27 Giugno 2025
 
SACRATISSIMO CUORE DI GESÙ
 
Ez 34,11-16; Salmo Responsoriale Dal Salmo22 (23); Rm 5,5b-11; Lc 15,3-7
 
Sacratissimo Cuore di Gesù - La Bibbia e i Padri della Chiesa [I Padri vivi]: La devozione al Cuore di Gesù risale al Medioevo: i mistici dei secoli XI e XII incoraggiano i fedeli alla meditazione della Passione del Signore, alla venerazione delle ferite di Cristo e del Cuore trafitto dalla lancia del soldato [...] Le rivelazioni di santa Maria Margherita Alacoque (+1690) influiscono maggiormente sulla diffusione della festa. Nonostante le numerose richieste indirizzate alla Sede Apostolica, Roma esita a lungo. Dopo la rinnovata richiesta dei vescovi polacchi, Clemente XIII, nel 1765, dà il permesso di celebrare la festa del Cuore di Gesù il venerdì dopo l’ottava del Corpus Christi e così essa entra nel ciclo delle feste cristiane. Pio IX, nel 1856, estende la festa su tutta la Chiesa; Leone XIII, consacra al Cuore di Gesù tutto il genere umano, Pio X, raccomanda di farlo ogni anno. Nel popolo cristiano si è comunemente diffusa la pratica della Comunione nei primi nove venerdì del mese.
Il Cuore di Gesù, trafitto dalla lancia del soldato, rimane per sempre il simbolo del grande ed inconcepibile amore di Dio verso l’uomo. Dio è amore. Lui ci ha amati per primo ed ha mandato il suo Figlio per salvarci. Non c’è amore più grande che dare la propria vita per qualcuno - disse il Signore - ed ha messo in pratica infatti queste parole. Dal costato trafitto di Cristo nasce la Chiesa. Dal costato trafitto di Cristo scorre sangue ed acqua, simbolo dei due Sacramenti: Battesimo ed Eucaristia.
La chiave di lettura di tutta la storia della salvezza e della redenzione compiuta da Cristo è l’amore. Rendendo oggi il culto al Cuore di Gesù, ci rendiamo più che mai conto che «l’amore non è amato». Perciò dobbiamo desiderare che i nostri cuori siano infiammati dal fuoco dell’amore di Dio, e vedendo quanti rimangono indifferenti alla chiamata del Signore, dobbiamo riparare alla loro mancanza di amore.
 
Colletta
O Dio, pastore buono,
che manifesti la tua onnipotenza
nel perdono e nella compassione,
raduna i tuoi figli dispersi
e ristorali al torrente della grazia
che sgorga dal Cuore del tuo Figlio,
perché sia festa grande nell’assemblea dei santi.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Investigabiles Divitias Christi: Ecco pertanto i Nostri desideri, la Nostra volontà: che cioè, in questa occasione, l’istituzione della festa del S. Cuore, messa opportunamente in luce, sia celebrata con degno rilievo da voi tutti, Venerabili Fratelli, che siete i Vescovi della Chiesa di Dio, e dalle popolazioni a voi affidate. Desideriamo che a tutte le categorie dei fedeli siano spiegati nel modo più adatto e completo i profondi e reconditi fondamenti dottrinali, che illustrano gli infiniti tesori di carità del Sacro Cuore; e che si indicano particolari funzioni sacre, che accendano sempre di più la devozione verso tale culto, degno della più alta considerazione, allo scopo di ottenere che tutti i cristiani, animati da nuove disposizioni di spirito, prestino il dovuto onore a quel Cuore divino, riparino gli innumerevoli peccati con attestazioni di ossequio sempre più fervorose, e conformino l’intera vita ai precetti della vera carità, che è il compimento della legge (Cf Rom 13,10).
Poiché infatti il Ss. Cuore di Gesù, fornace ardente di carità, è simbolo ed espressiva immagine di quell’eterno amore, nel quale Dio ha tanto amato il mondo, da dare il suo Figliuolo unigenito (Io. 3,16), siamo certi che dette commemorazioni contribuiranno moltissimo a far sì che le ricchezze dell’amore divino siano profondamente scrutate e bene comprese; e nutriamo altresì la fiducia che i fedeli tutti ne sappiano trarre ispirazione sempre più risoluta a configurare al Vangelo la propria vita, a emendare diligentemente i costumi, a mettere in pratica la legge del Signore.
Ma in primo luogo desideriamo che, per mezzo di una più intensa partecipazione al Sacramento dell’altare, sia onorato il Cuore di Gesù, il cui dono più grande è appunto l’Eucaristia. Nel sacrificio eucaristico, infatti, si immola e si riceve il nostro Salvatore, sempre vivo a intercedere per noi (Ebr. 7, 25), il cui Cuore fu aperto dalla lancia del soldato, e riversò sull’umano genere il fiotto del suo Sangue prezioso, commisto ad acqua; in questo eccelso sacramento, inoltre, che è vertice e centro degli altri Sacramenti, la dolcezza spirituale è gustata nella sua stessa sorgente, e si ricorda quell’insigne carità, che Cristo ha dimostrato nella sua passione (S. Tommaso d’Aquino, Opusculum 57). Bisogna dunque che - per usare le parole di san Giovanni Damasceno - ci accostiamo a lui con desiderio ardente... affinché il fuoco del nostro desiderio, ricevendo come l’ardore della brace, distrugga, bruciandoli, i nostri peccati e illumini i cuori, e in tal modo, nel contatto abituale col fuoco divino, diventiamo ardenti pure noi e simili a Dio (S. Giovanni Damasceno, De fide orthod., 4, 13: PG 94, 1150).
 
I Lettura: Bibbia di Gerusalemme: L’immagine del re-pastore è antica nel patrimonio letterario dell’Oriente.
Geremia l’ha applicata ai re d’Israele, per rimproverarli di avere adempiuto male i loro compiti (Ger 2,8; 10,21; 23,1-3) e per annunciare che Dio darà al suo popolo nuovi pastori, che lo guideranno nella giustizia (Ger 3,15; 23,4); tra questi pastori vi sarà un «germoglio» (Ger 23,5-6), il Messia. Ezechiele riprende il tema di Ger 23,1-6, che più tardi sarà anche ripreso da Zc 11,4-17; 13.7.
Egli rimprovera ai pastori - qui i re e i capi laici del popolo - i loro crimini (vv l-10).
Il Signore si riprenderà il gregge che essi strapazzano, e farà egli stesso da pastore al suo popolo (cf. Gen 48,15; 49,24; Is 40,11; Sal 23; 80.2; 95,7); è l’annuncio di una teocrazia (vv 11-16): in effetti, al ritorno dall’esilio, la monarchia non verrà più ristabilita. Solo più tardi YHWH darà al suo popolo (cf. 17,22; 21,32) un pastore di sua celta (vv 29; 24), un «principe» (cf 45,7-8.17; 46,8.10.16-18), nuovo Davide. La descrizione del regno di questo principe (vv 25-31) e il nome di Davide che gli viene dato (cf, 2Sam 7,1+; cf. Is 11,1+; Ger 23,5) suggeriscono un’era messianica, in cui Dio stesso, mediante il Messia, regnerà sul suo popolo nella giustizia e nella pace. Si trova, in questo testo di Ezechiele, l’abbozzo della parabola della pecorella smarrita (Mt 18,12-14; Lc 15,4-7) e soprattutto dell’allegoria del buon pastore (Gv 10,11-18) che, confrontata con Ezechiele,  appare come una rivendicazione messianica di Gesù. II buon pastore surà uno dei temi iconografici più antichi ciel cristianesimo.
 
II Lettura - Vincenzo Raffa (Liturgia Festiva): San Paolo cerca il fondamento della speranza che abbiamo di salvarci e lo trova nell’illimitata benevolenza dell’Onnipotente.
La prova lampante sta nel fatto che se Dio arrivò a mandare alla morte il Figlio suo per l’umanità peccatrice, ancor prima che fosse redenta, proprio perché l’amava, tanto più sarà sollecito per essa dopo Ia sua elevazione alla figliolanza divina, che la rende immensamente più vicina e cara a lui.
L’amore di Dio non rimase solo il movente della salvezza, ma anche una condizione di vita dell’uomo redento. Infatti la carità, mediante lo Spirito Santo, inonda i cuori e diviene principio vivificante (Rm 5,5; 8,9; 1Cor 3,16; 2Tm 1,14; Gc 4,5).
La carità viene infusa dallo Spirito Santo nelle anime dei fedeli anche perché sappiano riconoscere il Cristo nei fratelli e amarli come lui li ama.
 
Vangelo
Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta.
 
La parabola della pecora perduta fa parte di un trittico che raccoglie la parabola del moneta ritrovata e la parabola del figlio prodigo o del Padre misericordioso. È il quindicesimo capitolo del Vangelo di Luca, che bene è indicato come il “Vangelo della misericordia”. I tratti della parabola della pecora perduta e ritrovata da mettere in evidenza sono tre: il primo, la pecora che si perde, non sappiamo se era una pecora “buona o cattiva”, non sappiamo se si era allontanata consapevolmente, sappiamo soltanto che il pastore “l’ha perduta”. Negligenza, distrazione da parte del pastore? Non lo sappiamo, ma conosciamo l’amore del pastore, che nonostante tutto si mette sulle tracce della “sua pecora”, finché la trova. E qui, gli ultimi due tratti. Innanzi tutto la gioia, la gioia del pastore, la gioia di aver trovato la pecora perduta, una gioia da condividere. Il pastore gioisce perché ha trovato la “sua pecora”, e questo mette in risalto l’amore grande del pastore nei confronti della sue pecore: nessuno potrà rubargliele dalle sue mani, E poi, la gioia che esplode nel cielo, una gioia contagiosa quella del pastore, condivisa da coloro che già sono ben protetti nel recinto del Cielo. I giusti condividono la gioia del pastore, e possiamo pensare che abbiano condiviso l’ansia della ricerca, forse queste due note rivelano il vero volto del “giusto”.
 
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 15,3-7
 
In quel tempo, Gesù disse ai farisei e agli scribi questa parabola:
«Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova?
Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini, e dice loro: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta”.
Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione».

Parola del Signore.
 
 Benedetto Prete (I Quattro Vangeli): 4 Chi di voi...? La forma interrogativa (interrogazione retorica) serve a dar maggior efficacia alla frase ed essa, richiamando agli ascoltatori un fatto indiscutibile, acuisce il loro interesse per quanto verrà esposto. Se ha cento pecore e ne perde una; un gregge di cento capi rappresenta una notevole ricchezza, tuttavia la perdita di una pecora è avvertita dal padrone che, per ricuperarla, si mette affannosamente alla ricerca di essa. Il verbo usato da Luca (ἀπολέσας: participio aoristo di ἀπόλλυμι) richiama subito al lettore il tema fondamentale del presente capitolo; non si tratta infatti semplicemente dello smarrimento di una pecora, bensì di una perdita che non lascia indifferente il padrone del gregge; lo stesso verbo ricorre nei verss. 6, 9, 24, 32 ed ha una sfumatura di delicata tenerezza. Matteo nel testo parallelo impiega il verbo πλανάω (smarrisco). Non lascia le novantanove nel deserto, cioè: in qualche luogo dove il gregge può rimanere a pascolare. «Il deserto» non va inteso come una solitudine sabbiosa ed arida, dove è impossibile trovare di che nutrire le greggi; nel deserto di Giuda in inverno cresce una tenera erbetta che, pur nella sua effimera apparizione, offre uno squisito pascolo alle greggi che vi sono condotte. Fino a quando non l’abbia ritrovata; elemento descrittivo per indicare l’ansia e l’interesse con i quali il pastore compie la ricerca.
5 Se la mette, tutto contento, sulle spalle; particolare di una bellezza inarrivabile e di una delicatezza piena di umanità; non un atto di sdegno, né una percossa, ma tutta premura e tenerezza quasi paterna. Quel pastore risparmia alla pecora anche la fatica del ritorno, poiché se la carica pietosamente sulle spalle. L’immagine non riesce più a contenere la pienezza di dottrina che l’autore vi ha voluto esprimere e l’elemento parabolico cede davanti alla bellezza di un gesto così umano e paterno. La pietà cristiana fin dalle origini ha voluto fissare questo particolare descrittivo nella figura del buon pastore che porta una pecora sulle proprie spalle.
6 Convoca gli amici ed i vicini; nella scena sono descritti particolari che oltrepassano la realtà ed anche la verosimiglianza storica o psicologica. L’autore non si preoccupa di essere aderente a fatti concreti o verosimili, perché l’immagine alla quale ricorre ha uno scopo interamente didattico ed è ordinata ad illustrare con esempi o analogie tratte dalla esperienza umana delle verità trascendenti e misteriose. I due fatti posti in rilievo dalla parabola: la ricerca affannosa della pecora perduta e la gioia incontenibile per l’avvenuto ritrovamento di essa offrono una immagine umana dell’amore premuroso e paterno con il quale Dio va alla ricerca del peccatore e si rallegra nel ritrovarlo.
7 Così vi sarà più gioia in cielo per un peccatore pentito...; espressione iperbolica spinta intenzionalmente fino al paradosso; con essa si vuole far comprendere in qualche modo all’ascoltatore l’intensa gioia che prova Dio nell’accogliere un’anima che ritorna a Lui. Questo modo di parlare dei sentimenti di Dio (antropomorfismi o, più precisamente, antropopatismi) si fonda sopra un’osservazione psicologica: una mamma sembra che ami un figlio malato più degli altri che sono sani, non perché effettivamente lo ami più degli altri, ma perché verso il figlio malato mostra più tenerezza e ha maggiori attenzioni di quelle che usa verso gli altri figli. Il ritorno di un peccatore costituisce per Iddio l’occasione di una gioia così intensa, quale Egli non prova con i giusti che Gli sono rimasti sempre docili e fedeli. L’insegnamento che deriva da un confronto così appropriato e suggestivo consiste nell’assicurare il credente che Dio ama ancora il peccatore, lo ricerca con premura paterna, gli offre delle grazie, ne attende il ritorno con ansia e prova una gioia intensa nel riaverlo. Oltre a questo insegnamento fondamentale che fluisce naturalmente dalle descrizioni della scena, la parabola richiama una seconda idea che deriva dalle premesse poste dall’evangelista nella formula introduttiva e che ha una sua importanza nel presente contesto (cf. verss. 1-2). La parabola contiene un rimprovero per i Farisei, poiché rileva che il loro atteggiamento nei confronti dei «peccatori» (cf. vers. 1) è ben lontano da quello che mostra Dio verso i medesimi; il Signore ama, cerca i peccatori e se ne rallegra per il ritorno; i Farisei invece li disprezzano sdegnosamente evitando di avvicinarli per paura di contaminarsi. In Matteo la presente parabola si trova in un altro contesto ed illustra un aspetto dottrinale differente (cf. Mt., 18, 10-14).
 
Il Cuore - Catechismo degli Adulti 907: Nell’etica biblica il cuore si identifica in definitiva con l’uomo in quanto soggetto morale. Anche gli scritti apostolici del Nuovo Testamento si pongono su questa linea. Inoltre con lo stesso significato usano frequentemente la parola “coscienza”. La coscienza può essere buona o cattiva, macchiata o purificata, sincera o falsa, debole o forte. Nella coscienza tutti gli uomini, anche i pagani, portano scritta la legge morale: «Quanto la legge esige è scritto nei loro cuori come risulta dalla testimonianza della loro coscienza e dai loro stessi ragionamenti, che ora li accusano ora li difendono» (Rm 2,15). La coscienza cristiana è l’uomo nuovo in Cristo, divenuto consapevole di sé nella fede. Egli vive «la carità, che sgorga da un cuore puro, da una buona coscienza e da una fede sincera» (1Tm 1,5). Attua le esigenze di essa, seguendo i suggerimenti dello Spirito Santo, cercando di «discernere la volontà di Dio» (Rm 12,2) nelle situazioni concrete, vigilando su tutta la sua condotta. Nella coscienza si fa sentire la chiamata di Dio, che propone sia i valori e le norme, che orientano il cammino, sia gli appelli personali, che indicano i singoli passi da compiere.
 
Tauler (Predica per la terza domenica dopo la Trinità): E dopo che l’ha trovata, se la pone sulle spalle ... : Egli prende questa pecora, l’amabile pecora, se la pone sulle spalle e la porta con Sé. La spalla è tra il Corpo e il Capo, e tocca entrambi. Cioè: Egli pone quest’amabile pecora tra la sua santa Umanità e l’adorata Divinità. La santissima Umanità è per queste persone un appoggio, e le trasporta nella degnissima Divinità. L’amabile Umanità si carica di queste care pecore e le porta in tutte le loro azioni. Sin qui facevano da loro stesse le loro opere, in sé e fuori di sé; ma ora Dio le porta e compie Lui tutte le loro opere, in esse e per mezzo di esse: sia che parlino, mangino, vadano o stiano, Dio realizza tutte le loro azioni in esse, ed esse vivono e si librano in Dio. Vanno dall’Umanità alla Divinità e viceversa, entrano ed escono, e trovano pascoli abbondanti (Gv. 10,9)
 
Il Santo del Giorno - 27 Giugno 2025 - San Cirillo di Alessandria. Lo scandalo di un Dio che entra nella storia: Lo scandalo di un Dio che incontra l’umanità entrando nella storia, facendosi uomo, provando l’esperienza della morte per vincerla: è così incredibile questo concetto fondamentale del cristianesimo da aver provocato nei secoli non poche dispute e confronti, a tratti anche aspri. Ci furono però anche antichi padri che fecero proprio questo “scandalo” del cristianesimo e lo difesero, lavorando allo stesso tempo per l’unità della Chiesa. Tra questi va di sicuro ricordato san Cirillo di Alessandria, vero e proprio apostolo dell’ortodossia, araldo di una fede affidata all’intero popolo di Dio in tutta la sua complessità. Nato tra il 370 e il 380, nipote di Teofilo, vescovo di Alessandria, nel 403 era a Costantinopoli al seguito dello zio, che prese parte al Sinodo detto «della Quercia». Nel 412 fu il successore dello stesso parente alla guida della Chiesa di Alessandria, comunità che guidò poi fino alla propria morte, avvenuta nel 444. Il confronto teologico vide Cirillo (difensore anche del titolo mariano di “Madre di Dio”) contrapposto soprattutto a Nestorio, la cui dottrina, basata sulla divisione tra le due nature di Cristo e sull’attribuzione a Maria del semplice titolo di “Madre dell’uomo”, fu condannata dal Concilio di Efeso del 431. Papa Leone XIII nel 1882 proclamò san Cirillo di Alessandria dottore della Chiesa. (Matteo Liut)
 
Il sacramento della carità, o Padre,
ci infiammi di santo amore,
perché, attratti sempre dal tuo Figlio,
impariamo a riconoscerlo nei fratelli.
Per Cristo nostro Signore.
 
 
 
 
 
 
 
 
 26 Giugno 2025
 
Giovedì XII Settimana T. O.
 
Gen 16,1-12;17-18; Salmo Responsoriale dal Salmo 105 (106); Mt 7,21-29
 
Colletta
Donaci, o Signore,
di vivere sempre nel timore e nell’amore per il tuo santo nome,
poiché tu non privi mai della tua guida
coloro che hai stabilito sulla roccia del tuo amore.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Benedetto XVI (Meditazione 6 Ottobre 2008): Ancor più la Parola di Dio è il fondamento di tutto, è la vera realtà. E per essere realisti, dobbiamo proprio contare su questa realtà. Dobbiamo cambiare la nostra idea che la materia, le cose solide, da toccare, sarebbero la realtà più solida, più sicura. Alla fine del Sermone della Montagna il Signore ci parla delle due possibilità di costruire la casa della propria vita: sulla sabbia e sulla roccia. Sulla sabbia costruisce chi costruisce solo sulle cose visibili e tangibili, sul successo, sulla carriera, sui soldi. Apparentemente queste sono le vere realtà. Ma tutto questo un giorno passerà. Lo vediamo adesso nel crollo delle grandi banche: questi soldi scompaiono, sono niente. E così tutte queste cose, che sembrano la vera realtà sulla quale contare, sono realtà di secondo ordine. Chi costruisce la sua vita su queste realtà, sulla materia, sul successo, su tutto quello che appare, costruisce sulla sabbia. Solo la Parola di Dio è fondamento di tutta la realtà, è stabile come il cielo e più che il cielo, è la realtà. Quindi dobbiamo cambiare il nostro concetto di realismo. Realista è chi riconosce nella Parola di Dio, in questa realtà apparentemente così debole, il fondamento di tutto. Realista è chi costruisce la sua vita su questo fondamento che rimane in permanenza.
 
I Lettura: Sarài, la sposa di Abramo, era sterile, e come era consuetudine di quei tempi diede ad Abramo, come seconda moglie, la schiava Agar.
“Ma, quando essa si accorse di essere incinta, la sua padrona non contò più nulla per lei”. Così tra le due donne, venne a  frantumarsi ogni reciproca relazione. Non volendosi sottomettersi a Sarài, fugge via rifugiandosi nel deserto, un luogo inospitale, e la morte sembra prossima a ghermirla. Ma su di lei vigila Dio, non la abbandona al suo destino di morte, la soccorre inviando un angelo, il quale, invitandola a ritornare da Sarài, le fa una promessa rassicurante: “«Moltiplicherò la tua discendenza e non si potrà contarla, tanto sarà numerosa». Il bambino che nascerà da Abramo sarà chiamato Ismaele, e da Dio gli viene donato un conveniente destino.
 
Vangelo
La casa costruita sulla roccia e la casa costruita sulla sabbia.
 
Dal Vangelo secondo Matteo
Mt 7,21-29
 
In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli:
«Non chiunque mi dice: “Signore, Signore”, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli. In quel giorno molti mi diranno: “Signore, Signore, non abbiamo forse profetato nel tuo nome? E nel tuo nome non abbiamo forse scacciato demòni? E nel tuo nome non abbiamo forse compiuto molti prodigi?”. Ma allora io dichiarerò loro: “Non vi ho mai conosciuti. Allontanatevi da me, voi che operate l’iniquità!”.
Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, sarà simile a un uomo saggio, che ha costruito la sua casa sulla roccia. Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ma essa non cadde, perché era fondata sulla roccia. Chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica, sarà simile a un uomo stolto, che ha costruito la sua casa sulla sabbia. Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa cadde e la sua rovina fu grande».
Quando Gesù ebbe terminato questi discorsi, le folle erano stupite del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come i loro scribi.

Parola del Signore.
 
Non chiunque mi dice: “Signore, Signore”, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli  - Ortensio Da Spinetoli (Matteo): La voce del falso profeta risuona qualche volta nel cuore dello stesso cristiano. Egli cerca di illudersi di essere seguace di Cristo, mentre in realtà è solo un «ciarlatano», come tale è il profeta che parla senza un incarico. Per entrare nel regno, ottenere cioè la salvezza, non basta stare a ripetere solennemente e pomposamente il nome del Signore, ma occorre convertirsi e fare penitenza, come ha già ricordato più sopra (3,8; 4,17); ora aggiunge che bisogna, prima di tutto, compiere la volontà di Dio, cioè quello che egli comanda a ciascuno (cfr. Mt. 5,17-19). La volontà ... è il disegno salvifico di Dio, ma si estende anche alle esigenze pratiche della vita quotidiana.
Fare la volontà del Padre è la sintesi della spiritualità vetero-neotestamentaria. Quel che Gesù e la chiesa esigono dai fedeli è una pietà fattiva, operosa, impegnata. Non bastano le buone parole, la buona fede, le buone aspirazioni; non è sufficiente camminare per la via spaziosa con il pensiero verso il regno, invocando di tanto in tanto o anche frequentemente il nome del Signore, per aver parte alla salvezza. Se durante la vita si è vissuti fuori del regno, senza rapporti di reale sudditanza con il sovrano, alla fine egli rifiuterà di riconoscere per suoi sudditi questi suoi nascosti adoratori. Possono aver fatto miracoli, la condanna che li attende è inevitabile.
Quando avverrà questo dialogo? Tutto fa pensare che si tratti di un momento dell’ultimo giudizio, sia per la somiglianza con Mt. 25,36, che per la moltitudine indistinta che è in scena, come per la forma categorica o definitiva della condanna: «Allontanatevi da me», cui si potrebbe aggiungere: «nel fuoco eterno», riprendendo l’idea sottintesa in 7,19 e chiaramente espressa alla fine della grande sintesi escatologica (Mt. 25, 41).
Il discorso della montagna si va chiudendo con un tono minaccioso. È l’ultima carta, l’alternativa della perdizione, che ogni predicatore gioca con il suo uditorio. Se fallisce anche questa non c’è più nulla da fare e da sperare.
 
Non chiunque mi dice: “Signore, Signore” - Gottfried Hierzenberger: Il nome Signore fu riferito soltanto un po’ alla volta a Gesù. La comunità primitiva che professava Gesù come il Risorto, lo confessava “alla destra di Dio” acquisendo in tal modo, al di là del rapporto discepolo-maestro, una comprensione religiosa fondata sulla fede.
Quando i discepoli si identificarono con i servi delle parabole, ciò suggerì di riferire a lui stesso le affermazioni fatte da Gesù sul Signore (per es. Mt 13,27). Ciò veniva favorito dall’esperienza della pretesa assoluta di sequela. Quando nella vita di fede della chiesa primitiva, nell’annuncio dell’evangelo, nella preghiera, durante il pasto del Signore, nell’atteggiamento d’amore verso il fratello e perfino verso il nemico, nella complessiva comprensione di sé, del mondo e di Dio, Gesù dimostrò di essere il centro totale della comunità, superiore a tutti i tipi di relazioni del passato, l’assunzione del titolo tradizionalmente religioso di signore diventò ovvio. Nell’ambito cristiano questo titolo fu assunto in senso assoluto per esprimere la signoria illimitata, onnicomprensiva, divina di Gesù (Mt 28,18).
Negli scritti più recenti del Nuovo Testamento il titolo di Signore è già ovvio: tutti i passi della LXX (JHWH = Signore) vengono riferiti senza esitazione a Gesù; ciò significa che si riconosce che in Gesù, Dio agisce così come l’Antico Testamento proclama nei riguardi di JHWH. Così Dio manda il Signore (cf. Sal 110,1) in maniera definitiva per attuare la pienezza conchiusa del tempo e per ricapitolare tutto - quello che è in cielo e quello che è sulla terra - in Cristo, il capo (Ef 1,10). Al tempo stesso, però, il “Figlio” manda lo Spirito (At 2,33) e guida la comunità cristiana in modo tale che essa può dire: “Il Signore è lo Spirito!” (2Cor 3,17). Nella teologia storico-salvifica cosmica e cristologico ecclesiale della Lettera agli Efesini e di quella ai Colossesi, questo pensiero raggiunge il suo vertice (Col 1,18-20).
Nella preghiera al Signore (2Tm 2,22) questa visuale acquista anche un ‘espressione religiosa personale.
 
Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica - Claude Tassin (Vangelo di Matteo): Iniziato con le metafore della via e della porta, l’avvertimento si conclude con l’immagine della casa. Costruire la propria abitazione simboleggia perfettamente i progetti più importanti (non si dice «costruire la propria vita»?). Ora, il salmista scriveva già: «Se il Signore non costruisce la casa, invano ci faticano i costruttori» (Sal 127,1). E spesso i salmi contengono anche quest’invocazione: «Signore, mia roccia!»: risultano quindi evidenti le fonti dell’immagine adoperata da Gesù. Come può il vero discepolo basare la propria vita su Dio? Non solo ascoltando quello che Gesù ha insegnato, ma mettendolo in pratica (cfr. i versetti 24 e 26).
 
Quando Gesù ebbe terminato questi discorsi, le folle erano stupite del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come i loro scribi - Richard Gutzwiller (Meditazioni su Matteo): Allorché il Signore ebbe terminato il discorso della montagna, «le turbe restarono stupite». Motivo: il suo modo di parlare: «Le ammaestrava come uno che ha autorità». Cristo non espone una problematica oscura, come i filosofi, non parla in concetti astratti inanimati o in sillogismi classicamente elaborati, come i sofisti. Le sue parole non sono neppure impregnate di untuoso pietismo, che in realtà mette in mostra se stesso e spiega solennemente la ruota della vanità personale, come un pavone, secondo l’uso dei farisei. Le sue esposizioni non sono una noiosa casistica morale, in cui vengono spiegati i paragrafi della legge e casi artificiosamente costruiti, lontani dalla vita reale e ancor più lontani dalla schietta religiosità. Questo era il modo degli scribi. Non parla neppure come i demagoghi che lusingano le masse e rinfocolano le passioni soltanto per esaltare la propria volontà di potenza. Cristo parla in tutt’altro modo, non come uno che cerca la potenza, ma come uno che ha autorità. Ed egli la possiede. Egli è il plenipotenziario dell’Onnipotente. La sua persona è il Logos, la parola di Dio e perciò egli è il linguaggio di Dio. L’incarnazione del Logos è il linguaggio di Dio nell’umanità. Nelle sue parole si rivela in tal modo la sua personalità. La forza e la grandezza di questa personalità sono il mistero del suo linguaggio. Egli è l’Onnipotente. Perciò parla come uno che detiene il potere. E la sua personalità è anche quella che trascina le masse. Egli non è soltanto l’annunziatore, ma anche la personificazione del discorso della montagna, il suo autentico interprete. La sua vita è commento alle sue parole. Le beatitudini si concretizzano nella sua persona e nella sua azione. Egli è il sale della terra e la luce del mondo. Egli è la città, visibile da lontano, in vetta al monte. La sua vita nasce dall’intimo, perché in lui tutto è vivificato dallo spirito dell’amore.
Egli non fa mai il bene per egoismo, ma con lo sguardo rivolto al Padre ch’è nei cieli. Ci ha offerto l’esempio vivente del retto contegno di fronte a quanto appartiene alla terra, non si è preoccupato dei tesori materiali, non è mai stato preda di cure timorose per il cibo e il vestiario. Col suo amore fino alla fine ha illustrato visibilmente anche i rapporti verso il prossimo. Dai frutti si riconosce la bontà del tronco e della radice. Perciò egli ha costruito la Chiesa come la casa che sta sulla roccia e non sulla sabbia. La tempesta del Venerdì santo e tutti gli uragani nella storia della Chiesa non l’hanno potuta travolgere.
 
Giovanni Crisostomo (Exp . in Matth., XXIV): Non vi conosco ...: tremiamo, dunque, o carissimi, e vigiliamo con cura sul nostro modo di vivere, né riteniamoci da meno per il fatto che noi non compiamo miracoli. Se saremo stati virtuosi, l’aver fatto miracoli non ci procurerà alcun vantaggio in più; né saremo meno ricompensati, se non li avremo compiuti. Noi siamo debitori verso Dio per tali azioni prodigiose, mentre Dio sarà nostro debitore per le opere buone che noi compiamo.
 
Il Santo del Giorno - 26 Giovedì 2025 - San Josemaría Escrivá de Balaguer. La santità nelle vie della quotidianità - Diventare santi attraverso gli strumenti della vita quotidiana, il lavoro, l’impegno culturale, la vita in famiglia e tutto ciò che usiamo per costruire questo mondo: è un messaggio profetico senza tempo quello di san Josemaría Escrivá de Balaguer. Anzi, un messaggio che ha precorso i tempi, in particolare quella visione di una Chiesa partecipe del mondo e lievito della storia cui ha dato forma il Concilio Vaticano II. Questo sacerdote spagnolo, fondatore dell’Opus Dei, era nato a Barbastro in Spagna il 9 gennaio 1902 e a 16 anni si sentì chiamato a una vita donata a Dio: divenne prete nel 1925. Dal 1927 a Madrid si dedicò ai poveri e ai malati. Il 2 ottobre 1928, dopo la Messa, Escrivá salì in camera sua, dove si mise a mettere ordine tra gli appunti: fu in quel momento che ebbe una sorta di visione sull’opera che Dio gli chiedeva di compiere. Un’opera che avrebbe messo Dio al centro di ogni attività compiuta da persone di ogni condizione, nazione, cultura o età. Fu il seme che portò alla nascita dell’Opus Dei, con la missione di valorizzare l’universale chiamata alla santità nel lavoro, nella cultura e in famiglia. Il fondatore morì nel 1975 ed è santo dal 2002. (Matteo Liut)
 
O Padre, che ci hai rinnovati
con il santo Corpo e il prezioso Sangue del tuo Figlio,
fa’ che l’assidua celebrazione dei divini misteri
ci ottenga la pienezza della redenzione.
Per Cristo nostro Signore.  
 
 
 
 
 25 Giugno 2025
 
Mercoledì XII Settimana T. O.
 
Gen 15,1-12.17-18 ; Salmo Responsoriale dal Salmo 104 (105); Mt7,15-20
 
Colletta
Donaci, o Signore,
di vivere sempre nel timore e nell’amore per il tuo santo nome,
poiché tu non privi mai della tua guida
coloro che hai stabilito sulla roccia del tuo amore.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Dai loro frutti li riconoscerete: Paolo VI (Esortazione Apostolica Quinque iam anni, 1970): Facciamo attenzione ai problemi che sorgono dalla vita degli uomini, specialmente dei giovani: «Se un figlio domanda del pane - dice Gesù - quale è fra di voi quel padre che gli darà un sasso?» (Lc 11,11). Accogliamo volentieri le istanze che vengono a turbare la nostra pacifica quiete. Siamo pazienti davanti alle indecisioni di coloro che cercano come a tentoni la luce. Sappiamo camminare fraternamente con tutti coloro che, privi di questa luce, della quale noi godiamo i benefici, nondimeno tendono, attraverso le nebbie del dubbio, verso la casa paterna. Ma se noi prendiamo parte alle loro angosce, sia per cercare di guarirle; se noi presentiamo loro Gesù Cristo, questi sia il Figlio di Dio fatto uomo per salvarci e per comunicarci la sua vita, non una figura puramente umana, per quanto meravigliosa e attraente possa essere per il nostro spirito (cfr. 2Gv 7,9). In questa fedeltà a Dio e agli uomini, ai quali siamo da lui inviati, noi sapremo prendere, certo con delicatezza e prudenza, ma con chiaroveggenza e fermezza, le indispensabili decisioni per un giusto discernimento, Ecco, senza dubbio, uno dei compiti più difficili, ma anche, oggi, dei più necessari, per l’episcopato. Infatti, nel contrasto delle opposte ideologie c’è pericolo che la più grande generosità si accompagni ad affermazioni quanto mai discutibili: «anche in mezzo a noi - come al tempo di San Paolo - sorgono uomini che insegnano delle dottrine perverse per trascinar dietro a sé dei discepoli» (At 20,30), e coloro che parlano in tal modo sono a volte persuasi di farlo in nome di Dio, illudendosi sullo spirito che li anima. Siamo noi abbastanza vigili, per ben discernere la parola di fede, sui frutti che essa produce? Potrebbe venire da Dio una parola che faccia perdere ai fedeli il senso della rinunzia evangelica, o che proclami la giustizia tralasciando di annunciare la dolcezza, la misericordia e la purezza, una parola che ponga i fratelli contro i fratelli? Gesù ci ha avvertiti: «dai loro frutti li riconoscerete» (Mt 7,15-20). Proprio tutto questo chiediamo ai collaboratori, che hanno con noi il compito di predicare la parola di Dio. Che la loro testimonianza sia sempre quella del Vangelo e la loro parola quella del Verbo che suscita la fede e, con essa, l’amore verso i nostri fratelli trascinando tutti i discepoli del Cristo a permeare del suo spirito la mentalità, i costumi, e la vita della città terrestre.
 
I Lettura: Quanto raccontato dal Libro della Genesi trattasi di un antico rito di alleanza dei popoli orientali. I contraenti passavano in mezzo alle vittime, significando con questo di subire la stessa morte se fossero venuti meno al patto che avevano stipulato. Nel nostro racconto è soltanto Dio a passare in mezzo “agli animali divisi”. La reciprocità la si troverà nell’alleanza del monte Sinai dove l’impegno sarà reciproco (Es 19, 2-9; 24,8.12-18).
 
Vangelo
Dai loro frutti li riconoscerete.
 
Gli occhi ci aiutano a non andare a tentoni, i ciechi hanno bisogno di una guida o di un bastone per avanzare sicuri, così i credenti ciechi nell’anima, e senza una guida, non avanzano nel cammino della fede e corrono il rischio di accogliere ogni vento di dottrina (Ef 4,14). Gesù ha dato ai discepoli una regola infallibile per accorgersi se colui che parla viene da Dio o da altre sponde: dai frutti li riconoscerete. E così per evitare confusione o dubbi, la Scrittura offre ai credenti un elenco di frutti e di opere, certamente stringato ma abbastanza completo: sono ben note le opere della carne: fornicazione, impurità... (Gal 5,19ss). Certo, i falsi profeti amano il travestimento e sono molti abili nel trucco, ma, alla fine, tutto viene alla luce. Gesù è la verità e non può permettere che il discepolo resti nel buio della confusione, lui è la luce e illumina i suoi passi, è la via sicura sulla quale muovere speditamente i passi per giungere alla meta, quella della salvezza.
 
Dal Vangelo secondo Matteo
Mt 7,15-20
 
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro sono lupi rapaci! Dai loro frutti li riconoscerete.
Si raccoglie forse uva dagli spini, o fichi dai rovi? Così ogni albero buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi; un albero buono non può produrre frutti cattivi, né un albero cattivo produrre frutti buoni.
Ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco. Dai loro frutti dunque li riconoscerete».
 
Parola del Signore.
 
I falsi profeti sono i maestri di menzogna che seducono il popolo di Dio, lo traviano, trascinandolo sulle vie della apostasia. Israele conosce bene la dolorosa esperienza di uomini che si presentano nella veste di profeti inviati da Dio ed invece sono «lupi che dilaniano la preda, versano il sangue, fanno perire la gente per turpi guadagni» (Ez 22,27). Gesù, a questo proposito, a pie’ sospinto, ha messo in guarda i suoi discepoli:  «Badate che nessuno vi inganni! Molti infatti verranno nel mio nome, dicendo: “Io sono il Cristo”, e trarranno molti in inganno …  Allora, se qualcuno vi dirà: “Ecco, il Cristo è qui”, oppure: “È là”, non credeteci; perché sorgeranno falsi cristi e falsi profeti e faranno grandi segni e miracoli, così da ingannare, se possibile, anche gli eletti. Ecco, io ve l’ho predetto» (Mt 24,4-5.24-25). Gesù “allude ai Farisei; egli non intende toccare la loro condotta, bensì la dottrina che seguono e insegnano” (Benedetto Prete). Anche la Chiesa non sarà immune da simile flagello: «Io so che dopo la mia partenza verranno fra voi lupi rapaci, che non risparmieranno il gregge; perfino in mezzo a voi sorgeranno alcuni a parlare di cose perverse, per attirare i discepoli dietro di sé.  Per questo vigilate» (At 20,29-31). E non è soltanto una profezia, ma amara esperienza: «O stolti Gàlati, chi vi ha incantati? Proprio voi, agli occhi dei quali fu rappresentato al vivo Gesù Cristo crocifisso!» (Gal 3,1). La regola infallibile che Gesù suggerisce ai discepoli per smascherare i lupi travestiti da agnelli è valida per tutti i tempi, anche se sempre, ad intra o ad extra della Chiesa, sorgeranno falsi profeti i quali al loro tramonto al loro attivo avranno soltanto defezioni, lacerazioni, errori dottrinali, fazioni e scismi, purtroppo a volte insanabili. Una presenza pruriginosa, maligna, ma per i falsi profeti la condanna è in atto ormai da tempo e la loro rovina non si fa attendere: «Ci sono stati anche falsi profeti tra il popolo, come pure ci saranno in mezzo a voi falsi maestri, i quali introdurranno fazioni che portano alla rovina, rinnegando il Signore che li ha riscattati. Attirando su se stessi una rapida rovina,  molti seguiranno la loro condotta immorale e per colpa loro la via della verità sarà coperta di disprezzo. Nella loro cupidigia vi sfrutteranno con parole false; ma per loro la condanna è in atto ormai da tempo e la loro rovina non si fa attendere» (2Pt 2,1-3).
 
I falsi profeti - Ortensi Da Spinetoli (Matteo): La preoccupazione di Gesù e dell’evangelista è quella di mettere in guardia dai perturbatori della pace comunitaria, dai predicatori di novità e di facili dottrine. La chiesa apostolica, che ha condannato ripetutamente il carismaticismo o l’avventurismo spirituale, ha segnalato vari criteri per distinguere la vera dalla falsa profezia. Matteo offre un criterio più semplice: il riferimento alla vita che essi conducono. «Li conoscerete dai loro frutti », non dalle conseguenze della loro predicazione, che possono essere incidentalmente anche buone, ma dai frutti che essa produce nella loro vita. Se l’animo è retto e i princìpi sono sani questi non possono solo esprimersi in belle parole, occorre che si manifestino in opere buone. Sono esse che giudicano la natura della pianta e, quindi, fuori metafora, la rettitudine o falsità del predicatore. Il principio adibito già dal Battista per stigmatizzare la cattiva condotta dei farisei (Mt. 3, 10), verrà ripreso più tardi da Gesù per redarguire i suoi avversari (Mt. 12, 33). La condanna che l’evangelista pronuncia contro i falsi cristiani (v. 19) e i falsi profeti (v. 20) è definitiva. Il fuoco in cui vengono gettate le piante infruttuose contiene un accenno alla geenna, simbolo della perdizione eterna. Quando l’evangelista scrive, i primi falsificatori del Cristo, piovuti dal di fuori o spuntati dal seno della comunità, erano già apparsi. Il tono polemico del discorso non tradisce solo un risentimento contro gli avversari di Gesù (i farisei o i sadducei), ma fa trapelare la reazione della chiesa contro le prime insinuazioni ereticali.
 
La profezia nella Chiesa - Paul Beauchamp: «Le profezie un giorno spariranno», spiega Paolo (1Cor 13,8). Ma allora sarà la fine dei tempi. La venuta di Cristo in terra, lungi dall’eliminare il carisma della profezia, ne ha provocato, al contrario, l’estensione che era stata predetta.
«Possa tutto il popolo essere profeta!», augurava Mosè (Num 11,29). E Gioele vedeva realizzarsi questo augurio «negli ultimi tempi» (Gioe 3,1-4). Nel giorno della Pentecoste, Pietro dichiara compiuta questa profezia: lo Spirito di Gesù si è effuso su ogni carne: visione e profezia sono cose comuni nel nuovo popolo di Dio. Il carisma delle profezie è effettivamente frequente nella Chiesa apostolica (cfr. Atti 11,27s; 13,1; 21,l0s). Nelle Chiese da lui fondate, Paolo vuole che esso non sia deprezzato (1Tess 5,20). Lo colloca molto al di sopra del dono delle lingue (1Cor 14,1-5); ma non di meno ci tiene a che sia esercitato nell’ordine e per il bene della comunità (14,29-32).
Il profeta del NT, non diversamente da quello del VT, non ha come sola funzione quella di predire il futuro: egli «edifica, esorta, consola» (14,3), funzioni che riguardano da vicino la predicazione. L’autore profetico dell’Apocalisse incomincia con lo svelare alle sette Chiese ciò che esse sono (Apoc 2-3), come facevano gli antichi profeti. Soggetto egli stesso al controllo degli altri profeti (1Cor 14,32) ed agli ordini dell’autorità (14,37), il profeta non potrebbe pretendere di portare a sé la comunità (cfr. 12, 4-11), né di governare la Chiesa. Fino al termine, il profetismo autentico sarà riconoscibile grazie alle regole del discernimento degli spiriti. Già nel VT il Deuteronomio non vedeva forse nella dottrina dei profeti il segno autentico della loro missione divina (Deut 13,2-6)? Cosi è ancora. Infatti il profetismo non si spegnerà con l’età apostolica.
Sarebbe difficile comprendere la missione di molti santi della Chiesa senza riferimento al carisma profetico, il quale rimane soggetto alle regole enunciate da S. Paolo.
 
Spine e triboli - Cromazio di Aquileia (Commento al Vangelo di Matteo 35,7): Ma nel testo v’è anche una significazione allegorica: le spine stanno ad indicare i giudei, di cui si trova scritto: Attesi che producesse uva ma essa mi ha dato solo spine (Is 5, 2). Era inutile attendersi che siffatte spine generassero uva; fuori metafora: i giudei, invece di offrire frutti di giustizia, si sono dati la briga di suscitare le spine delle persecuzioni. Nei triboli vanno visti soprattutto gli eretici: con le loro interminabili discussioni non possono di certo produrre la dolcezza della fede; la fede difatti è dolce: come è per natura dolce il fico, che è chiamato a raffigurarla.
 
Il santo del Giorno - 25 Giugno 2025 -  San Massimo di Torino. Davanti alla violenza del mondo è il momento della testimonianza: È nel momento della crisi e della sofferenza che un pastore è chiamato a vivere fino in fondo il proprio ministero, sostenendo chi è in difficoltà, indicando la strada della verità, testimoniando con la propria vita l’amore autentico. Così fece san Massimo di Torino, considerato fondatore della Chiesa locale e primo vescovo della città piemontese. Assieme alla sua gente si trovò ad affrontare il terribile periodo delle invasioni barbariche. Era nato verso la metà del IV secolo e fu discepolo di sant’Ambrogio e di sant’Eusebio di Vercelli, che lo inviò a guidare la comunità torinese. Dalle «Omelie» e dai «Sermoni» appare il suo carattere mite ma fermo e autorevole: «È figlio ingiusto ed empio colui che abbandona la madre in pericolo. Dolce madre è in qualche modo la patria», diceva a coloro che pensavano di fuggire davanti all’arrivo dei barbari. Li esortava a anche a mantenersi irreprensibili nei costumi e a non confidare in superstizioni come l’invocazione della luna, pratica sulla quale scriveva con ironia: «Veramente presso di voi la luna è in travaglio, quando una copiosa cena vi distende il ventre e il capo vi ciondola per troppe libagioni». La data della sua morte non è certa e si colloca tra il 408 e il 423.
 
O Padre, che ci hai rinnovati
con il santo Corpo e il prezioso Sangue del tuo Figlio,
fa’ che l’assidua celebrazione dei divini misteri
ci ottenga la pienezza della redenzione.
Per Cristo nostro Signore.  
 
 
 
 
 24 Giugno 2025
 
Natività San Giovanni Battista - Solennità
 
Is 49,1-6; Salmo Responsoriale dal Salmo 138 (139); At 13,22-26; Lc 1,57-66.80

Colletta
O Dio, che hai suscitato san Giovanni Battista
per preparare a Cristo Signore un popolo ben disposto,
concedi alla tua Chiesa la gioia dello Spirito,
e guida tutti i credenti sulla via della salvezza e della pace.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Testimoni di Gesù Cristo: Giovanni Paolo II (Angelus, 24 giugno 1984): “Il Signore dal seno materno mi ha chiamato, fin dal grembo di mia madre ha pronunziato il mio nome” (Is 49,1). Oggi la Chiesa celebra la natività di san Giovanni Battista. Questa natività è, al tempo stesso, vocazione. Già nel grembo di sua madre Elisabetta, moglie di Zaccaria, Giovanni è stato chiamato per nome da Dio. Egli doveva presentarsi sulla strada della divina rivelazione come l’ultimo dei profeti dell’Antica Alleanza e, al tempo stesso, come il precursore di Gesù Cristo, nel quale si compie la nuova ed eterna alleanza di Dio con l’umanità. Nel giorno della circoncisione di Giovanni, suo padre Zaccaria, nell’inno di ringraziamento a Dio, pronunciò le seguenti parole: “E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell’Altissimo perché andrai innanzi al Signore a preparargli le strade” (Lc 1,76). La Chiesa, fin dai tempi più antichi, ha circondato di particolare venerazione san Giovanni Battista, la sua vocazione e la sua speciale missione. In questa vocazione e missione la Chiesa ritrova se stessa come l’erede dell’antica alleanza e, in pari tempo, si sente chiamata a rendere testimonianza a Gesù Cristo, agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo (cfr. Gv 1,29).
 
I Lettura: Il secondo canto del ‘servo del Signore’ descrive alcuni tratti della sua missione: la sua predestinazione (vv. 1.5) e la sua missione estesa non solo a Israele che deve radunare (v. 5), ma anche alle nazioni per illuminarle (v. 6). La sua parola sarà «viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio» (Eb 4,12; v. 2) e la sua predicazione apporterà luce e salvezza (v 6). Il canto parla anche di un suo insuccesso (vv. 4.7), della sua fiducia in Dio solo (vv. 4.5) e di un trionfo finale (v. 7). La missione di Giovanni il Battista, come quella del Servo, è accomunata dal fallimento, ma è da questo apparente insuccesso umano che nasce per gli  uomini una «cosa nuova» (Is 43,19).
 
II Lettura: Inizialmente la predicazione apostolica sarà volta a scuotere il mondo giudaico, ma i frutti saranno molto scarsi. Il testo lucano riporta uno di questi tentativi. Paolo, fariseo, cerca con un ragionamento fondato sul dato biblico, quindi assimilabile dalle menti dei Giudei, di convincere il popolo che Cristo è il Messia: annunciato da Davide, ora, «nella pienezza dei tempi» (Gal 4,4), è «apparso per togliere i peccati» (1Gv 3,5). Questa è la Buona Novella, la «parola di salvezza», che viene annunciata al popolo d’Israele depositario delle promesse divine.
 
Vangelo
Giovanni è il suo nome.
 
La missione del Battista, come quella del Servo del Signore, avrà il sigillo della sofferenza e del fallimento. A differenza di tanti profeti, Giovanni avrà il felice compito di chiudere le porte dell’Antico Testamento per spalancare agli uomini i battenti del Nuovo. La sua alta missione sarà quella di indicare ad un «popolo che camminava nelle tenebre» (Is 9,1) «la luce vera, quella che illumina ogni uomo» [Gv 1,9]: solo «Gesù è la luce vera venuta in questo mondo e che illumina di se medesimo ogni uomo. Giovanni si limitò ad additare a tutti il Sole [Lc 1,79]. Giovanni fu testimone della luce con le parole e con i fatti, con la penitenza, con la santità, con la sua fortezza eroica: “Era una lampada che arde e risplende” [Gv 5,35]» (Vincenzo Raffa).
 
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 1,57-66.80
 
Per Elisabetta si compì il tempo del parto e diede alla luce un figlio. I vicini e i parenti udirono che il Signore aveva manifestato in lei la sua grande misericordia, e si rallegravano con lei.
Otto giorni dopo vennero per circoncidere il bambino e volevano chiamarlo con il nome di suo padre, Zaccarìa. Ma sua madre intervenne: «No, si chiamerà Giovanni». Le dissero: «Non c’è nessuno della tua parentela che si chiami con questo nome».
Allora domandavano con cenni a suo padre come voleva che si chiamasse. Egli chiese una tavoletta e scrisse: «Giovanni è il suo nome». Tutti furono meravigliati. All’istante gli si aprì la bocca e gli si sciolse la lingua, e parlava benedicendo Dio.
Tutti i loro vicini furono presi da timore, e per tutta la regione montuosa della Giudea si discorreva di tutte queste cose. Tutti coloro che le udivano, le custodivano in cuor loro, dicendo: «Che sarà mai questo bambino?». E davvero la mano del Signore era con lui.
Il bambino cresceva e si fortificava nello spirito. Visse in regioni deserte fino al giorno della sua manifestazione a Israele.
Tutti i loro vicini furono presi da timore, e per tutta la regione montuosa della Giudea si discorreva di tutte queste cose. Tutti coloro che le udivano, le custodivano in cuor loro, dicendo: «Che sarà mai questo bambino?». E davvero la mano del Signore era con lui.
Il bambino cresceva e si fortificava nello spirito. Visse in regioni deserte fino al giorno della sua manifestazione a Israele.
 
Parola del Signore.
 
Giovanni è il suo nome - Angelico Poppi (I Quattro Vangeli): Il dittico delle nascite, che forma il secondo parallelismo dell’infanzia di Giovanni e di Gesù, rappresenta l’adempimento degli annunzi fatti dall’angelo a Zaccaria e a Maria. Però la simmetria dei due pannelli risulta più generica rispetto al dittico degli annunzi. Mentre per la nascita di Giovanni il racconto ruota intorno all’imposizione del nome in occasione della circoncisione e alla reazione della gente, piena di stupore, nella nascita di Gesù viene dato più rilievo alle circostanze storiche, topografiche, e all’annuncio dell’angelo ai pastori. Il Benedictus di Zaccaria, con cui si conclude l’episodio, ha un riscontro nel Nunc dimittis di Simeone. Il nome Giovanni significa «JHWH è misericordia». Il tema della misericordia è un motivo ricorrente nel vangelo dell’infanzia. Anche Maria aveva celebrato la potenza e la misericordia di Dio nel Magnificat (v. 50). Questi, rendendo feconda Elisabetta, benché avanzata in età, aveva magnificato la sua misericordia con lei (v. 58). Egli manifestò le sue «viscere di misericordia», attuando le promesse di salvezza fatte ai padri, attraverso la visita dall’alto del Sole che stava per sorgere sull’orizzonte (vv. 72 e 78). La convergenza di Elisabetta con Zaccaria per la scelta del nome di Giovanni non presuppone un miracolo (v. 63). Zaccaria, benché muto, aveva potuto comunicare in antecedenza a Elisabetta il nome rivelato dall’angelo (v. 13). Lo stupore e il timore dei vicini, la grande eco provocata dall’evento costituiscono motivi ricorrenti nei racconti di miracoli in Luca. La nascita del Battista da genitori anziani e sterili provocò in tutti ammirazione per le meraviglie compiute dal Signore. - L’espressione «posero nel loro cuore» (v. 66) ricompare in riferimento a Maria come ritornello altre due volte (2,19.51).
 
Giovanni nel quadro della storia della salvezza - Giuseppe Barbaglio: Luca si preoccupa espressamente di assegnare a Giovanni un posto preciso nel vasto quadro della storia della salvezza. Nella suddivisione in grandi tappe il Battista fa parte della prima, cioè dell’AT, essendo Cristo l’inauguratore di una nuova era, quella della pienezza dei giorni: «La legge e i profeti vanno fino a Giovanni; da allora in poi viene annunziato il regno di Dio e ognuno si sforza per entrarvi» (Lc 16,16). Giovanni è collocato nella scia del profetismo veterotestamentario: l’ultimo della serie, ma sempre incluso nella serie. Con lui è l’AT che si chiude, dando avvio all’annuncio del regno di Dio proclamato da Gesù. Egli segna la continuità della storia della salvezza. Negli Atti degli apostoli la predicazione apostolica prende il suo punto di partenza proprio dal Battista: «Voi conoscete ciò che è accaduto in tutta la Giudea, incominciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni» (10,37; cf. 1,21-22; 13,24-25). La stessa continuità è sottolineata dai primi due capitoli del vangelo di Luca, che costruisce parallelamente le scene dell’infanzia di Cristo con quelle dell’infanzia del Battista: annunciazione della nascita di Giovanni (1,5-25) e annunciazione della nascita di Gesù (1,26-38), nascita e circoncisione del Battista (1,57-66) e nascita e circoncisione di Gesù (2,1-21), crescita di Giovanni (1,80) e crescita di Gesù (2,40), canto di Maria (1,46-56) e inno del padre di Giovanni (1,67-79). Mostra così che Gesù ha origine dal mondo giudaico, è il frutto dell’AT e della sua attesa impersonata dai «poveri di Dio» (= i genitori del Battista, Maria, i pastori, Simeone ed Anna). Ma ha anche lo scopo di far apparire la superiorità di Gesù sul Battista: Gesù è l’atteso dell’AT; Giovanni ha la missione di preparare la sua venuta (cf. il canto di Simeone: 2,2932 e l’inno Benedictus: 1,67-79). In questo duplice rapporto di continuità e di trascendenza del tempo neotestamentario di Cristo su quello veterotestamentario di Giovanni, Luca vede la reciproca posizione dei due nel disegno divino di salvezza attuantesi nella storia. Marco, invece, tende a introdurre la figura del Battista nella pienezza dei tempi, affermando che la sua apparizione costituisce l’«inizio del vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio» (cf. 1,1-4). Giovanni introduce i tempi evangelici. Su questa linea, e ancor più chiaramente, è anche Matteo con la sua espressa identificazione di Giovanni con Elia, figura escatologica e precursore del Messia. Né è senza significato che per il primo vangelo l’annuncio del Battista è ripreso, tale e quale, da Gesù (Mt 3,2; 4,17).
 
Catechismo della Chiesa Cattolica 522 La venuta del Figlio di Dio sulla terra è un avvenimento di tale portata che Dio lo ha voluto preparare nel corso dei secoli. Riti e sacrifici, figure e simboli della «prima Alleanza», li fa convergere tutti verso Cristo; lo annunzia per bocca dei profeti che si succedono in Israele; risveglia inoltre nel cuore dei pagani l’oscura attesa di tale venuta.
523 San Giovanni Battista è l’immediato precursore del Signore, mandato a preparargli la via. «Profeta dell’Altissimo» (Lc l 76), di tutti i profeti è il più grande e l’ultimo; egli inaugura il Vangelo; saluta la venuta di Cristo fin dal seno di sua madre e trova la sua gioia nell’essere «l’amico dello sposo» (Gv 3,29), che designa come «l’Agnello di Dio [ ... ] che toglie il peccato del mondo » (Gv 1,29). Precedendo Gesù «con lo spirito e la forza di Elia» (Lc 1,17), gli rende testimonianza con la sua predicazione, con il suo battesimo di conversione ed infine con il suo martirio.
524 La Chiesa, celebrando ogni anno la liturgia dell’Avvento, attualizza questa attesa del Messia: mettendosi in comunione con la lunga preparazione della prima venuta del Salvatore, i fedeli ravvivano l’ardente desiderio della sua seconda venuta. Con la celebrazione della nascita e del martirio del Precursore, la Chiesa si unisce al suo desiderio: «Egli deve crescere e io invece diminuire» (Gv 3,30).
 
Parallelo fra Giovanni e Gesù - Efrem Siro, Commento al Diatessaron 1, 31: L’anziana Elisabetta ha dato alla luce l’ultimo dei profeti e Maria, una fanciulla, il Signore degli angeli. La figlia di Aronne ha dato alla luce la voce nel deserto (cf. Is 63,9), ma la figlia di Davide il potente Dio della terra. La sterile ha dato alla luce colui che rimette i peccati, ma la Vergine colui che li toglie dal mondo (cf. Cv 1, 29). Elisabetta ha partorito colui che ha riconciliato il popolo tramite il pentimento, ma Maria ha partorito colui che ha purificato le terre da ogni macchia. Il più anziano ha acceso una lampada nella casa di Giacobbe, suo padre, perché Giovanni era questa lampada (cf. Gv 5,35), mentre il più giovane ha acceso il Sole di giustizia per tutte le nazioni (cf. Gv l4,2). L’angelo ha portato l’annuncio a Zaccaria, così che il decapitato proclamasse il crocifisso e l’odiato proclamasse l’invidiato. Colui che stava per battezzare con acqua avrebbe proclamato colui che doveva battezzare nel fuoco e con lo Spirito Santo (cf. Mt 3,11). La luce, che non era oscura, avrebbe proclamato il Sole di Giustizia. Colui che era stato riempito dallo Spirito avrebbe proclamato colui che dona lo Spirito. Il sacerdote che chiama con la tromba avrebbe proclamato colui che verrà alla fine al suono della tromba. La voce avrebbe proclamato il Verbo e colui che vide la colomba avrebbe proclamato colui sul quale la colomba si posò, come il lampo prima del tuono.
 
Il santo del Giorno - 24 Giugno 2025 - Natività di san Giovanni Battista - Un bimbo che riunisce generazioni e popoli: Egli «sarà grande davanti al Signore; non berrà vino né bevande inebrianti, sarà colmato di Spirito Santo fin dal seno di sua madre e ricondurrà molti figli d’Israele al Signore loro Dio»: la nascita di san Giovanni Battista è annunciata come un prodigio e suscita meraviglia, come racconta il Vangelo di Luca. Quando Giovanni viene al mondo il padre, Zaccaria, riacquista la parola e canta la lode del Dio della misericordia. Fin dal principio la vocazione di Giovanni è chiara: riportare a Dio il popolo che spesso pare aver perso la speranza. Una missione che si realizza a partire proprio dalla sua nascita: davanti a quel bambino le generazioni si riconciliano, i lontani si riavvicinano, la potenza dell’amore di Dio mostra i suoi effetti. La nascita del Battista, insomma, è il segno della possibilità per il mondo di ritrovare la via per l’amore vero. In quel bambino è svelato il mandato affidato a ogni credente: andare «innanzi al Signore a preparargli le strade», testimoniando la sua misericordia. (Autore Matteo Liut)
 
O Signore, che ci hai nutriti alla cena dell’Agnello,
concedi alla tua Chiesa,
in festa per la nascita di san Giovanni Battista,
di riconoscere come autore della propria rinascita il Messia,
di cui egli annunciò la venuta nel mondo.
Per Cristo nostro Signore.