18 Luglio 2024
 
Giovedì XV Settimana T. O.
 
Is 26,7-9.12.16-19; Salmo Responsoriale Dal Salmo 101 [103]; Mt 11,28-30
 
Colletta
O Dio, che mostri agli erranti la luce della tua verità.
perché possano tornare sulla retta via,
concedi a tutti coloro che si professano cristiani
di respingere ciò che è contrario a questo nome
e di seguire ciò che gli è conforme.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Prendete il mio giogo sopra di voi - Benedetto XVI (Angelus, 3 Luglio 2011): Quando Gesù percorreva le strade della Galilea annunciando il Regno di Dio e guarendo molti malati, sentiva compassione delle folle, perché erano stanche e sfinite, come senza pastore” (cfr Mt 9,35-36). Quello sguardo di Gesù sembra estendersi fino ad oggi, fino al nostro mondo. Anche oggi si posa su tanta gente oppressa da condizioni di vita difficili, ma anche priva di validi punti di riferimento per trovare un senso e una meta all’esistenza. Moltitudini sfinite si trovano nei Paesi più poveri, provate dall’indigenza; e anche nei Paesi più ricchi sono tanti gli uomini e le donne insoddisfatti, addirittura malati di depressione. Pensiamo poi ai numerosi sfollati e rifugiati, a quanti emigrano mettendo a rischio la propria vita. Lo sguardo di Cristo si posa su tutta questa gente, anzi, su ciascuno di questi figli del Padre che è nei cieli, e ripete: “Venite a me, voi tutti …”.
Gesù promette di dare a tutti “ristoro”, ma pone una condizione: “Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore”. Che cos’è questo “giogo”, che invece di pesare alleggerisce, e invece di schiacciare solleva? Il “giogo” di Cristo è la legge dell’amore, è il suo comandamento, che ha lasciato ai suoi discepoli (cfr Gv 13,34; 15,12). Il vero rimedio alle ferite dell’umanità, sia quelle materiali, come la fame e le ingiustizie, sia quelle psicologiche e morali causate da un falso benessere, è una regola di vita basata sull’amore fraterno, che ha la sua sorgente nell’amore di Dio. Per questo bisogna abbandonare la via dell’arroganza, della violenza utilizzata per procurarsi posizioni di sempre maggiore potere, per assicurarsi il successo ad ogni costo. Anche verso l’ambiente bisogna rinunciare allo stile aggressivo che ha dominato negli ultimi secoli e adottare una ragionevole “mitezza”. Ma soprattutto nei rapporti umani, interpersonali, sociali, la regola del rispetto e della non violenza, cioè la forza della verità contro ogni sopruso, è quella che può assicurare un futuro degno dell’uomo.     
 
I Lettura: Epifanio Gallego - La speranza che genera vita: Ispirandosi ai salmi classici (Sal 44,60.74; 60,1ss; 74,1), il profeta comincia con un grido di rettitudine e di giustizia legale che è tutto un programma di vita. A esso la comunità riunita liturgicamente risponde con l’affermazione della fiducia riposta nella giustizia di Yahveh. Non era questo il modo di comportarsi nelle grandi solennità liturgiche? Nella, Gerusalemme dei tempi messianici, non poteva mancare il compimento di quello che aveva costituito l’ideale di ogni fedele israelita.
Per questo Isaia, facendo suo qualche salmo dei pellegrini, lo ritocca e lo inserisce nel canto trionfale dei versetti precedenti come conclusione delle sue predizioni messianiche.
La grande aspirazione dei giusti degli ultimi tempi sarà appunto il nome di Yahveh, cioè Yahveh stesso in quanto può essere conosciuto, compreso e amato dall’uomo pur nei suoi limiti. Le circostanze storiche, i limiti sociali e le altre preoccupazioni umane non distrarranno ì giusti dal loro centro di gravità. Quando Paolo, in un rapimento di penetrazione divina, ci garantirà che «in lui viviamo, ci muoviamo e siamo», ci garantirà nel modo migliore che i tempi messianici sono ormai cominciati.
Con un gioco retorico, Agostino scopre Dio in se stesso, nella propria interiorità, dopo aver chiesto a tutte le creature, a una a una, se esse fossero Dio. Ma come dovettero suonare alle orecchie di quel giudei, avvezzi a cercare Yahveh nel fragore dell’uragano, nella pomposità del tempio o nella magnificenza dei sacrifici sul monte santo di Sion, le parole di Isaia, il quale assicurava che i giusti dei tempi nuovi lo avrebbero cercato in se stessi! A modo di corollario profetico, Cristo aggiungerà che il Padre non sarà adorato in Gerusalemme né sul Garizim, ma in spirito e verità. Sarebbe necessario mettersi nel secolo VIII a. C. per comprendere la novità dell’insegnamento profetico.
Da questa prospettiva yahvista e interiorizzante, il popolo comprende che tutta la sua storia è la storia delle grandi opere di Yahveh, che tutto quello che accade è compiuto da Yahveh come arbitro della storia per il bene dei suoi eletti. Lo sguardo resta limitato dentro le frontiere di Giuda. È solo un primo. passo, ma un passo decisivo, aperto al progresso della rivelazione. Le immagini non potrebbero essere più espressive. In uno sforzo sovrumano, paragonato ai dolori del parto, gli uomini, con le loro forze, riuscirono solo a generare vento; vuoto e nulla, e non un briciolo di salvezza, Senza la grazia, dirà Paolo, ci è impossibile anche pronunziare il nome di Gesù con merito.
La visione profetica della risurrezione descritta nel versetto 19 si presenta come un precoce fiore silvestre, esile e fragile, quasi vergognoso della sua solitudine. Non ne troveremo un altro fino a quasi sei secoli più tardi, nei libri di Daniele e dei Maccabei, quando giungerà la pienezza dell’apocalittica timidamente iniziata dai profeti, alla quale appartiene tutta questa sezione di Isaia concernente l’era messianica.
Certo, la risurrezione che Isaia intravede è limitata ai giusti del popolo eletto ed è espressa in un modo poetico, in contrapposizione con gli sforzi che il popolo fa inutilmente per far rivivere la propria nazione; ma il seme era gettato, e la ragione di questa speranza è del tutto convincente. L’azione vivificante di Yahveh sarebbe discesa sui morti, come la rugiada notturna provvidenziale discendeva sull’arida Palestina, costringendo la terra a partorire le ombre contenute nelle sue viscere, i «refraim» che attendevano nello sheol. I morti avrebbero nuovamente lodto Yahveh.
 
Vangelo
Io sono mite e umile di cuore.
 
Il tema del Vangelo è quello del giogo di Gesù che è dolce e sopportabile a differenza di quello imposto dai Farisei, insopportabile perché reso pesante da minuziose norme di fatto impraticabili (cfr. Mt 23,13ss.)
 
Dal Vangelo secondo Matteo
Mt 11,28-30
 
In quel tempo, Gesù disse: 
«Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro.
Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero».
 
Parola del Signore.
 
Benedetto Prete (I Quattro Vangeli): 28 Cristo esige l’accettazione della sua legge. Il giogo era una metafora usuale per designare la Legge (cf. Geremia, 5, 5; Ecclesiastico, 51, 34; Atti, 15, 10). Affaticati e carichi; la Legge antica era un giogo pesante ed i Farisei l’avevano ancora aggravato con l’aggiunta d’innumerevoli prescrizioni. Gesù concede il sollievo a chi lo segue, perché egli non impone una religiosità fatta d’infinite e gravose pratiche esterne, come voleva l’ebraismo ufficiale del suo tempo.
29 Prendete su di voi il mio giogo; cioè: prendete la legge che Cristo insegna, oppure: lasciatevi istruire da me. Gesù è il perfetto Maestro nella legge, perché egli la promulga e la spiega con mitezza ed umiltà di cuore. Quella legge che è suggerita dalla bontà porta sollievo alle anime.
30 Cristo impone ai propri sudditi una legge amabile (giogo soave); egli infatti perfezionando la legge antica l’ha resa leggera. In tutto il passo (11, 28-30) il lettore avverte una punta polemica contro l’opprimente legalismo dei Farisei, considerati dal popolo come interpreti e maestri qualificati della legge.
 
Il giogo, nella sacra Scrittura, è simbolo della sottomissione a Dio (Ger 2,20) e dell’obbedienza alla legge (At 15,10; Gal 5,1). Gesù nell’offrire ai suoi discepoli il suo “giogo dolce” fa emergere la «nuova giustizia» evangelica in netta contrapposizione con la giustizia farisaica fatta di precetti e di leggi; una giustizia ipocrita, strisciante da sempre in tutte le religioni, anche nel cuore di tanti cristiani. Il ristoro che Gesù dona a coloro che sono «stanchi e oppressi», in ogni caso, non esime chi si mette seriamente al suo seguito di accogliere, senza tentennamenti, la «clausola» che la sequela esige: rinnegare se stessi e portare la croce dietro di lui, ogni giorno (cfr. Lc 9,23), senza infingimenti o accomodamenti. È la croce che diventa, per il Cristo come per il suo discepolo, motivo discriminante della vera sapienza, quella sapienza che agli occhi del mondo è considerata sempre «stoltezza» o «scandalo» (1Cor 1,17-31). Un carico, la croce di Cristo, che non soverchia le forze umane, non annienta l’uomo nelle sue aspettative, non lo umilia nella sua dignità di creatura, anzi lo esalta, lo promuove, lo avvia, «di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito Santo» (2Cor 3,18) ad un traguardo di felicità e di beatitudine eterna. La croce va quindi piantata al centro del cuore e della vita del credente. Invece, molti cristiani tendono a porre al centro di tutto la loro vita, spesso disordinata; le loro scelte, non sempre in sintonia con la morale; o gusti o programmi e tentano di far ruotare attorno a questo centro anche l’intero messaggio evangelico, accettandolo in parte o corrompendolo o assoggettandolo ai propri capricci; da qui la necessità di imporre alla Bibbia, distinguo, precetti o nuove leggi, frutto della tradizione umana; paletti issati come muri di protezione per contenere la devastante e benefica azione esplosiva della Parola di Dio (cfr. Mc 7,8-9).
 
Vincenzo Raffa (Liturgia Festiva): Accettare il giogo di Cristo significa soprattutto ricopiare in sé la sua morte e risurrezione, perché sono questi i misteri che caratterizzano il suo programma e la sua normativa. Il momento sacramentale forte di comunione con il Cristo morto e risorto dopo il battesimo, l’Eucaristia, Eppure tutti coloro che si uniscono a celebrarla, lungi dall’avvertire su di sé un carico insopportabile, si sentono invece alleggeriti, L’Eucaristia ci rende commensali di Dio. Perciò più che sudditi costretti a eseguire delle ordinanze superiori, ci sentiamo collaboratori volontari e consapevoli al piano di salvezza, compagni di via nel non facile cammino verso al comune meta della gloria.
La serenità del Cuore è ciò che; elimina ogni peso.
L’Eucaristia ci rende lieti ospiti di Cristo e ci fa accettare la legge divina come via alla redenzione: «Donaci, a Signore, di rallegrarci sempre per questi misteri pasquali, perché la redenzione che si attua nei tuoi misteri, sia per noi causa di perenne letizia» (cf IV domenica del Tempo pasquale).
Assoggettarsi al giogo di Cristo significa vivere secondo lo Spirito, averlo nel cuore. Lo Spirito insegna ad accettare con piacere la legge di Cristo e fornisce tutti i sussidi necessari; face ndo evitare gli estremi del lassismo e del rigorismo. L’ Eucaristia è dono di Spirito Santo.
 
L’umiltà nasce dalla completa veracità, per la quale l’uomo si stima così come Dio lo valuta. L’umiltà, quindi, non consiste nella ricerca del disprezzo di se stessi, ma nell’assunzione della propria realtà di fronte a Dio e agli uomini. Dio ama gli umili: “Su chi volgerò lo sguardo? Sull’umile e su chi ha lo spirito contrito e su chi trema alla mia parola” (Is 66,2). Dio ascolta le preghiere  degli umili e le esaudisce (Gdt 9,11-13), e concede loro grazia: “Rivestitevi tutti di umiltà gli uni verso gli altri, perché Dio resiste ai superbi, ma dà grazia agli umili” (1Pt 5,5). Dio “umilia l’alterigia dei superbi” (Gb 22,29) e innalza gli umili (cfr. Lc 1,52; 18,14; Fil 2,8; 1Pt 5,6: Gc 4,10). Nella sacra Scrittura abbiamo numerosi esempi di umiltà: Mosè (Nm 12,3), Maria, la Madre di Gesù (Lc 1,48), Giovanni Battista (Gv 1,27; 3,30), il centurione romano (Mt 8,8), l’apostolo Paolo (1Cor 15,9; Ef 3,8; 1Tm 1,15). L’umiltà nella vita cristiana ha un posto assai importante perché conserva la carità e l’unità: “Se dunque c’è qualche consolazione in Cristo, se c’è qualche conforto, frutto della carità, se c’è qualche comunione di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione, rendete piena la mia gioia con un medesimo sentire e con la stessa carità, rimanendo unanimi e concordi. Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri” (Fil 2,1-4; cfr. Ef 4,2; Col 3,12; 1Pt 5,5).  L’umiltà è condizione per entrare nel regno di Dio (cfr. Mt 10,25; 18,3; Lc 18,17), da qui il credente deve rifuggire da quella falsa umiltà che infetta il cuore dell’ipocrita (cfr. Col 2,16-23).
 
L’umiltà del cuore: «Dice il Salvatore: “Imparate da me che sono mite e umile di cuore, e troverete riposo alle anime vostre” [Mt 11,29]. E se vuoi conoscere il nome di questa virtù, cioè come essa è chiamata dai filosofi, sappi che l’umiltà su cui Dio rivolge il suo sguardo è quella stessa virtù che i filosofi chiamano atyfìa, oppure metriòtes. Noi possiamo peraltro definirla con una perifrasi: l’umiltà è lo stato di un uomo che non si gonfia, ma si abbassa. Chi infatti si gonfia, cade, come dice l’Apostolo, “nella condanna del diavolo” - il quale appunto ha cominciato col gonfiarsi di superbia -; l’Apostolo dice: “Per non incappare, gonfiato d’orgoglio, nella condanna del diavolo” [1Tm 3,6].» (Origene, In Luc. 8,5).
 
Il Santo del Giorno - 18 Luglio 2024 - Beata Berta di Marbais: La beata Berta di Marbais è una badessa vissuta tra i secoli XII e XIII. Era nata verso la fine del sec. XII, in una famiglia nobile imparentata alla contessa delle Fiandre, Giovanna di Costantinopoli. Berta sposò il principe di Moulembaix e alla morte del marito decise farsi monaca ritirandosi nel monastero cistercense di Aywières, nella diocesi di Nabur nel Barbante.
Nel monastero ebbe come compagna la grande mistica medievale, santa Lutgarda di Tongres.
Quando nel 1226, la contessa Giovanna e il marito Fernando fondarono il monastero di Notre Dame a Marquette presso Lille, chiamarono a reggere la comunità la beata Berta. La badessa per vent’anni guidò le monache con grande saggezza e amabilità, cercando di vivere una vita perfetta, attraverso l’amabile esercizio delle virtù. La beata Berta, dopo essersi recata in visita al monastero di Sparmailles nei pressi di Burges, si ammalò gravemente e morì il 18 luglio 1247. Il corpo della beata Berta fu riportato a Marquette e fu sepolto nella chiesa del monastero. Nel 1619, mons, Giovanni Dauvin, vescovo di Namur inserì il nome della badessa nel catalogo delle sante e beate della diocesi. Nei menologi cistercensi e a Namur la festa per la beata Berta è stata fissata nel giorno 18 luglio. Autore: Mauro Bonato
 
O Signore, che ci hai nutriti con i tuoi doni,
fa’ che per la celebrazione di questi santi misteri
cresca in noi il frutto della salvezza.
Per Cristo nostro Signore.