. Le relazioni che abbiamo con Dio sono norma anche delle relazioni che dobbiamo avere con gli uomini.
Il secondo motivo è quello rapporto che c’è tra uomo e uomo. Chi è maestro degli altri si considera superiore. Ma è necessario che egli non sia cieco o accecato,altrimenti un cieco guida un altro cieco e ambedue finiscono’ossa. Solo chi conosce e censura se stesso con giustizia, può conoscere e censurare anche gli altri.
Il vero capo esige prima di tutto da se stesso. E la vera riforma incomincia dal proprio io. Solo chi critica se stesso può criticare anche gli altri.
Il terzo motivo è la considerazione del proprio io. Chi si ritiene migliore degli altri è, secondo l’espressione di Gesù, un ipocrita.
Egli manda un grido per la pagliuzza che è nell’occhio del prossimo ed agisce come se non avesse nulla nel suo occhio, mentre in realtà tutta una trave sta ad oscurare la sua vista.
In questi argomenti portati da Cristo, si osserva un decrescere da Dio al prossimo e al proprio io. Chi non è sensibile al motivo religioso della dipendenza da Dio, dovrebbe essere sensibile al motivo sociale a almeno dovrebbe riconoscere come si rende ridicolo quando censura gli altri e loda se stesso, quando cerca di correggere quelli che sono migliori di lui ed è intento a scoprire i difetti degli altri, mentre forse tutti lo mostrano a dito per i suoi difetti.
 
Il pericolo permanente dell’ipocrisia - Roberto Tufariello (Ipocrita, Schede Bibliche Pastorali, Vol. IV): L’accusa di ipocrisia, nel NT, equivale alla denuncia di una frattura tra l’esterno e l’interno, di una disarmonia tra il cuore e le labbra; tale frattura o disarmonia non si riduce solo al vizio della simulazione, ma corrisponde a un conflitto che si svolge nell’intimo della persona e che si conclude con un rifiuto decisivo in materia di fede. In questo senso s. Paolo considera «ipocrisia» il fatto che Pietro e i giudeo-cristiani non abbiano voluto sedere a tavola con i cristiani venuti dal paganesimo. Questo contegno infatti, facendo sembrare che la legge sia ancora in vigore, è un allontanamento dalla verità del vangelo, la verità della salvezza mediante la fede (Gal 2,11-14). C’è in Pietro un conflitto tra l’interno e l’esterno, e ne scaturisce un comportamento che, secondo Paolo, è una finzione che si oppone alla verità. Il comportamento dei cristiani deve concordare con la loro coscienza illuminata (Gal 2,16). L’episodio inoltre dimostra che se i farisei sono stati l’esempio tipico dell’ipocrisia, questa però è un pericolo permanente anche per i cristiani. Già la tradizione sinottica estendeva alla folla l’accusa di ipocrisia (Lc 12,56; 13,15), e Giovanni intendeva designare col termine di «giudei» gli increduli di tutti i tempi, ciechi e ipocriti come i capi religiosi di Israele. In particolare, il vangelo di Matteo, con i frequenti richiami all’ipocrisia, vuol mettere in guardia la comunità cristiana da questo comportamento che consiste nel cercare l’approvazione degli uomini e non quella di Dio. Anche s. Pietro raccomanda ai fedeli di vivere nella semplicità, come neonati, sapendo che l’ipocrisia costituirà per essi una pericolosa tentazione (1Pt 2,1-3). Per tutta la comunità dei credenti valgono le ammonizioni che l’apostolo Paolo rivolge ai suoi connazionali, i quali possiedono la conoscenza della volontà divina, sono orgogliosi della legge e pretendono di esserne maestri presso gli altri; ma, non praticando quanto conoscono, cadono nell’ipocrisia: «Ebbene, come mai tu. die insegni agli altri, non insegni a te stesso? Tu che predichi di non rubare, rubi? Tu che proibisci l’adulterio, sei adultero? Tu che detesti gli idoli, ne derubi i templi? Tu che ti glori della legge, offendi Dio trasgredendo la legge?» (Rm 2,21-23). Si tratta di una chiara dissociazione tra il dire e il fare, tra le proprie proclamazioni e la prassi.
 
Gli ipocriti non vedono la trave nei loro occhi: “Egli ci aveva già mostrato che giudicare gli altri è profondamente sbagliato e pericoloso; è causa della condanna finale. Non giudicate, dice, e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati. Con l’argomentazione conclusiva ci persuade ad evitare anche il desiderio di giudicare gli altri. Prima liberate voi stessi dai grandi crimini e dalle vostre passioni ribelli e poi potrete rendere giusto colui che è colpevole solo di offese minori.” (Cirillo di Alessandria, Commento a Luca, omelia 33).
 
Il Santo del giorno - 13 Settembre 2024 - San Giovanni Crisostomo: Giovanni, nato ad Antiochia (probabilmente nel 349), dopo i primi anni trascorsi nel deserto, fu ordinato sacerdote dal vescovo Fabiano e ne diventò collaboratore. Grande predicatore, nel 398 fu chiamato a succedere al patriarca Nettario sulla cattedra di Costantinopoli. L’attività di Giovanni fu apprezzata e discussa: evangelizzazione delle campagne, creazione di ospedali, processioni anti-ariane sotto la protezione della polizia imperiale, sermoni di fuoco con cui fustigava vizi e tiepidezze, severi richiami ai monaci indolenti e agli ecclesiastici troppo sensibili alla ricchezza. Deposto illegalmente da un gruppo di vescovi capeggiati da Teofilo di Alessandria, ed esiliato, venne richiamato quasi subito dall’imperatore Arcadio. Ma due mesi dopo Giovanni era di nuovo esiliato, prima in Armenia, poi sulle rive del Mar Nero. Qui il 14 settembre 407, Giovanni morì. Dal sepolcro di Comana, il figlio di Arcadio, Teodosio il Giovane, fece trasferire i resti mortali del santo a Costantinopoli, dove giunsero la notte del 27 gennaio 438. (Avvenire)
 
Concedi, Dio misericordioso,
che i santi misteri, ricevuti nella memoria
di san Giovanni Crisostomo,
ci confermino nel tuo amore
e ci rendano fedeli testimoni della tua verità.
Per Cristo nostro Signore.