7 Giugno 2024
 
Sacratissimo Cuore di Gesù
 
Os 11,1-4.8c-9; Salmo Responsoriale Da  Is 12,2-6; Ef 3,8-12.14-19; Gv 19,31-37
 
Colletta
Padre di infinita tenerezza,
che sempre sostieni i tuoi figli e li nutri con la tua mano,
donaci di attingere dal Cuore di Cristo trafitto sulla croce
la sublime conoscenza del tuo amore,
perché, rinnovati con la forza dello Spirito,
annunciamo a tutti gli uomini le ricchezze della tua grazia.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Benedetto XVI (Omelia, 19 Giugno 2009)Nell’Antico Testamento si parla 26 volte del cuore di Dio, considerato come l’organo della sua volontà: rispetto al cuore di Dio l’uomo viene giudicato. A causa del dolore che il suo cuore prova per i peccati dell’uomo, Iddio decide il diluvio, ma poi si commuove dinanzi alla debolezza umana e perdona. C’è poi un passo veterotestamentario nel quale il tema del cuore di Dio si trova espresso in modo assolutamente chiaro: è nel capitolo 11 del libro del profeta Osea, dove i primi versetti descrivono la dimensione dell’amore con cui il Signore si è rivolto ad Israele all’alba della sua storia: “Quando Israele era fanciullo, io l’ho amato e dall’Egitto ho chiamato mio figlio” (v. 1). In verità, all’instancabile predilezione divina, Israele risponde con indifferenza e addirittura con ingratitudine. “Più li chiamavo - è costretto a constatare il Signore -, più si allontanavano da me” (v. 2). Tuttavia Egli mai abbandona Israele nelle mani dei nemici, perché “il mio cuore - osserva il Creatore dell’universo - si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione” (v. 8).
Il cuore di Dio freme di compassione! Nell’odierna solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù, la Chiesa offre alla nostra contemplazione questo mistero, il mistero del cuore di un Dio che si commuove e riversa tutto il suo amore sull’umanità. Un amore misterioso, che nei testi del Nuovo Testamento ci viene rivelato come incommensurabile passione di Dio per l’uomo. Egli non si arrende dinanzi all’ingratitudine e nemmeno davanti al rifiuto del popolo che si è scelto; anzi, con infinita misericordia, invia nel mondo l’Unigenito suo Figlio perché prenda su di sé il destino dell’amore distrutto; perché, sconfiggendo il potere del male e della morte, possa restituire dignità di figli agli esseri umani resi schiavi dal peccato. Tutto questo a caro prezzo: il Figlio Unigenito del Padre si immola sulla croce: “Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine” (cfr. Gv 13,1). Simbolo di tale amore che va oltre la morte è il suo fianco squarciato da una lancia. A tale riguardo, il testimone oculare, l’apostolo Giovanni, afferma: “Uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue ed acqua” (cfr. Gv 19,34) [...] Cari fratelli e sorelle, fermiamoci insieme a contemplare il Cuore trafitto del Crocifisso. Abbiamo ascoltato ancora una volta, poco fa, nella breve lettura tratta dalla Lettera di san Paolo agli Efesini, che “Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatti rivivere con Cristo... Con lui ci ha anche risuscitato e ci ha fatto sedere nei cieli, in Cristo Gesù” (Ef 2, 4-6). Essere in Cristo Gesù è già sedere nei cieli. Nel Cuore di Gesù è espresso il nucleo essenziale del cristianesimo; in Cristo ci è stata rivelata e donata tutta la novità rivoluzionaria del Vangelo: l’Amore che ci salva e ci fa vivere già nell’eternità di Dio. Scrive l’evangelista Giovanni: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio Unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna” (3,16). Il suo Cuore divino chiama allora il nostro cuore; ci invita ad uscire da noi stessi, ad abbandonare le nostre sicurezze umane per fidarci di Lui e, seguendo il suo esempio, a fare di noi stessi un dono di amore senza riserve.
 
I Lettura: Dio ama come un padre e una madre, questo è il messaggio che si trae dal testo di Osea. In modo particolare il brano profetico pone l’accento sulla manifestazione dell’amore divino e lo fa soprattutto con  queste parole: “Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione” (Os 11,8).
Un amore paterno è quello di Dio: innanzi al peccato il comportamento divino non è mai di vendetta, ma di perdono.
 
II lettura: Nella preghiera, l’apostolo Paolo, chiede due doni per i cristiani di Efeso. Sono due doni che cammino di pari passo sul sentiero della carità, il primo dono affinchè possano essere “potentemente rafforzati nell'uomo interiore mediante il suo Spirito”. Il secondo dono affinché Cristo abiti nei loro cuori per mezzo della fede. Ma il dono che sovrasta ogni attesa è che possano essere “fondati nella carità”. Solo se “fondati nella carità” potranno conoscere l'amore di Cristo che supera ogni conoscenza, ed essere ricolmi di tutta la pienezza di Dio.
 
Vangelo
Uno dei soldati gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua.
 
La ferita del costato sarà per tre volte mostrata da Gesù come segno di riconoscimento dopo la sua risurrezione. Giovanni in questa cruenta scena vi vede l’avverarsi di importanti profezie. La prima profezia che si avvera è Es 12,46: “In una sola casa si mangerà [l’agnello pasquale]: non ne porterai la carne fuori di casa; non ne spezzerete alcun osso”.
Quando Gesù muore inchiodato sulla croce, nel tempio di Gerusalemme venivano sacrificati gli agnelli della Pasqua ai quali i sacerdoti erano ben attenti a non spezzare alcun osso (Es 12,46), Gesù è il vero l’Agnello pasquale offerto per la redenzione del mondo: non gli è stato spezzato alcun osso. L’altra profezia a cui si riferisce il Vangelo è Zac 12,10: “Riverserò sopra la casa di Davide e sopra gli abitanti di Gerusalemme uno spirito di grazia e di consolazione: guarderanno a me, colui che hanno trafitto. Ne faranno il lutto come si fa il lutto per un figlio unico, lo piangeranno come si piange il primogenito”.
In Gesù si compiono perfettamente le Scritture, Gesù è il servo sofferente: “Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti” (Is 53,5).
 
Dal Vangelo secondo Giovanni
Gv 19,31-37
 
Era il giorno della Parascève e i Giudei, perché i corpi non rimanessero sulla croce durante il sabato – era infatti un giorno solenne quel sabato –, chiesero a Pilato che fossero spezzate loro le gambe e fossero portati via.
Vennero dunque i soldati e spezzarono le gambe all'uno e all'altro che erano stati crocifissi insieme con lui. Venuti però da Gesù, vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua.
Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera; egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate. Questo infatti avvenne perché si compisse la Scrittura: «Non gli sarà spezzato alcun osso». E un altro passo della Scrittura dice ancora: «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto».
 
Parola del Signore.
 
Osea, Paolo, Giovanni, sono i cantori dell’amore infinito di Dio, un grande e gratuito amore che si è fatto “carne” in Cristo Gesù: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16). Il Vangelo di Giovanni ci sospinge sul Calvario per condolerci con il Figlio di Dio; gli ultimi spasmi, e poi la falce della morte miete la vita della pacifica Vittima pasquale ... La dolorosa frattura delle gambe serviva per accelerare la morte del condannato, quasi un gesto di pietà. L’abitudine dei romani, invece, era quella di lasciare i cadaveri in croce per accrescere il terrore nella popolazione. I soldati non spezzano le gambe di Gesù perché già morto e il senso viene chiarito con riferimento all’agnello pasquale, di cui non gli sarà spezzato alcun osso (cfr. Nm 9,12). Così morendo nell’ora e in prossimità degli agnelli di Pasqua, Gesù diventa misteriosamente il nuovo agnello pasquale, per mezzo del quale si riattualizza la grande festa della liberazione. Il soldato per accertarsi della morte del condannato gli squarcia il costato, e subito ne uscì sangue e acqua. Il significato di questo avvenimento “sarà precisato da due testi della Scrittura [vv 36s]. Il sangue [Lv 1,5; Es 24,8] attesta la realtà del sacrificio dell’agnello offerto per la salvezza del mondo (Gv 6,51), e l’acqua, simbolo dello Spirito, la sua fecondità spirituale. Molti Padri hanno visto nell’acqua il simbolo del battesimo nel sangue quello dell’eucaristia e in questi due sacramenti il segno della chiesa, nuova Eva che nasce dal nuovo Adamo [cfr. Ef 5,23-32]” (Bibbia di Gerusalemme).
 
Teologia della celebrazione (Vincenzo Raffa, Liturgia Festiva): Oggetto del culto della nostra solennità non è solo l’amore che Cristo porta a noi, ma anche il suo cuore umano, corporale. L’umanità del Cristo infatti è tutta interamente degna di adorazione perché tutta unita ipostaticamente alla persona del Verbo.
Nulla però in ciò che Cristo assunse da noi è più meritevole di ottenere il nostro culto, del cuore. Il cuore è considerato come il simbolo di quanto di più nobile e di più spirituale caratterizza la personalità umana. È il centro dei sentimenti e delle aspirazioni, il focolare della gioia e del dolore, lo strumento più sensibile delle risonanze esteriori e delle vibrazioni interiori, il fulcro di quella forza che muove ogni cosa e che crea i rapporti con gli altri, la sede di ogni eroismo e di ogni iniziativa, in una parola l’emblema e la sede dell’amore. Per l’antichità e per molte culture, centro psichico di tutto questo mondo di emozioni, di intenzioni e di impulsi non è il cervello, ma il cuore. Noi adoriamo il cuore di Cristo perché per noi è l’immagine dell’ideale di tutta la sua umanità, di ciò che maggiormente la caratterizza e la spiega.
In particolare il cuore di Cristo viene adorato perché incarnazione eloquente del triplice amore: quello divino infinito, rivelato nel Verbo, comune alle tre persone della SS. Trinità; quello spirituale infuso dallo Spirito Santo come in tutti i cuori santificati dalla sua inabitazione; quello sensibile, affettivo, connaturale a ogni uomo (cfr. Enc. Haurietis aquas del 15.5.1956: D 3922-3925).
La Chiesa nel Cuore di Gesù adora il segno di questa misteriosa circolazione di vita che, pur avendo diverse sorgenti, resta sempre l’unico grande segreto di tutta l’esistenza e di tutta l’opera del Cristo.
 
Un soldato gli aprì il costato con la lancia - Agostino (In Io. Evang., 120, 2): Vennero, dunque, i soldati e spezzarono le gambe al primo, poi all’altro che era crocifisso insieme con lui. Giunti a Gesù, vedendolo già morto, non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati gli aprì il costato con la lancia, e subito ne uscì sangue ed acqua (Gv 19,32-34). L’evangelista ha usato un verbo significativo. Non ha detto: colpì, ferì il suo costato, o qualcosa di simile. Ha detto: aprì, per indicare che nel costato di Cristo fu come aperta la porta della vita, donde fluirono i sacramenti della Chiesa, senza dei quali non si entra a quella vita che è la vera vita. Quel sangue è stato versato per la remissione dei peccati quell’acqua tempera il calice della salvezza, ed è insieme bevanda e lavacro. Questo mistero era stato preannunciato da quella porta che Noè ebbe ordine di aprire nel fianco dell’arca (Gen 6,16), perché entrassero gli esseri viventi che dovevano scampare ai diluvio, con che era prefigurata la Chiesa. Sempre per preannunciare questo mistero, la prima donna fu formata dal fianco dell’uomo che dormiva (cf. Gen 2,22), e fu chiamata vita e madre dei viventi (cf. Gen 3,20). Indubbiamente era l’annuncio di un grande bene, prima del grande male della prevaricazione. Qui il secondo Adamo, chinato il capo, si addormentò sulla croce, perché così, con il sangue e l’acqua che sgorgarono dal suo fianco, fosse formata la sua sposa. O morte, per cui i morti riprendono vita! Che cosa c’è di più puro di questo sangue? Che cosa c’è di più salutare di questa ferita?
 
Il Santo del Giorno - 7 Giugno 2024 - Sant’Antonio Maria Gianelli. In ogni tempo e luogo l’impegno a dare al Vangelo una forma efficace: Se il Vangelo è immutabile perché segno dell’eterno che comunica con la storia, i linguaggi, gli stili e le modalità per farlo conoscere sono soggetti a continui necessari cambiamenti.
Necessari per poter dialogare con la cultura di tempi e luoghi diversi. Fu proprio questa preoccupazione di dare una forma efficace e comprensibile in mezzo all’umanità del suo tempo ad animare l’apostolato di sant’Antonio Maria Gianelli, prete e vescovo vissuto a cavallo del XVIII e del XIX secolo. Nato il 12 aprile 1789 a Cereta, frazione di Carro (La Spezia), dopo aver lavorato in gioventù nei campi, entrò in Seminatio e fu ordinato prete nel 1812 a Genova, dove ebbe come primo campo di apostolato la chiesa di San Matteo. Nel 1816 fu destinato alla cattedra di retorica in Seminario: anche la formazione dei futuri sacerdoti fu un campo in cui spese molte energie. Quando nel 1819 si trattò di accogliere il nuovo vescovo, Luigi Lambruschini, organizzò a Genova una recita intitolata «La riforma del Seminario». Dal 1826 al 1838 fu arciprete a Chiavari, innovando la pastorale grazie alla creazione di alcune istituzioni caritative, educative e di sostegno al clero.
Nel 1827 istituì un’opera per le missioni popolari rurali, i Liguoriani, e nel 1829 fondò la congregazione delle Figlie di Maria Santissima dell’Orto, ancora oggi conosciute come Suore Gianelline. Nel 1838 divenne vescovo di Bobbio: qui i Liguoriani divennero gli Oblati di Sant’Alfonso. Morì di tisi a Piacenza il 7 giugno 1846. È santo dal 1951.
 
Il sacramento della carità, o Padre,
ci infiammi di santo amore,
perché, attratti sempre dal tuo Figlio,
impariamo a riconoscerlo nei fratelli.
Per Cristo nostro Signore.