27 Giugno 2025
SACRATISSIMO CUORE DI GESÙ
Ez 34,11-16; Salmo Responsoriale Dal Salmo22 (23); Rm 5,5b-11; Lc 15,3-7
Sacratissimo Cuore di Gesù - La Bibbia e i Padri della Chiesa [I Padri vivi]: La devozione al Cuore di Gesù risale al Medioevo: i mistici dei secoli XI e XII incoraggiano i fedeli alla meditazione della Passione del Signore, alla venerazione delle ferite di Cristo e del Cuore trafitto dalla lancia del soldato [...] Le rivelazioni di santa Maria Margherita Alacoque (+1690) influiscono maggiormente sulla diffusione della festa. Nonostante le numerose richieste indirizzate alla Sede Apostolica, Roma esita a lungo. Dopo la rinnovata richiesta dei vescovi polacchi, Clemente XIII, nel 1765, dà il permesso di celebrare la festa del Cuore di Gesù il venerdì dopo l’ottava del Corpus Christi e così essa entra nel ciclo delle feste cristiane. Pio IX, nel 1856, estende la festa su tutta la Chiesa; Leone XIII, consacra al Cuore di Gesù tutto il genere umano, Pio X, raccomanda di farlo ogni anno. Nel popolo cristiano si è comunemente diffusa la pratica della Comunione nei primi nove venerdì del mese.
Il Cuore di Gesù, trafitto dalla lancia del soldato, rimane per sempre il simbolo del grande ed inconcepibile amore di Dio verso l’uomo. Dio è amore. Lui ci ha amati per primo ed ha mandato il suo Figlio per salvarci. Non c’è amore più grande che dare la propria vita per qualcuno - disse il Signore - ed ha messo in pratica infatti queste parole. Dal costato trafitto di Cristo nasce la Chiesa. Dal costato trafitto di Cristo scorre sangue ed acqua, simbolo dei due Sacramenti: Battesimo ed Eucaristia.
La chiave di lettura di tutta la storia della salvezza e della redenzione compiuta da Cristo è l’amore. Rendendo oggi il culto al Cuore di Gesù, ci rendiamo più che mai conto che «l’amore non è amato». Perciò dobbiamo desiderare che i nostri cuori siano infiammati dal fuoco dell’amore di Dio, e vedendo quanti rimangono indifferenti alla chiamata del Signore, dobbiamo riparare alla loro mancanza di amore.
Colletta
O Dio, pastore buono,
che manifesti la tua onnipotenza
nel perdono e nella compassione,
raduna i tuoi figli dispersi
e ristorali al torrente della grazia
che sgorga dal Cuore del tuo Figlio,
perché sia festa grande nell’assemblea dei santi.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
Investigabiles Divitias Christi: Ecco pertanto i Nostri desideri, la Nostra volontà: che cioè, in questa occasione, l’istituzione della festa del S. Cuore, messa opportunamente in luce, sia celebrata con degno rilievo da voi tutti, Venerabili Fratelli, che siete i Vescovi della Chiesa di Dio, e dalle popolazioni a voi affidate. Desideriamo che a tutte le categorie dei fedeli siano spiegati nel modo più adatto e completo i profondi e reconditi fondamenti dottrinali, che illustrano gli infiniti tesori di carità del Sacro Cuore; e che si indicano particolari funzioni sacre, che accendano sempre di più la devozione verso tale culto, degno della più alta considerazione, allo scopo di ottenere che tutti i cristiani, animati da nuove disposizioni di spirito, prestino il dovuto onore a quel Cuore divino, riparino gli innumerevoli peccati con attestazioni di ossequio sempre più fervorose, e conformino l’intera vita ai precetti della vera carità, che è il compimento della legge (Cf Rom 13,10).
Poiché infatti il Ss. Cuore di Gesù, fornace ardente di carità, è simbolo ed espressiva immagine di quell’eterno amore, nel quale Dio ha tanto amato il mondo, da dare il suo Figliuolo unigenito (Io. 3,16), siamo certi che dette commemorazioni contribuiranno moltissimo a far sì che le ricchezze dell’amore divino siano profondamente scrutate e bene comprese; e nutriamo altresì la fiducia che i fedeli tutti ne sappiano trarre ispirazione sempre più risoluta a configurare al Vangelo la propria vita, a emendare diligentemente i costumi, a mettere in pratica la legge del Signore.
Ma in primo luogo desideriamo che, per mezzo di una più intensa partecipazione al Sacramento dell’altare, sia onorato il Cuore di Gesù, il cui dono più grande è appunto l’Eucaristia. Nel sacrificio eucaristico, infatti, si immola e si riceve il nostro Salvatore, sempre vivo a intercedere per noi (Ebr. 7, 25), il cui Cuore fu aperto dalla lancia del soldato, e riversò sull’umano genere il fiotto del suo Sangue prezioso, commisto ad acqua; in questo eccelso sacramento, inoltre, che è vertice e centro degli altri Sacramenti, la dolcezza spirituale è gustata nella sua stessa sorgente, e si ricorda quell’insigne carità, che Cristo ha dimostrato nella sua passione (S. Tommaso d’Aquino, Opusculum 57). Bisogna dunque che - per usare le parole di san Giovanni Damasceno - ci accostiamo a lui con desiderio ardente... affinché il fuoco del nostro desiderio, ricevendo come l’ardore della brace, distrugga, bruciandoli, i nostri peccati e illumini i cuori, e in tal modo, nel contatto abituale col fuoco divino, diventiamo ardenti pure noi e simili a Dio (S. Giovanni Damasceno, De fide orthod., 4, 13: PG 94, 1150).
I Lettura: Bibbia di Gerusalemme: L’immagine del re-pastore è antica nel patrimonio letterario dell’Oriente.
Geremia l’ha applicata ai re d’Israele, per rimproverarli di avere adempiuto male i loro compiti (Ger 2,8; 10,21; 23,1-3) e per annunciare che Dio darà al suo popolo nuovi pastori, che lo guideranno nella giustizia (Ger 3,15; 23,4); tra questi pastori vi sarà un «germoglio» (Ger 23,5-6), il Messia. Ezechiele riprende il tema di Ger 23,1-6, che più tardi sarà anche ripreso da Zc 11,4-17; 13.7.
Egli rimprovera ai pastori - qui i re e i capi laici del popolo - i loro crimini (vv l-10).
Il Signore si riprenderà il gregge che essi strapazzano, e farà egli stesso da pastore al suo popolo (cf. Gen 48,15; 49,24; Is 40,11; Sal 23; 80.2; 95,7); è l’annuncio di una teocrazia (vv 11-16): in effetti, al ritorno dall’esilio, la monarchia non verrà più ristabilita. Solo più tardi YHWH darà al suo popolo (cf. 17,22; 21,32) un pastore di sua celta (vv 29; 24), un «principe» (cf 45,7-8.17; 46,8.10.16-18), nuovo Davide. La descrizione del regno di questo principe (vv 25-31) e il nome di Davide che gli viene dato (cf, 2Sam 7,1+; cf. Is 11,1+; Ger 23,5) suggeriscono un’era messianica, in cui Dio stesso, mediante il Messia, regnerà sul suo popolo nella giustizia e nella pace. Si trova, in questo testo di Ezechiele, l’abbozzo della parabola della pecorella smarrita (Mt 18,12-14; Lc 15,4-7) e soprattutto dell’allegoria del buon pastore (Gv 10,11-18) che, confrontata con Ezechiele, appare come una rivendicazione messianica di Gesù. II buon pastore surà uno dei temi iconografici più antichi ciel cristianesimo.
II Lettura - Vincenzo Raffa (Liturgia Festiva): San Paolo cerca il fondamento della speranza che abbiamo di salvarci e lo trova nell’illimitata benevolenza dell’Onnipotente.
La prova lampante sta nel fatto che se Dio arrivò a mandare alla morte il Figlio suo per l’umanità peccatrice, ancor prima che fosse redenta, proprio perché l’amava, tanto più sarà sollecito per essa dopo Ia sua elevazione alla figliolanza divina, che la rende immensamente più vicina e cara a lui.
L’amore di Dio non rimase solo il movente della salvezza, ma anche una condizione di vita dell’uomo redento. Infatti la carità, mediante lo Spirito Santo, inonda i cuori e diviene principio vivificante (Rm 5,5; 8,9; 1Cor 3,16; 2Tm 1,14; Gc 4,5).
La carità viene infusa dallo Spirito Santo nelle anime dei fedeli anche perché sappiano riconoscere il Cristo nei fratelli e amarli come lui li ama.
Vangelo
Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta.
La parabola della pecora perduta fa parte di un trittico che raccoglie la parabola del moneta ritrovata e la parabola del figlio prodigo o del Padre misericordioso. È il quindicesimo capitolo del Vangelo di Luca, che bene è indicato come il “Vangelo della misericordia”. I tratti della parabola della pecora perduta e ritrovata da mettere in evidenza sono tre: il primo, la pecora che si perde, non sappiamo se era una pecora “buona o cattiva”, non sappiamo se si era allontanata consapevolmente, sappiamo soltanto che il pastore “l’ha perduta”. Negligenza, distrazione da parte del pastore? Non lo sappiamo, ma conosciamo l’amore del pastore, che nonostante tutto si mette sulle tracce della “sua pecora”, finché la trova. E qui, gli ultimi due tratti. Innanzi tutto la gioia, la gioia del pastore, la gioia di aver trovato la pecora perduta, una gioia da condividere. Il pastore gioisce perché ha trovato la “sua pecora”, e questo mette in risalto l’amore grande del pastore nei confronti della sue pecore: nessuno potrà rubargliele dalle sue mani, E poi, la gioia che esplode nel cielo, una gioia contagiosa quella del pastore, condivisa da coloro che già sono ben protetti nel recinto del Cielo. I giusti condividono la gioia del pastore, e possiamo pensare che abbiano condiviso l’ansia della ricerca, forse queste due note rivelano il vero volto del “giusto”.
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 15,3-7
In quel tempo, Gesù disse ai farisei e agli scribi questa parabola:
«Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova?
Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini, e dice loro: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta”.
Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione».
Parola del Signore.
Benedetto Prete (I Quattro Vangeli): 4 Chi di voi...? La forma interrogativa (interrogazione retorica) serve a dar maggior efficacia alla frase ed essa, richiamando agli ascoltatori un fatto indiscutibile, acuisce il loro interesse per quanto verrà esposto. Se ha cento pecore e ne perde una; un gregge di cento capi rappresenta una notevole ricchezza, tuttavia la perdita di una pecora è avvertita dal padrone che, per ricuperarla, si mette affannosamente alla ricerca di essa. Il verbo usato da Luca (ἀπολέσας: participio aoristo di ἀπόλλυμι) richiama subito al lettore il tema fondamentale del presente capitolo; non si tratta infatti semplicemente dello smarrimento di una pecora, bensì di una perdita che non lascia indifferente il padrone del gregge; lo stesso verbo ricorre nei verss. 6, 9, 24, 32 ed ha una sfumatura di delicata tenerezza. Matteo nel testo parallelo impiega il verbo πλανάω (smarrisco). Non lascia le novantanove nel deserto, cioè: in qualche luogo dove il gregge può rimanere a pascolare. «Il deserto» non va inteso come una solitudine sabbiosa ed arida, dove è impossibile trovare di che nutrire le greggi; nel deserto di Giuda in inverno cresce una tenera erbetta che, pur nella sua effimera apparizione, offre uno squisito pascolo alle greggi che vi sono condotte. Fino a quando non l’abbia ritrovata; elemento descrittivo per indicare l’ansia e l’interesse con i quali il pastore compie la ricerca.
5 Se la mette, tutto contento, sulle spalle; particolare di una bellezza inarrivabile e di una delicatezza piena di umanità; non un atto di sdegno, né una percossa, ma tutta premura e tenerezza quasi paterna. Quel pastore risparmia alla pecora anche la fatica del ritorno, poiché se la carica pietosamente sulle spalle. L’immagine non riesce più a contenere la pienezza di dottrina che l’autore vi ha voluto esprimere e l’elemento parabolico cede davanti alla bellezza di un gesto così umano e paterno. La pietà cristiana fin dalle origini ha voluto fissare questo particolare descrittivo nella figura del buon pastore che porta una pecora sulle proprie spalle.
6 Convoca gli amici ed i vicini; nella scena sono descritti particolari che oltrepassano la realtà ed anche la verosimiglianza storica o psicologica. L’autore non si preoccupa di essere aderente a fatti concreti o verosimili, perché l’immagine alla quale ricorre ha uno scopo interamente didattico ed è ordinata ad illustrare con esempi o analogie tratte dalla esperienza umana delle verità trascendenti e misteriose. I due fatti posti in rilievo dalla parabola: la ricerca affannosa della pecora perduta e la gioia incontenibile per l’avvenuto ritrovamento di essa offrono una immagine umana dell’amore premuroso e paterno con il quale Dio va alla ricerca del peccatore e si rallegra nel ritrovarlo.
7 Così vi sarà più gioia in cielo per un peccatore pentito...; espressione iperbolica spinta intenzionalmente fino al paradosso; con essa si vuole far comprendere in qualche modo all’ascoltatore l’intensa gioia che prova Dio nell’accogliere un’anima che ritorna a Lui. Questo modo di parlare dei sentimenti di Dio (antropomorfismi o, più precisamente, antropopatismi) si fonda sopra un’osservazione psicologica: una mamma sembra che ami un figlio malato più degli altri che sono sani, non perché effettivamente lo ami più degli altri, ma perché verso il figlio malato mostra più tenerezza e ha maggiori attenzioni di quelle che usa verso gli altri figli. Il ritorno di un peccatore costituisce per Iddio l’occasione di una gioia così intensa, quale Egli non prova con i giusti che Gli sono rimasti sempre docili e fedeli. L’insegnamento che deriva da un confronto così appropriato e suggestivo consiste nell’assicurare il credente che Dio ama ancora il peccatore, lo ricerca con premura paterna, gli offre delle grazie, ne attende il ritorno con ansia e prova una gioia intensa nel riaverlo. Oltre a questo insegnamento fondamentale che fluisce naturalmente dalle descrizioni della scena, la parabola richiama una seconda idea che deriva dalle premesse poste dall’evangelista nella formula introduttiva e che ha una sua importanza nel presente contesto (cf. verss. 1-2). La parabola contiene un rimprovero per i Farisei, poiché rileva che il loro atteggiamento nei confronti dei «peccatori» (cf. vers. 1) è ben lontano da quello che mostra Dio verso i medesimi; il Signore ama, cerca i peccatori e se ne rallegra per il ritorno; i Farisei invece li disprezzano sdegnosamente evitando di avvicinarli per paura di contaminarsi. In Matteo la presente parabola si trova in un altro contesto ed illustra un aspetto dottrinale differente (cf. Mt., 18, 10-14).
Il Cuore - Catechismo degli Adulti 907: Nell’etica biblica il cuore si identifica in definitiva con l’uomo in quanto soggetto morale. Anche gli scritti apostolici del Nuovo Testamento si pongono su questa linea. Inoltre con lo stesso significato usano frequentemente la parola “coscienza”. La coscienza può essere buona o cattiva, macchiata o purificata, sincera o falsa, debole o forte. Nella coscienza tutti gli uomini, anche i pagani, portano scritta la legge morale: «Quanto la legge esige è scritto nei loro cuori come risulta dalla testimonianza della loro coscienza e dai loro stessi ragionamenti, che ora li accusano ora li difendono» (Rm 2,15). La coscienza cristiana è l’uomo nuovo in Cristo, divenuto consapevole di sé nella fede. Egli vive «la carità, che sgorga da un cuore puro, da una buona coscienza e da una fede sincera» (1Tm 1,5). Attua le esigenze di essa, seguendo i suggerimenti dello Spirito Santo, cercando di «discernere la volontà di Dio» (Rm 12,2) nelle situazioni concrete, vigilando su tutta la sua condotta. Nella coscienza si fa sentire la chiamata di Dio, che propone sia i valori e le norme, che orientano il cammino, sia gli appelli personali, che indicano i singoli passi da compiere.
Tauler (Predica per la terza domenica dopo la Trinità): E dopo che l’ha trovata, se la pone sulle spalle ... : Egli prende questa pecora, l’amabile pecora, se la pone sulle spalle e la porta con Sé. La spalla è tra il Corpo e il Capo, e tocca entrambi. Cioè: Egli pone quest’amabile pecora tra la sua santa Umanità e l’adorata Divinità. La santissima Umanità è per queste persone un appoggio, e le trasporta nella degnissima Divinità. L’amabile Umanità si carica di queste care pecore e le porta in tutte le loro azioni. Sin qui facevano da loro stesse le loro opere, in sé e fuori di sé; ma ora Dio le porta e compie Lui tutte le loro opere, in esse e per mezzo di esse: sia che parlino, mangino, vadano o stiano, Dio realizza tutte le loro azioni in esse, ed esse vivono e si librano in Dio. Vanno dall’Umanità alla Divinità e viceversa, entrano ed escono, e trovano pascoli abbondanti (Gv. 10,9)
Il Santo del Giorno - 27 Giugno 2025 - San Cirillo di Alessandria. Lo scandalo di un Dio che entra nella storia: Lo scandalo di un Dio che incontra l’umanità entrando nella storia, facendosi uomo, provando l’esperienza della morte per vincerla: è così incredibile questo concetto fondamentale del cristianesimo da aver provocato nei secoli non poche dispute e confronti, a tratti anche aspri. Ci furono però anche antichi padri che fecero proprio questo “scandalo” del cristianesimo e lo difesero, lavorando allo stesso tempo per l’unità della Chiesa. Tra questi va di sicuro ricordato san Cirillo di Alessandria, vero e proprio apostolo dell’ortodossia, araldo di una fede affidata all’intero popolo di Dio in tutta la sua complessità. Nato tra il 370 e il 380, nipote di Teofilo, vescovo di Alessandria, nel 403 era a Costantinopoli al seguito dello zio, che prese parte al Sinodo detto «della Quercia». Nel 412 fu il successore dello stesso parente alla guida della Chiesa di Alessandria, comunità che guidò poi fino alla propria morte, avvenuta nel 444. Il confronto teologico vide Cirillo (difensore anche del titolo mariano di “Madre di Dio”) contrapposto soprattutto a Nestorio, la cui dottrina, basata sulla divisione tra le due nature di Cristo e sull’attribuzione a Maria del semplice titolo di “Madre dell’uomo”, fu condannata dal Concilio di Efeso del 431. Papa Leone XIII nel 1882 proclamò san Cirillo di Alessandria dottore della Chiesa. (Matteo Liut)
Il sacramento della carità, o Padre,
ci infiammi di santo amore,
perché, attratti sempre dal tuo Figlio,
impariamo a riconoscerlo nei fratelli.
Per Cristo nostro Signore.