28 Giugno 2024
 
Sant’Ireneo, Vescovo e Martire
 
2Re 25,1-12; Salmo Responsoriale Dal Salmo 136 (137); Mt 8,1-4

Colletta
O Dio, che al santo vescovo Ireneo
hai dato la grazia di confermare la tua Chiesa
nella verità e nella pace,
fa’ che per sua intercessione, rinnovati nella fede e nell’amore,
cerchiamo sempre ciò che promuove l’unità e la concordia.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Benedetto XVI (Udienza Generale 28 Marzo 2007): Le notizie biografiche su [sant’Ireneo di Lione] provengono dalla sua stessa testimonianza, tramandata a noi da Eusebio nel quinto libro della Storia Ecclesiastica. Ireneo nacque con tutta probabilità a Smirne (oggi Izmir, in Turchia) verso il 135-140, dove ancor giovane fu alla scuola del Vescovo Policarpo, discepolo a sua volta dell’apostolo Giovanni. Non sappiamo quando si trasferì dall’Asia Minore in Gallia, ma lo spostamento dovette coincidere con i primi sviluppi della comunità cristiana di Lione: qui, nel 177, troviamo Ireneo annoverato nel collegio dei presbiteri. Proprio in quell’anno egli fu mandato a Roma, latore di una lettera della comunità di Lione al Papa Eleuterio. La missione romana sottrasse Ireneo alla persecuzione di Marco Aurelio, nella quale caddero almeno quarantotto martiri, tra cui lo stesso Vescovo di Lione, il novantenne Potino, morto di maltrattamenti in carcere. Così, al suo ritorno, Ireneo fu eletto Vescovo della città. Il nuovo Pastore si dedicò totalmente al ministero episcopale, che si concluse verso il 202-203, forse con il martirio.
Ireneo è innanzitutto un uomo di fede e un Pastore. Del buon Pastore ha il senso della misura, la ricchezza della dottrina, l’ardore missionario. Come scrittore, persegue un duplice scopo: difendere la vera dottrina dagli assalti degli eretici, ed esporre con chiarezza le verità della fede. A questi fini corrispondono esattamente le due opere che di lui ci rimangono: i cinque libri Contro le eresie, e l’Esposizione della predicazione apostolica (che si può anche chiamare il più antico «catechismo della dottrina cristiana»). In definitiva, Ireneo è il campione della lotta contro le eresie. La Chiesa del II secolo era minacciata dalla cosiddetta gnosi, una dottrina la quale affermava che la fede insegnata nella Chiesa sarebbe solo un simbolismo per i semplici, che non sono in grado di capire cose difficili; invece, gli iniziati, gli intellettuali – gnostici, si chiamavano – avrebbero capito quanto sta dietro questi simboli, e così avrebbero formato un cristianesimo elitario, intellettualista. Ovviamente questo cristianesimo intellettualista si frammentava sempre più in diverse correnti con pensieri spesso strani e stravaganti, ma attraenti per molti. Un elemento comune di queste diverse correnti era il dualismo, cioè si negava la fede nell’unico Dio Padre di tutti, Creatore e Salvatore dell’uomo e del mondo. Per spiegare il male nel mondo, essi affermavano l’esistenza, accanto al Dio buono, di un principio negativo. Questo principio negativo avrebbe prodotto le cose materiali, la materia.  
Radicandosi saldamente nella dottrina biblica della creazione, Ireneo confuta il dualismo e il pessimismo gnostico che svalutavano le realtà corporee. Egli rivendicava decisamente l’originaria santità della materia, del corpo, della carne, non meno che dello spirito. Ma la sua opera va ben oltre la confutazione dell’eresia: si può dire infatti che egli si presenta come il primo grande teologo della Chiesa, che ha creato la teologia sistematica; egli stesso parla del sistema della teologia, cioè dell’interna coerenza di tutta la fede. Al centro della sua dottrina sta la questione della «Regola della fede» e della sua trasmissione. Per Ireneo la «Regola della fede» coincide in pratica con il Credo degli Apostoli, e ci dà la chiave per interpretare il Vangelo. Il Simbolo apostolico, che è una sorta di sintesi del Vangelo, ci aiuta a capire che cosa vuol dire, come dobbiamo leggere il Vangelo stesso.
 
I Lettura: Antonio González-Lamadrid (Commento della Bibbia Liturgica): Prima, il regno del nord (722), e ora, quello del Sud (587) scompaiono; e, con la scomparsa della monarchia, il popolo eletto perdette definitivamente la sua vita come stato indipendente, se si eccettua la breve parentesi degli asmonei. Alla dominazione babilonese successe quella persiana, alla persiana quella greca e a quella greca, la romana.
La distruzione di Gerusalemme fu una dura prova per il popolo eletto. Crollarono la dinastia davidica e il tempio insieme con le istituzioni politiche e religiose, sulle quali si appoggiava la vita del popolo. È la fine di una tappa, e i segni dei tempi sono ora rivolti verso una tappa nuova; ma, fra l’una e l’altra, vi sono gli anni dell’esilio che porta con sé i dolori e le sofferenze proprie di ogni periodo di gestazione.
Le personalità incaricate di gestire quali protagonisti la transizione sono tre profeti: Geremia, Ezechiele e il secondo Isaia. In tutti e tre la parola più caratteristica è l’aggettivo «nuovo»: nuova alleanza, nuovo esodo, nuovo Mosè, nuova terra, nuovo tempio, ecc. Fra questi tre il più importante è probabilmente Geremia. Tenero e sentimentale per temperamento, Geremia fu costretto a profetizzare la distruzione della città santa e del suo popolo che tanto amava. Ma, mentre predicava la distruzione, il profeta di Anatot con la sua persona. con la sua vita e la sua stessa presenza, dava vita a una nuova era.
Caso unico nell’ AT, Geremia rimase coscientemente e deliberatamente celibe (Ger 16). Per il suo discorso contro il tempio (Ger 7; 26), gli fu proibito di entrare nel santuario; e, per il tono delle sue prediche, quasi sempre minaccioso, fu abbandonato persino dai suoi compaesani di Anatot, che arrivarono al punto di studiare un piano per disfarsi di lui (Ger 18,18-23). Tutte queste circostanze crearono intorno a Geremia un clima di solitudine, che risultò provvidenziale al fine di sperimentare un tipo di religione interiore, molto necessario in questo momento, in cui erano venuti meno le istituzioni e gli appoggi esteriori.
Geremia è il primo che comincia a parlare di una alleanza non scritta su tavole di pietra, ma nel fondo del cuore.
Con la sua vita e la sua presenza trasformate in messaggio, Geremia è una delle pietre fondamentali che formano l’arco della transizione fra la tappa antica e la nuova.
Cronologicamente Geremia è anteriore all’esilio, ma lasua vita religiosa appartiene già al tempo dell’esilio
 
Vangelo
Se vuoi, tu puoi purificarmi.
 
Il lebbroso manifesta la sua fede in Gesù e lo sottolineano il titolo e i due verbi che accompagnano la sua implorazione: Signore, se vuoi, tu puoi purificarmi. Gesù risponde positivamente confermando la fede delle lebbroso: Lo voglio. Per evitare facili entusiasmi, Gesù intima il silenzio. Un’altra nota di rilievo è l’infrazione che Gesù compie nel toccare il lebbroso, infatti la Legge proibiva al lebbroso di avvicinarsi agli uomini e agli uomini vietava di accostarsi ai malati di lebbra, il gesto di Gesù è un gesto di carità ma anche di profonda solidarietà. Gesù compie quanto era prescritto dalla Legge rimandando il lebbroso sanato ai sacerdoti i quali dovevano accertare l’avvenuta guarigione per riammettere l’uomo nella vita pubblica e religiosa. Ai tempi di Gesù si credeva che nel tempo della salvezza non ci sarebbe stata più la lebbra. Le guarigioni dalla lebbra compiute da Gesù indicano perciò che il tempo della salvezza è giunto.
 
Dal Vangelo secondo Matteo
Mt 8,1-4
 
Quando Gesù scese dal monte, molta folla lo seguì.
Ed ecco, si avvicinò un lebbroso, si prostrò davanti a lui e disse: «Signore, se vuoi, puoi purificarmi».
Tese la mano e lo toccò dicendo: «Lo voglio: sii purificato!». E subito la sua lebbra fu guarita.
Poi Gesù gli disse: «Guàrdati bene dal dirlo a qualcuno; va’ invece a mostrarti al sacerdote e presenta l’offerta prescritta da Mosè come testimonianza per loro».
 
Parola del Signore.
 
Il discorso di Gesù era andato bene, tanto è vero che molta folla si pone al suo seguito. Il lebbroso forse era mescolato tra la folla anche se la Legge lo proibiva e probabilmente incoraggiato dalle parole di Gesù, con intraprendenza, si avvicina a Gesù. Sa cosa gli può capitare, potrebbe essere anche lapidato a motivo di questa sconsideratezza, ma ormai la vita in lui era al lumicino, spegnerla del tutto non era poi subire un danno tanto grave. Nella supplica del lebbroso vi sono due verbi che meritano essere messi in evidenza: se tu vuoi, come dire se il tuo cuore è incline alla carità, allora tu vuoi; e se tu vuoi puoi guarirmi, perché le tue parole rivelano che tu ami i sofferenti, i piccoli, gli ammalati, e la misericordia di Dio è così grande nel tuo cuore da operare in te come forza divina per compiere miracoli. Forse le cose non stanno così, ma sta di fatto che il lebbroso si affida alla pietà di Gesù, e alla sua onnipotenza. Da sempre la malattia, per chi crede, è la via regale che conduce l’uomo a entrare in profondità nel mistero di Dio. E Gesù, toccando il lebbroso, lo conferma nella sua “professione di fede”: io lo voglio e posso guarirti. Gesù vuole toccare il nostro cuore malato, sudicio, perché diventi linda dimora di Dio; vuole toccare la nostra mente impura perché purificata da ogni malvagità si applichi unicamente a pensieri nobili e veritieri: “quello che è vero, quello che è nobile, quello che è giusto, quello che è puro, quello che è amabile, quello che è onorato, ciò che è virtù e ciò che merita lode, questo sia oggetto dei vostri pensieri” (Fil 4,8). Ma come ci suggerisce il Vangelo il miracolo avviene sì nell’intimità di un incontro, ma deve essere confermato dai sacerdoti, solo nella Chiesa l’uomo gusta l’onnipotenza di Dio, solo nella Chiesa l’uomo incontra Dio e solo nella Chiesa viene purificato dalla lebbra del peccato
 
Pierre Grelot: Nella stessa categoria della lebbra propriamente detta (nega, parola che significa anzitutto «piaga, colpo»), la Bibbia raggruppa sotto nomi diversi parecchie affezioni cutanee particolarmente contagiose, e persino la muffa delle vesti e dei muri (Lev 13,47...; 14,33 ...).
1. La lebbra, impurità e castigo divino. - Per la legge, la lebbra è un’impurità contagiosa; perciò il lebbroso è escluso dalla comunità sino alla sua guarigione ed alla sua purificazione rituale, che esige un sacrificio per il peccato (Lev 13-14). Questa lebbra è la «piaga» per eccellenza con cui Dio colpisce (vaga) i peccatori. Israele ne è minacciato (Deut 28,27.35). Gli Egiziani ne sono colpiti (Es 9,9 ss), e cosìpure Maria (Num 12, 10-15) ed Ozia (2 Cron 26,19-23). Essa è quindi, per principio, un segno del peccato. Tuttavia, se il servo sofferente è colpito (vaga; Vg: leprosum) da Dio, per modo che ci si scosta da lui come da un lebbroso, si è perché, quantunque innocente, egli porta i peccati degli uomini che saranno guariti in virtù delle sue piaghe (Is 53, 3-12; cfr. Sa] 73, 14).
2. La guarigione dei lebbrosi. - Può essere naturale, ma anche avvenire per miracolo, come quella di Naaman nelle acque del Giordano (2 Re 5), segno della benevolenza divina e della potenza profetica. Gesù, quando guarisce i lebbrosi (Mt 8,1-4 par.; Lc 17,11-19), trionfa della piaga per eccellenza; ne guarisce gli uomini di cui prende su di sé le malattie (Mt 8,17). Purificando i lebbrosi e reinserendoli nella comunità, egli abolisce con un atto miracoloso la separazione tra il puro e l’impuro. Se prescrive ancora le offerte legali, lo fa a titolo di testimonianza: i sacerdoti constateranno in tal modo il suo rispetto della legge e nello stesso tempo il suo potere miracoloso.
Unita alle altre guarigioni, quella dei lebbrosi è quindi un segno che egli è proprio «Colui che deve venire» (Mt 11,5 par.). Anche i Dodici, mandati da lui in missione, ricevono l’ordine ed il potere di mostrare con questo segno che il regno di Dio è giunto (Mt 10,8).
 
Gesù ha guarito la lebbra dell’anima - Anonimo, Opera incompleta su Matteo, omelia 21: E stendendo la sua mano lo toccò. Nella Legge era stato detto che chi tocca se un lebbroso, sarebbe stato infetto fino a sera: Ma egli toccò il lebbroso non come servo ma come padrone della Legge. Infatti la Legge è sottoposta al legislatore, non il legislatore alla Legge. Che dunque? Ha abolito la Legge? No, fu abolita l’interpretazione letterale della Legge, non il suo proposito e le ha aggiunto dignità. Se la Legge avesse potuto permettere che la lebbra non infettasse chi la toccasse, non avrebbe mai ordinato agli uomini di non toccare la lebbra. Aveva dato tale ordine poiché non poteva fare in modo che la lebbra non rendesse infetto chi la toccasse. Egli che, toccando la lebbra, da essa non fu contagiato, non agì contro la Legge, ma fece più di quanto essa ordinasse: non solo non fu contaminato dalla lebbra ma la guarì. Né si può credere che venga contaminato dalla lebbra chi l’ha sanata. La Legge, infatti, vieta di toccare la lebbra non per non guarire i lebbrosi, ma per evitare che toccandola ne veniamo contagiati. Costui che dal contatto non viene infettato ma per giunta l’ha guarita ha fatto più di quanto avesse voluto la Legge. Ha toccato la lebbra, e ha abolito l’interpretazione letterale della Legge affinché fosse evitata non la lebbra del corpo ma quella dell’anima.
 
Il Santo del Giorno - 28 Giugno 2024 - Sant’Ireneo di Lione - Difese la vera bellezza e la ricchezza della fede: Il senso della misura, ma anche la ricchezza della dottrina, l’ardore missionario e la volontà di difendere la vera fede, cercando di esporre con chiarezza la verità del Vangelo: questi tratti della figura di sant’Ireneo di Lione, così come indicati da Benedetto XVI nell’udienza del 28 marzo 2007, appaiono come la descrizione dei compiti di ogni battezzato. Ogni fedele, infatti, è chiamato a conoscere a proporre la mondo la bellezza e la profondità di ciò in cui crede: il messaggio del Risorto. Così fece Ireneo, che era forse originario di Smirne ed era stato discepolo di san Policarpo, prima di diventare nel 177 vescovo di Lione in Gallia. Fu chiamato a succedere a san Potino, vescovo novantenne ucciso durante la persecuzione. Fino alla morte, nel 202 circa, Ireneo fu una guida saggia, un pastore autorevole e un difensore della retta fede, messa a rischio dalle eresie.
 
La partecipazione a questi santi misteri, o Padre,
accresca in noi la fede
che sant’Ireneo testimoniò fino alla morte,
perché diventiamo anche noi
veri discepoli di Cristo tuo Figlio.
Egli vive e regna nei secoli dei secoli.