15 Luglio 2024
 
San Bonaventura, Vescovo e Dottore della Chiesa
 
Is 1,10-17; Salmo Responsoriale Dal Salmo 49 (50); Mt 10,34.1-11
 
Colletta
Dio onnipotente, concedi a noi,
che celebriamo la nascita al cielo
del santo vescovo Bonaventura,
di essere illuminati dalla sua eminente sapienza
e di imitare il suo serafico ardore.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Benedetto XVI (Catechesi 10 Marzo 2010): (...) per san Bonaventura governare non era semplicemente un fare, ma era soprattutto pensare e pregare. Alla base del suo governo troviamo sempre la preghiera e il pensiero; tutte le sue decisioni risultano dalla riflessione, dal pensiero illuminato dalla preghiera. Il suo contatto intimo con Cristo ha accompagnato sempre il suo lavoro di Ministro Generale e perciò ha composto una serie di scritti teologico-mistici, che esprimono l’animo del suo governo e manifestano l’intenzione di guidare interiormente l’Ordine, di governare, cioè, non solo mediante comandi e strutture, ma guidando e illuminando le anime, orientando a Cristo.
Di questi suoi scritti, che sono l’anima del suo governo e che mostrano la strada da percorrere sia al singolo che alla comunità, vorrei menzionarne solo uno, il suo capolavoro, l’Itinerarium mentis in Deum, che è un “manuale” di contemplazione mistica. Questo libro fu concepito in un luogo di profonda spiritualità: il monte della Verna, dove san Francesco aveva ricevuto le stigmate. Nell’introduzione l’autore illustra le circostanze che diedero origine a questo suo scritto: “Mentre meditavo sulle possibilità dell’anima di ascendere a Dio, mi si presentò, tra l’altro, quell’evento mirabile occorso in quel luogo al beato Francesco, cioè la visione del Serafino alato in forma di Crocifisso. E su ciò meditando, subito mi avvidi che tale visione mi offriva l’estasi contemplativa del medesimo padre Francesco e insieme la via che ad esso conduce” (Itinerario della mente in Dio, Prologo, 2, in Opere di San Bonaventura. Opuscoli Teologici /1, Roma 1993, p. 499).
Le sei ali del Serafino diventano così il simbolo di sei tappe che conducono progressivamente l’uomo dalla conoscenza di Dio attraverso l’osservazione del mondo e delle creature e attraverso l’esplorazione dell’anima stessa con le sue facoltà, fino all’unione appagante con la Trinità per mezzo di Cristo, a imitazione di san Francesco d’Assisi. Le ultime parole dell’Itinerarium di san Bonaventura, che rispondono alla domanda su come si possa raggiungere questa comunione mistica con Dio, andrebbero fatte scendere nel profondo del cuore: “Se ora brami sapere come ciò avvenga, (la comunione mistica con Dio) interroga la grazia, non la dottrina; il desiderio, non l’intelletto; il gemito della preghiera, non lo studio della lettera; lo sposo, non il maestro; Dio, non l’uomo; la caligine, non la chiarezza; non la luce, ma il fuoco che tutto infiamma e trasporta in Dio con le forti unzioni e gli ardentissimi affetti ... Entriamo dunque nella caligine, tacitiamo gli affanni, le passioni e i fantasmi; passiamo con Cristo Crocifisso da questo mondo al Padre, affinché, dopo averlo visto, diciamo con Filippo: ciò mi basta” (ibid., VII, 6).
Cari amici, accogliamo l’invito rivoltoci da san Bonaventura, il Dottore Serafico, e mettiamoci alla scuola del Maestro divino: ascoltiamo la sua Parola di vita e di verità, che risuona nell’intimo della nostra anima. Purifichiamo i nostri pensieri e le nostre azioni, affinché Egli possa abitare in noi, e noi possiamo intendere la sua Voce divina, che ci attrae verso la vera felicità.
 
I Lettura: Epifanio Callego: Isaia rivela la sua vocazione - Avvenne in un giorno di festa, con lo scenario abituale di quelle occasioni nel tempio di Gerusalemme: pomposità dei sacerdoti, vocìo di pellegrini e gran numero di animali che attendevano il momento di essere sacrificati,
Isaia, mescolato con il pubblico, ha dato il primo saggio del suo carisma profetico. Lo spettacolo gli causa brividi. Sennacherib ha raso al suolo quarantasei città cinte di mura e un’infinità di paesi. La sua minaccia di sangue e di sacrilegio incombe su Gerusalemme come un nuvolone carico di tempesta di insospettate proporzioni.
E intanto i dirigenti interessati e il popolo incauto credono di propiziarsi Yahveh con la vuota religione d’una liturgia festiva. Era come tappare gli occhi a Dio per non lasciargli vedere, secondo un linguaggio stereotipato, le ingiustizie verso il povero, l’orfano e la vedova, gli strati sociali più bisognosi e oppressi. Persino le loro mani erano insanguinate, e forse, del sangue dei loro figli offerti a Moloch, sull’esempio scandaloso del re Acaz. La denunzia profetica è tagliente e coraggiosa; la prima fatta dinanzi alle porte del tempio, davanti al sommo sacerdote, al re e al popolo. Il profeta non è nemico del culto, della religione e, meno ancora, del sacerdozio-monarchia, come pretendeva Renan. Isaia non era uno spiritualista rivoluzionario né un conformista superficiale: era il propugnatore della verità e della sincerità. Non condannò il sacrificio, ma la sua vuotaggine; non condannò il ricorso a Yahveh, ma la pretesa di ingannarlo con un « do ut des»; non condannò la fedeltà al rituale levitico, espressione liturgica dell’alleanza, ma la disubbidienza alla legge e all’alleanza, incarnate in tutte le relazioni umane.
Servendosi della finzione letteraria della procedura giudiziale, egli esprime i sentimenti divini e la condotta umana col giudizio nel quale Yahveh sarà procuratore generale e giudice allo stesso tempo. La sentenza non può essere più condannatoria. Neppure quelle vittime pronte per il sacrificio si comportano male come il suo popolo. Ne sono testimoni il cielo e la terra, non le divinità, come nei patti hittiti, ma tutte le creature dell’unico Dio. Infatti  le creature, divinità siderali demitizzate nella rivelazione, hanno la loro ragione di essere per le loro relazioni con Dio e con gli uomini.
«Perché volete ancora essere colpiti?» Quando tutto è umanamente perduto, quando l’uomo, come individuo e come gruppo sociale, ha rotto ancora una volta le sue relazioni con Dio con le sue ingiustizie verso gli uomini, è ancora possibile il dialogo divino, quel perenne «venite» salvifico, attraverso la pratica del bene, della giustizia, della difesa dei diritti del debole é la condanna di qualsiasi oppressione o coartazione della libertà.
Per questo l’unica via per arrivare al nuovo incontro storico con Dio è il riconoscimento della propria colpevolezza nella pratica dei valori positivi e l’apertura alla gratuita volontà liberatrice di Yahveh.
 
 
Vangelo
Sono venuto a portare non pace, ma spada.
 
Chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me... ascoltare questo insegnamento di Gesù a molti fa venire la pelle d’oca... sono pagine che danno fastidio, e che vorremmo strappare... e così, qualche volta, nella nostra insipienza riusciamo a neutralizzarle apportandovi becere correzioni secondo i nostri gusti. Ma è in questa pagina che troviamo il cuore della Buona Novella: la Croce, e soltanto la Croce può dare all’uomo, su questa terra, la vera pace, e, oltrepassati i confini della vita, la vera ed eterna beatitudine. Il tuo distintivo di cristiano non è nel crocifisso d’oro che porti al collo o vezzosamente come bijou sul bavero del tuo elegante tailleur. Potrai dimostrare di essere cristiano soltanto quando, mostrando le tue spalle, esse appariranno letteralmente scarnificate dal legno della Croce.
 
Dal Vangelo secondo Matteo
Mt 10,34.11,1
 
In quel tempo, Gesù disse ai suoi apostoli:
«Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; sono venuto a portare non pace, ma spada. Sono infatti venuto a separare l’uomo da suo padre e la figlia da sua madre e la nuora da sua suocera; e nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa.
Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me; chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me.
Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà.
Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato.
Chi accoglie un profeta perché è un profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto perché è un giusto, avrà la ricompensa del giusto.
Chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa».
Quando Gesù ebbe terminato di dare queste istruzioni ai suoi dodici discepoli, partì di là per insegnare e predicare nelle loro città.
 
Parola del Signore.
 
Pace e spada - Felipe F. Ramos: Abbiamo davanti a noi uno dei paradossi più vistosi. Sembrano parole in contrasto con le speranze nel Messia che doveva essere il principe della pace (Is 9,5); sono contrarie alle speranze di tutti gli uomini che lottano e lavorano per la pace; sono contrarie alla stessa parola di Gesù che ha proclamato beati tutti quelli che lavorano per la pace (5,9: saranno chiamati figli di Dio) e ha ordinato ai suoi discepoli di annunziare la pace.
È agevole uscire da questo tremendo paradosso? Naturalmente no, se lo si prende nel senso che gli è stato dato talvolta per giustificare la «guerra santa» o aspirazioni umane o intransigenze religiose. La spada o lotta portata da Gesù non è dichiarazione di guerra contro il resto dei mortali che non accettano la fede cristiana. I figli del tuono furono ripresi duramente per questa mentalità: «Vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?» (Lc 9,54-55) dissero; ma egli li rimproverò. Non si tratta della lotta dei discepoli contro altri uomini, ma di questi uomini contro i discepoli.
La spada-divisione è implicita nelle esigenze della presenza di Gesù. Lo stesso messaggio porta alla divisione: esige la rinunzia alle cose più amate, esige che nessuno e nulla sia al di sopra di lui nella scala dei valori che l’uomo deve trattare. Gerarchizzando questi valori, egli intende stare alla vetta; e non tutti, e anzi pochi sono disposti ad accettare questo criterio. Solo una fede profonda può farlo accettare. La divisione di cui si parla nel testo era già stata vissuta come esperienza nella Chiesa, subito dopo che il giudaismo ufficiale aveva lanciato il decreto di scomunica contro tutti quelli che avessero ammesso che Gesù era il Messia. Questo portò nelle famiglie la divisione a cui accenna il testo. Ma, al di sopra e al di là di questo livello sta l’esperienza della Chiesa, dei discepoli di Gesù che vogliono essere pienamente coerenti con la loro vocazione, con la chiamata del Signore e con le esigenze cristiane. L’esigenza che, a volte, è imposta ai discepoli di Gesù, di rinunziare a tutto e a tutti, anche alle cose più amate (8,22), va incontro all’incomprensione, alla divisione, alla lotta, la spada in azione, che è la stessa parola di Dio (Eb 4,12).
 
La Croce segno del cristiano - Jean Audusseau e Xavier Léon-Dufour: La croce di Cristo. - Rivelando che i due testimoni erano stati martirizzati «là dove Cristo fu crocifisso» (Apoc 11, 8), l’Apocalisse identifica la sorte dei discepoli e quella del maestro. Lo esigeva già Gesù: «Chi vuole seguirmi, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mt 16, 24 par.). Il discepolo non deve soltanto morire a se stesso: la croce che porta è il segno che egli muore al mondo, che ha spezzato tutti i suoi legami naturali (Mt 10, 33-39 par.), che accetta la condizione di perseguitato, a cui forse si toglierà la vita (Mt 23, 34). Ma nello stesso tempo essa è pure il segno della sua gloria anticipata (cfr. Gv 12, 26).
2. La vita crocifissa.- La croce di Cristo, che, secondo Paolo, separava le due economie della legge e della fede, diventa nel cuore del cristiano la frontiera tra i due mondi della carne e dello spirito. Essa è la sua sola giustificazione e la sua sola*sapienza. Se si è convertito, è stato perché ai suoi occhi furono dipinti i tratti di Gesù in croce (Gal 3, 1). Se è giustificato, non è per le opere della legge, ma per la sua fede nel crocifisso; infatti egli stesso è stato crocifisso con Cristo nel battesimo, cosicché è morto alla legge per vivere a Dio (Gal 2, 19) e non ha più nulla a che vedere con il mondo (6, 14). Egli pone quindi la sua fiducia nella sola forza di Cristo, altrimenti si mostrerebbe «nemico della croce» (Fil 3, 18).
3. La croce, titolo di gloria del cristiano. - Nella vita quotidiana del cristiano, «l’uomo vecchio è crocifisso» (Rom 6, 6), cosicché è pienamente liberato dal peccato. Il suo giudizio è trasformato dalla sapienza della croce (1 Cor 2). Mediante questa sapienza egli, sull’esempio di Gesù, diventerà umile ed «obbediente fino alla morte, ed alla morte di croce» (Fil 2, 1-8). Più generalmente, egli deve contemplare il «modello» del Cristo, che «sul legno ha portato le nostre colpe nel suo corpo, affinché, morti alle nostre colpe, viviamo per la giustizia» (I Piet 2, 21-24). Infine, se è vero che deve sempre temere l’apostasia, che lo porterebbe a «crocifiggere nuovamente per proprio conto il Figlio di Dio» (Ebr 6, 6), egli può tuttavia esclamare fieramente con Paolo: «Per me, non sia mai ch’io mi glori d’altro all’infuori della croce del nostro Signore Gesù Cristo, grazie al quale il mondo è per me crocifisso, ed io lo sono per il mondo» (Gal 6, 14).
 
La Parola di Dio commentata dai Padri della Chiesa: Si deve amare Dio sia nel tempo della persecuzione, sia nella pace e nella quiete: « “Chi ama suo figlio o sua figlia più di me non è degno di me” [Mt 10,37]. Questo detto, i fedeli più tiepidi e negligenti pensano che lo si debba attuare solo nel tempo della persecuzione: quasi esistesse un qualche tempo in cui si possa preferire a Dio qualcos’altro o quasi che chi nel tempo della persecuzione ritiene come suo bene più prezioso di tutti Cristo, in ogni altro tempo lo possa considerare un bene più vile. Se le cose stessero così, il nostro amore per Dio lo dovremmo alla persecuzione, non alla fede; e solo allora potremmo qualcosa, quando gli empi ci perseguitano, mentre dobbiamo a Dio un affetto maggiore, o certamente non minore, nella tranquillità che nelle avversità. Dobbiamo infatti amarlo di più per il fatto stesso che non permette che noi siamo afflitti dai mali, mostrando cioè verso di noi l’indulgenza di un padre dolcissimo e tenerissimo, preferendo che nella pace e nella quiete noi mostriamo con opere di bene la nostra fede, piuttosto di farcene dar prova nella persecuzione, con le pene del nostro corpo. Perciò, se nulla si deve a lui preferire quando ci tratta con asprezza, certo non si deve nulla a lui preferire quando, con la sua bontà, più a sé ci lega» (Salviano di Marsiglia, Epist. 9).
 
Il Santo del giorno - 15 Luglio 2024 - San Bonaventura, Vescovo e Dottore della Chiesa: Giovanni Fidanza nacque a Bagnoregio (Viterbo) nel 1218. Bambino fu guarito da san Francesco, che avrebbe esclamato: «Oh bona ventura». Gli rimase per nome ed egli fu davvero una «buona ventura» per la Chiesa. Studiò a Parigi e durante il suo soggiorno in Francia, entrò nell’Ordine dei Frati Minori. Insegnò teologia all’università di Parigi e formò intorno a sé una reputatissima scuola. Nel 1257 venne eletto generale dell’Ordine francescano, carica che mantenne per diciassette anni con impegno al punto da essere definito secondo fondatore dell’Ordine. Scrisse numerose opere di carattere teologico e mistico ed importante fu la «Legenda maior», biografia ufficiale di San Francesco, a cui si ispirò Giotto per il ciclo delle Storie di San Francesco. Fu nominato vescovo di Albano e cardinale. Partecipò al II Concilio di Lione che, grazie anche al suo contributo, segnò un riavvicinamento fra Chiesa latina e Chiesa greca. Proprio durante il Concilio, morì a Lione, il 15 luglio 1274. (Avvenire)
 
O Signore, che ci hai nutriti di Cristo, pane vivo,
nella memoria di san Bonaventura,
formaci alla scuola del Vangelo,
perché conosciamo la tua verità
e la viviamo nella carità fraterna.
Per Cristo nostro Signore.