7 Luglio 2034
 
XIV Domenica T. O.
 
Ez 2,2-5; Salmo Responsoriale Dal Salmo 122 (123); 2 Cor 12,7-10; Mc 6,1-6
 
Colletta
O Padre, fonte della luce,
vinci l’incredulità dei nostri cuori,
perché riconosciamo la tua gloria nell’umiliazione del tuo Figlio,
e nella nostra debolezza
sperimentiamo la potenza della sua risurrezione. 
Egli è Dio, e vive e regna con te.
 
I Lettura: Nel 597 il re babilonese Nabucodonosor aveva assediato Gerusalemme, l’aveva espugnata e aveva operato una prima deportazione di abitanti. Tra i deportati c’è anche Ezechiele, il quale «nell’anno quinto della deportazione del re Ioiachìn» (Ez 1,1-3), mentre si trovava lungo il canale Chebàr, riceve l’investitura di profeta. Il suo ministero profetico si svolge tra mille contestazioni: è arduo far comprendere ai Giudei che la rovina della nazione, che culminerà nel 587 con la distruzione di Gerusalemme e del tempio, era da imputare alla loro apostasia, alla loro durezza di cuore (Cf. Ez 2,3). Cuore duro nel testo di Ezechiele evoca più l’egoismo che la ribellione o la testardaggine. L’espressione «figlio dell’uomo», che nell’ebraico si usa spesso nel senso di «uomo» (Cf. Is 51,12), col tempo diventò un titolo messianico, poi ripreso da Gesù e applicato a se stesso (Cf. Mt 8,20).
 
II Lettura: San Tommaso commentando questo brano paolino, spiega che Dio può permettere talvolta alcuni mali per conseguire beni maggiori: così per evitare la superbia - radice e principio di ogni vizio - consente a volte che i suoi eletti siano umiliati da una malattia, da un qualche difetto, o persino dal peccato mortale, perché «l’uomo così mortificato riconosca che non può reggersi con le sue sole forze. Perciò in Rom 8,28, si afferma: “Del resto, noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio”, non certamente per il loro peccato, ma per i disegni di Dio» (Super Epistulam II ad Corinthios lectura).
 
Vangelo
Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria.
 
È inspiegabile l’incredulità degli abitanti di Nazaret ed è incomprensibile come i suoi paesani facilmente passino dallo stupore e dalla ammirazione all’animosità e all’insulto. Ma questo è il destino di tutti i profeti. Gesù non viene risparmiato da questa prova che si farà ancora più drammatica nel giorno in cui Pilato, nel tentativo di liberarlo, lo presenterà alla folla: in quel giorno, ingrata, dimenticando gli innumerevoli doni ricevuti, si farà serva dell’odio dei farisei (Cf. Mt 27,11-26).
 
Dal Vangelo secondo Marco
Mc 6,1-6
 
In quel tempo, Gesù venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono.
Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?». Ed era per loro motivo di scandalo.
Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità.
Gesù percorreva i villaggi d’intorno, insegnando.

Parola del Signore.
 
Gesù venne nella sua patria - Marco si riferisce a  Nazaret, una località che non è menzionata né nell’Antico Testamento, né in Giuseppe Flavio, né nel Talmud. È nominata per la prima volta nel Nuovo Testamento come patria di Gesù e dei suoi parenti (Cf. Mt 2,23; Mc 1,9; 6,3; Lc 2,51).
Il racconto della visita di Gesù a Nazaret lo si trova anche in Matteo e in Luca. Quest’ultimo, a differenza dei primi due, ha elaborato un racconto eccessivamente sovraccarico.
Molti, ascoltando, rimanevano stupiti: quello che dicono o pensano i molti è una sintesi del ministero di Gesù: predicazione e miracoli. Ma lo stupore nasce dal fatto che sono note le origini di Gesù: praticamente si erano fermati alla “carne” (Cf. 2Cor 5,16) ed è naturale che questa “conoscenza carnale” generasse nella loro mente una cascata di domande.
Per i nazaretani Gesù è un tekton: un mestiere che comportava l’abilità professionale di svolgere simultaneamente la professione di falegname, di fabbro e di muratore.
Figlio di Maria: questa espressione contraria l’uso ebraico, che identifica un uomo in rapporto a suo padre. L’uso improprio, forse, vuole mettere in risalto la fede dell’evangelista Marco e della sua comunità, secondo cui il Padre di Gesù è Dio (Cf. Mc 1,1.11; 8,38; 13,32; 14,36).
Se è vero che Paolo e tutti e quattro gli evangelisti parlano dei fratelli e delle sorelle del Signore, è anche vero che gli autori sacri parlano solo e sempre di fratelli di Gesù, mai di figli di Maria. Solo Gesù è detto figlio di Maria (Mc 6,3) e Maria è detta solo e sempre madre di Gesù, e non di altri (Cf. Gv 2,1; 19,25; At 1,14).
I Vangeli ci hanno tramandato i nomi dei cosiddetti fratelli di Gesù che sono: Giacomo, Giuseppe (o Joses), Giuda (non Giuda Iscariota, il traditore) e Simone (Cf. Mt 13,56; Mc 6,3). Gli stessi Vangeli però ci informano anche di chi erano figli (Cf. Mt 27,55-56; Mc 15,40-41; ecc.) per cui senza ombra di dubbio possiamo affermare che essi non sono figli di Maria, la madre di Gesù, ma suoi nipoti, figli d’una sorella ben menzionata da Giovanni (Cf. Gv 19,25). Oltretutto, si conosce la scarsità di termini ebraici indicanti i vari gradi di parentela: fratello e sorella potevano indicare anche parenti di secondo grado. Anche la Settanta (traduzione greca della Bibbia) adopera il termine greco adelfos per tradurre il termine ebraico ah, anche quando si tratta in modo palese di cugini o anche di parenti (Cf. Gen 13,8; 1Cr 23,21; ecc.).
Il rifiuto di Gesù come profeta, ha un logorante crescendo: ad iniziare sono i parenti, poi i compaesani e infine i Giudei.
La meraviglia di Gesù «denota il suo stupore per l’incredulità dei paesani; una cosa sorprendente e inaspettata per lui. Marco non ha preoccupazioni teologiche circa la prescienza divina di Gesù, ma ce lo presenta nella sua realtà storica. Questi non poté compiere miracoli, perché i nazaretani non si aprirono con fede alla missione affidatagli dal Padre: l’onnipotenza di Dio risulta condizionata dall’incredulità dell’uomo: “Come la sua potenza è la nostra salvezza, così la nostra incredulità è la sua impotenza” [Gnilka]» (Angelico Poppi).
Nonostante questo insuccesso, Gesù continua a percorre «i villaggi d’intorno insegnando»: monito ed esempio per quei i credenti pronti a scoraggiarsi anche per il più piccolo disagio.
 
I fratelli di Gesù a Nazaret (Mc 6,3): Attenendoci alla terminologia utilizzata dall’evangelista Giovanni, da Luca negli Atti e dall’apostolo Paolo, si può dimostrare che per questi autori e, di conseguenza, per la Chiesa primitiva, i fratelli di Gesù erano uomini che lo aiutavano nella sua opera di predicazione.
Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone?, qui  «Marco non dice che questi quattro uomini erano fratelli di Gesù, bensì che Gesù era fratello di questi quattro uomini. Nei brani studiati fino a questo punto abbiamo detto che tali uomini erano fratelli-discepoli di Gesù, uomini che lo aiutavano nella sua opera di predicazione. Ma ciò non è possibile nel greco di Marco, poiché, attribuendo lo stesso significato alla parola “fratello”, saremmo costretti a dire Gesù era un loro fratello-discepolo. L’unico modo per evitare questo sproposito sarebbe riconoscere che il termine “fratello” qui indichi un legame di parentela stretto o lontano: figlio degli stessi genitori o parente più o meno vicino di uomini. Ma prima di tutto citiamo questo brano evangelico che, secondo la traduzione corrente, dice così: Non è costui il carpentiere, figlio di Maria, e il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle non vivono qui tra noi?
Fortunatamente, un primo e valido aiuto per dare al termine “fratello” usato da Marco lo stesso significato dei testi precedentemente studiati ci viene dal parallelo con Matteo. Quest’ultimo dice così: Non è egli forse il figlio del carpentiere? Sua madre non si chiama Maria e i suoi fratelli Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle non sono tutte fra noi? (Mt 13,55s.).
Nella maggior parte dei casi, quando Matteo offre un testo in una buona redazione greca e con un significato simile al brano parallelo di Marco, che si distingue per durezza di redazione o significato, è chiaro che l’unico scopo perseguito da Matteo è quello di migliorare la presentazione letteraria del testo da lui utilizzato come fonte. In questo caso, invece, possiamo affermare che la sua elaborazione del testo di Marco obbedisce al desiderio di far chiarezza sul significato della parola “fratello”, che nel testo di Marco era travisato. Infatti, possiamo benissimo leggere il testo di Matteo attribuendo al termine “fratello” lo stesso significato che abbiamo dimostrato in Giovanni, Luca e Paolo. Da un punto di vista grammaticale o redazionale, non possiamo obiettare nulla al greco di Marco. Per contro, la discordanza che abbiamo segnalato rispetto al significato, a nostro giudizio costituisce un motivo sufficiente per sospettare che ciò sia dovuto a una lettura svogliata dell’aramaico.
A nostro parere, il sostantivo “fratello”, che Marco scrive al singolare in forma indeterminata, è un singolare collettivo, un tipo di singolare abbastanza frequente in ebraico e aramaico. Senza soffermarci su ulteriori spiegazioni, offriamo la traduzione dell’originale aramaico ricostruito, in cui la difficoltà segnalata scompare definitivamente: Non è costui il carpentiere, il figlio di Maria, e (non sono) fratelli-discepoli quelli che ha fatto andare dietro [a se stesso] Ya’aqob (= Giacomo), Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle-discepole non stanno qui, con noi?
L’originale aramaico di Marco diceva le stesse cose che abbiamo visto nel vangelo di Matteo, espresse in un greco migliore. Ancora una volta vengono denominati “fratelli” e “sorelle” di Gesù coloro che lo seguono, cioè i suoi discepoli. Persone che in un modo o nell’altro collaborano con lui nel suo ministero di predicazione» (JOSÉ MIGUEL GARCÍA, La vita di Gesù nel testo aramaico dei Vangeli, BUR).
 
Figlio dell’uomo, io ti mando agli Israeliti, a un popolo di ribelli - Queste parole di Dio, rivolte al profeta Ezechiele, sono gravide di tristezza e portano il peso di una profonda delusione: un popolo amato, prediletto, preferito tra innumerevoli nazioni, eppure... testardo, ribelle, di dura cervice, perfido e sleale fin dal seno materno (Cf. Is 48,8), pronto a vendere la primogenitura per un piatto di lenticchie (Cf. Gen 25,34), gente peccatrice, popolo carico di iniquità, scellerati, figli ribelli e corrotti (Cf. Is 1,2-5): in una parola, «figli testardi e dal cuore indurito» (Ez 2,4).
«Nella Bibbia [e poi nel Vangelo] la “durezza di cuore” è detta sklerokardia o semplicemente sklèrosis e produce nello spirito gli stessi effetti che la sclerosi produce nell’organismo. Il sangue non scorre più con facilità nelle vene indurite e ormai chiuse al suo flusso. È un grave sintomo per la salute dell’uomo. Così è la durezza di cuore o sklerokardia: la Parola di Dio non è più accolta dall’uomo, non riesce più a fluire nella sua vita e pian piano cessa di pulsare e di guidare l’esistenza. È la morte spirituale dell’uomo, è il fallimento totale della sua persona» (Don Primo Gironi).
Ezechiele sa che la sua parola sarà rifiutata, ma sa anche che, al di là del successo o dell’insuccesso, la sua missione raggiungerà l’obiettivo perché ad operare è il Signore e i destinatari del messaggio non potranno restare indifferenti in eterno: prima o poi, dovranno assumere le loro responsabilità di fronte al messaggio del profeta che è stato inviato loro (Cf. Ez 2,5).
Anche il Nuovo Testamento registra le prove, a volte crudeli, a cui furono assoggettati molti profeti: «Altri, infine, subirono scherni e flagelli, catene e prigionia. Furono lapidati, torturati, tagliati in due, furono uccisi di spada, andarono in giro coperti di pelli di pecora e di capra, bisognosi, tribolati, maltrattati ..., vaganti per il deserto, sui monti...» (Eb 11,36-37; Cf. Ger 20,2; 37,15ss).
Gesù Cristo subirà la stessa sorte: «Venne fra i suoi e i suoi non l’hanno accolto... Allora (Pilato) rimise in libertà per loro Barabba e, dopo aver fatto flagellare Gesù, lo consegnò perché fosse crocifisso» (Gv 1,11; Mt 27,26).
Il profeta è perseguitato perché è una voce fuori dal coro; è inviso «perché la sua vita non è come quella degli altri» (Sap 2,15). Non è ascoltato perché «del tutto diverse sono le sue strade» (Sap 2,15). È di imbarazzo (Cf. Sap 2,11) perché di fronte ai legami parentali e di paese, di fronte alla mentalità e al parere comune, al conformismo e alle formalità, al ‘così si fa perché lo fanno tutti’, ha il coraggio di rimproverare le trasgressioni della legge di Dio (Cf. Sap 2,12). Dà fastidio perché dinanzi all’ipocrisia del ‘altrimenti chissà cosa pensa la gente’ e al ‘così si è sempre fatto’ è portatore della Parola di Dio che non ammette deroghe o accomodamenti.
Il profeta non è una mummia irrancidita dentro le sue verità scontate. È un uomo venduto all’amore di Dio e da questo legame trae speranze per l’uomo.
Il profeta, in quanto possiede «la conoscenza di Dio» (Sap 2,13), sa incoraggiare chi ama la verità e la giustizia; chi ama osare al di là di ogni andazzo umano. Il profeta è un uomo che fa sognare: perché in Cristo «le cose vecchie sono passate e ne sono nate di nuove» (1Cor 5,17).
Il profeta, come Gesù, è un uomo concreto, con i piedi ben piantati alla terra; sa partire sempre dalle necessità e dai bisogni reali della gente, perché non fa filosofia (Cf. Gc 2,14-17).
Il profeta, in quanto è un uomo concreto, riesce a cambiare le norme, le consuetudini e ribaltare le regole; riesce a vincere le tradizioni che ammuffiscono l’uomo e le abitudini che spengono lo spirito e paralizzano ogni iniziativa.
Il profeta è l’uomo di Dio che urla l’amore del suo Signore abbandonato dal popolo. Ma grida a squarciagola anche la misericordia infinita di Dio.
Anche se l’amore non è corrisposto, l’unica rivincita del Signore Dio sarà quella di continuare ad amare il suo popolo, nonostante le loro infedeltà: gli Israeliti quanto «al vangelo, sono nemici, per vostro vantaggio; ma quanto alla elezione, sono amati, a causa dei padri, perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili!» (Rom 11,1ss).
Questa è la misericordia di Dio e il suo amore infinito: anche i ribelli abiteranno presso il Signore Dio (Cf. Sal 68 [67],19).
Nella «pienezza del tempo» (Gal 4,4), la presenza di Gesù, profeta del Padre, uomo tra uomini, è il segno inequivocabile della fedeltà e dell’amore di Dio. In Cristo Gesù l’amore del Padre ha raggiunto il «vertice più alto. E questo non solo perché Cristo è il dono più prezioso dell’amore del Padre, ma anche perché in lui il rifiuto e la “durezza” di cuore degli uomini raggiungeranno il punto più alto di drammaticità e di sofferenza. Amore e infedeltà purtroppo, si inseguono e si commisurano a vicenda» (Settimio Cipriani).
 
Tommaso d ‘Aquino (Super ev. Matth., X, 834): E si meravigliava per la loro incredulità … non perché fosse inopinata e improvvisa per Colui che conosce tutte le cose prima che avvengano, ma perché si vuole mostrare meravigliato davanti agli uomini, Lui che conosce i segreti dei cuori, per far capire cosa veramente deve destare stupore: la cecità dei giudei, che non avevano voluto credere ai loro profeti quando annunciavano il Cristo, né vollero credere a Gesù Cristo stesso, nato tra loro.
 
Il Santo del Giorno - 7 Luglio 2024 - Sant’Antonio Fantosati, Martire:  Antonio nasce a Trevi (Pg) il 16 ottobre 1842. A 16 anni veste l’abito religioso francescano nel convento della Spineta a Todi, cambiando il nome in fra Antonino. Viene ordinato sacerdote nel 1865. Nel 1867 decide di partire missionario per la Cina, aggregandosi a Marsiglia ad altri otto francescani, fra cui padre Elia Facchini, che morirà martire due giorni dopo di lui, e un folto gruppo di Suore Canossiane. Giunge così ad Uccian capitale del Hu-pè e residenza principale della Missione. Qui deve vestire abiti cinesi e prendere il nome in lingua locale di Fan-hoae-te. Nel 1868 arriva nell’Alto Hu-pè, meta del suo campo apostolico che gli è stato assegnato, dove rimane per sette anni. Nel 1878 viene nominato amministratore apostolico dell’Alto Hu-pè e nel 1889 vicario apostolico dell’Hu-nan Meridionale. Durante la sua attività pastorale viene sottoposto a vari giudizi con accuse fatte da pagani interessati e contrari al cristianesimo. I suoi ultimi anni sono segnati dalle persecuzioni. Il 7 luglio 1900 viene ucciso brutalmente dalla folla aizzata dai «boxers». (Avvenire)
 
O Signore, che ci hai nutriti
con i doni della tua carità senza limiti,
fa’ che godiamo i benefici della salvezza
e viviamo sempre in rendimento di grazie.
Per Cristo nostro Signore.