9 Marzo 2025
 
I DOMENICA DI QUARESIMA
 
Dt 26,4-10; Salmo Responsoriale Dal Salmo 90 (91); Rm 10,8-13; Lc 4,1-13

Colletta
Signore misericordioso,
che sempre ascolti la preghiera del tuo popolo,
tendi verso di noi la tua mano,
perché, nutriti con il pane della Parola
e fortificati dallo Spirito,
vinciamo le seduzioni del maligno.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
La tentazione di Gesù - Catechismo della Chiesa Cattolica 538 I Vangeli parlano di un tempo di solitudine di Gesù nel deserto, immediatamente dopo che ebbe ricevuto il battesimo da Giovanni: “Sospinto” dallo Spirito nel deserto, Gesù vi rimane quaranta giorni digiunando; sta con le fiere e gli angeli lo servono. Terminato questo periodo, Satana lo tenta tre volte cercando di mettere alla prova la sua disposizione filiale verso Dio. Gesù respinge tali assalti che ricapitolano le tentazioni di Adamo nel Paradiso e quelle d’Israele nel deserto, e il diavolo si allontana da lui “per ritornare al tempo fissato”.
539 Gli evangelisti rilevano il senso salvifico di questo misterioso avvenimento. Gesù è il nuovo Adamo, rimasto fedele mentre il primo ha ceduto alla tentazione. Gesù compie perfettamente la vocazione d’Israele: contrariamente a coloro che in passato provocarono Dio durante i quaranta anni nel deserto, Cristo si rivela come il Servo di Dio obbediente in tutto alla divina volontà. Così Gesù è vincitore del diavolo: egli ha “legato l’uomo forte” per riprendergli il suo bottino. La vittoria di Gesù sul tentatore nel deserto anticipa la vittoria della passione, suprema obbedienza del suo amore filiale per il Padre.
540 La tentazione di Gesù manifesta quale sia la messianicità del Figlio di Dio, in opposizione a quella propostagli da Satana e che gli uomini desiderano attribuirgli. Per questo Cristo ha vinto il tentatore per noi: “Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compatire le nostre infermità, essendo stato lui stesso provato in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato” (⇒ Eb 4,15). La Chiesa ogni anno si unisce al Mistero di Gesù nel deserto con i quaranta giorni della Quaresima  
 
I Lettura: Con la professione di fede, recitata dinanzi al sacerdote nell’atto di offrire le primizie dei frutti della terra, l’Israelita rievoca la storia del suo popolo: una storia intrisa di sangue e di sofferenze inaudite, ma sopra tutto segnata dal potente aiuto di Dio che scende dal cielo per liberare Israele dalla schiavitù egiziana. Insediatosi nella nuova fertile terra, la tentazione poteva essere ora per il popolo quella di dimenticare il Signore, la sua potenza salvifica, il suo amore. È il Signore che ha dato a Israele una terra e i frutti che essa produce; con l’offerta delle primizie il popolo deve riconoscere questa dipendenza: «Guardati dunque dal dire nel tuo cuore: “La mia forza e la potenza della mia mano mi hanno acquistato queste ricchezze”. Ricordati invece del Signore, tuo Dio, perché Egli ti dà la forza per acquistare ricchezze, al fine di mantenere, come fa oggi, l’alleanza che ha giurata ai tuoi padri» (Dt 8,17-18). In questo modo, la preghiera diventava memoriale.
 
II Lettura: San Paolo, nella seconda lettura, «precisa alcuni termini centrali della fede cristiana. Essa è un atto di intelligenza, che, mossa dal buon volere dell’uomo, riconosce che Cristo è il Signore, risuscitato dal Padre. La fede del cuore poi si manifesta esternamente dinanzi agli uomini, diventando testimonianza profetica» (Vincenzo Raffa).
 
Vangelo
Gesù fu guidato dallo Spirito nel deserto e tentato dal diavolo.
 
Compostella (Messale per la Vita Cristiana): La Quaresima si apre con il racconto delle tentazioni di Gesù. Poste alla soglia del suo ministero pubblico, esse sono in qualche modo l’anticipazione delle numerose contraddizioni che Gesù dovrà subire nel suo itinerario, fino all’ultima violenza della morte. In esse è rivelata l’autenticità dell’umanità di Cristo, che, in completa solidarietà con l’uomo, subisce tutte le tentazioni tramite le quali il Nemico cerca di distoglierlo dalla sua completa sottomissione al Padre. « Cristo tentato dal demonio! Ma in Cristo sei tu che sei tentato» (sant’Agostino).
In esse viene anticipata la vittoria finale di Cristo nella risurrezione. Cristo inaugura un cammino - che è l’itinerario di ogni essere umano - dove nessuno potrà impedire che il disegno di Dio si manifesti per tutti gli uomini: la sua volontà di riscattarlo, cioè di recuperare per l’uomo la sovranità della sua vita in un libero riconoscimento della sua dipendenza da Dio. È nell’obbedienza a Dio che risiede la libertà dell’uomo. L’abbandono nelle mani del Padre - «Io vivo per il Padre» - è la fonte dell’unica e vera libertà, che consiste nel rifiutare di venire trattati in modo diverso da quello che siamo, il potere di Dio la rende possibile.
 
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 4,1-13
 
In quel tempo, Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano ed era guidato dallo Spirito nel deserto, per quaranta giorni, tentato dal diavolo. Non mangiò nulla in quei giorni, ma quando furono terminati, ebbe fame. Allora il diavolo gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ a questa pietra che diventi pane». Gesù gli rispose: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo”». Il diavolo lo condusse in alto, gli mostrò in un istante tutti i regni della terra e gli disse: «Ti darò tutto questo potere e la loro gloria, perché a me è stata data e io la do a chi voglio. Perciò, se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo». Gesù gli rispose: «Sta scritto: “Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”». Lo condusse a Gerusalemme, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù di qui; sta scritto infatti: “Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo affinché essi ti custodiscano”; e anche: “Essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra”». Gesù gli rispose: «È stato detto: “Non metterai alla prova il Signore Dio tuo”». Dopo aver esaurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da lui fino al momento fissato.
 
Parola del Signore.
 
Gesù, guidato dallo Spirito Santo, dimora nel deserto quaranta giorni per essere tentato da satana. Il numero quaranta è considerato il numero degli anni di una generazione, di qui il significato di un periodo lungo e indeterminato. La Sacra Scrittura vi ricorre spesso (cfr. Gen 7,17; Es 24,18; 1Re 19,8; Gn 3,4). La missione di Gesù, iniziata con le tentazioni nel deserto, si conclude con i quaranta giorni che intercorrono tra la sua risurrezione e l’ascensione al cielo (cfr. Atti 1,3). Questi giorni, quelli che intercorrono tra la risurrezione di Gesù e la sua ascensione, servono a preparare la Chiesa, il nuovo popolo di Dio. I quaranta giorni del Risorto fanno nascere la Chiesa, fondandola sulla fede nella risurrezione del suo Fondatore. Per la Bibbia di Gerusalemme, Gesù, sebbene «esente da peccato, ha potuto conoscere seduzioni [cfr. Mt 16,23]; era necessario che egli fosse tentato per divenire nostro capo [cfr. Mt 26,36-46; Eb 2,10.17-18; 4,15; 5,2.7-9]. Anch’egli ha dovuto intravedere un messianismo politico e glorioso, per preferirgli un messianismo spirituale nella sottomissione totale a Dio [cfr. Eb 12,2]».
 
Sta scritto: “Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto” - Giuseppe Barbaglio (Schede Bibliche Pastorali - Vol. I): La fede in un Dio unico e supremo e il culto prestato a lui solo rappresentano la caratteristica più significativa della religione rivelata della Bibbia. Nel cosiddetto decalogo cultuale del c. 34 del libro dell’Esodo, elenco di comandamenti cultuali molto arcaico, troviamo la seguente proibizione: «Tu non devi prostrarti ad altro Dio, perché il Signore si chiama Geloso: egli è un Dio geloso» (v. 14). Jahvé non tollera accanto a sé altre divinità come oggetto di culto. In questo senso Israele ha parlato della sua gelosia.
Nella storia di Elia, il profeta, pieno di zelo per la causa di Jahvé in tempi di sincretismo religioso, viene confortato da Dio con queste parole: «Io mi sono risparmiato in Israele settemila persone, quanti non hanno piegato le ginocchia a Baal e quanti non l’hanno baciato con la bocca» (!Re 19,18).
E ancor prima la tradizione israelitica aveva conservato il ricordo del castigo divino che colpì gli adoratori di Baal-Peor (Nm 25,2ss). Nei racconti agiografici raccolti nel libro di Daniele, i tre giovani fedeli israeliti affermano con forza che non avrebbero mai adorato gli dei del grande Nabucodonosor (Dn 3,18). Anche Gesù, tentato da Satana, respinge il tentatore facendo valere il comandamento divino: «Adora il Signore tuo Dio e a lui solo rendi culto» (Mt 4,10). Più esplicito ancora è il testo parallelo di Luca: «Solo al Signore Dio tuo ti prostrerai, lui solo adorerai» (4,8).
Infine la visione dell’Apocalisse condanna gli adoratori della Bestia, simbolo della potenza dell’impero romano pagano e di ogni potere idolatrico (cf. 13,1ss; 14,9-11; 16,2; 19,20), ed esalta coloro che anche a costo della propria vita hanno rifiutato l’adorazione della Bestia e perciò regneranno mille anni con Cristo (20,4).
 
Papa Francesco (Angelus 10 Marzo 2019): Il Vangelo di questa prima domenica di Quaresima (cfr Lc 4,1-13) narra l’esperienza delle tentazioni di Gesù nel deserto. Dopo aver digiunato per quaranta giorni, Gesù è tentato tre volte dal diavolo. Costui prima lo invita a trasformare una pietra in pane (v. 3); poi gli mostra dall’alto i regni della terra e gli prospetta di diventare un messia potente e glorioso (vv. 5-6); infine lo conduce sul punto più alto del tempio di Gerusalemme e lo invita a buttarsi giù, per manifestare in maniera spettacolare la sua potenza divina (vv. 9-11). Le tre tentazioni indicano tre strade che il mondo sempre propone promettendo grandi successi, tre strade per ingannarci: l’avidità di possesso - avere, avere, avere -, la gloria umana e la strumentalizzazione di Dio. Sono tre strade che ci porteranno alla rovina.
La prima, la strada dell’avidità di possesso. È sempre questa la logica insidiosa del diavolo. Egli parte dal naturale e legittimo bisogno di nutrirsi, di vivere, di realizzarsi, di essere felici, per spingerci a credere che tutto ciò è possibile senza Dio, anzi, persino contro di Lui. Ma Gesù si oppone dicendo: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo”» (v. 4). Ricordando il lungo cammino del popolo eletto attraverso il deserto, Gesù afferma di volersi abbandonare con piena fiducia alla provvidenza del Padre, che sempre si prende cura dei suoi figli.
La seconda tentazione: la strada della gloria umana. Il diavolo dice: «Se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo» (v. 7). Si può perdere ogni dignità personale, ci si lascia corrompere dagli idoli del denaro, del successo e del potere, pur di raggiungere la propria autoaffermazione. E si gusta l’ebbrezza di una gioia vuota che ben presto svanisce. E questo ci porta anche a fare “i pavoni”, la vanità, ma questo svanisce. Per questo Gesù risponde: «Solo al Signore Dio tuo ti prostrerai, lui solo adorerai» (v. 8).
E poi la terza tentazione: strumentalizzare Dio a proprio vantaggio. Al diavolo che, citando le Scritture, lo invita a cercare da Dio un miracolo eclatante, Gesù oppone di nuovo la ferma decisione di rimanere umile, rimanere fiducioso di fronte al Padre: «È stato detto: “Non metterai alla prova il Signore tuo Dio”» (v. 12). E così respinge la tentazione forse più sottile: quella di voler “tirare Dio dalla nostra parte”, chiedendogli grazie che in realtà servono e serviranno a soddisfare il nostro orgoglio.
Sono queste le strade che ci vengono messe davanti, con l’illusione di poter così ottenere il successo e la felicità. Ma, in realtà, esse sono del tutto estranee al modo di agire di Dio; anzi, di fatto ci separano da Dio, perché sono opera di Satana. Gesù, affrontando in prima persona queste prove, vince per tre volte la tentazione per aderire pienamente al progetto del Padre. E ci indica i rimedi: la vita interiore, la fede in Dio, la certezza del suo amore, la certezza che Dio ci ama, che è Padre, e con questa certezza vinceremo ogni tentazione.
Ma c’è una cosa, su cui vorrei attirare l’attenzione, una cosa interessante. Gesù nel rispondere al tentatore non entra in dialogo, ma risponde alle tre sfide soltanto con la Parola di Dio. Questo ci insegna che con il diavolo non si dialoga, non si deve dialogare, soltanto gli si risponde con la Parola di Dio.
Approfittiamo dunque della Quaresima, come di un tempo privilegiato per purificarci, per sperimentare la consolante presenza di Dio nella nostra vita.
La materna intercessione della Vergine Maria, icona di fedeltà a Dio, ci sostenga nel nostro cammino, aiutandoci a rigettare sempre il male e ad accogliere il bene.
 
Ogni atto di Gesù è compiuto per impulso dello Spirito - Isacco di Stella, Sermo 30, 1-2: “Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto” (Mt 4,1), ecc. Il mio Signore, Cristo Gesù, compie tutti i suoi atti ricevendo una direttiva, o una missione, o una chiamata, o un’ingiunzione: non fa nulla da se stesso (cf. Gv 8,28). È una missione che lo porta nel mondo; è una direttiva che lo guida nel deserto; è una chiamata che lo ha risuscitato dai morti, giusta la parola: “Alzati, mia gloria, svegliatevi, arpa e cetra” (Sal 107,3). Ma quando si tratta della Passione egli si affretta spontaneamente e volontariamente, secondo il vaticinio del Profeta: “Si è offerto perché lo ha voluto” (Is 53,7), e tuttavia, anche in quel caso, si fece obbediente al Padre fino alla morte (cf. Fil 2,8). Dottore e modello di obbedienza, non ha minimamente voluto agire o soffrire al di fuori di essa, una via che nella verità conduce alla vita (cf. Gv 14,6)
“Fu dunque condotto dallo Spirito nel deserto”, o come dice un altro evangelista: “Fu spinto dallo Spirito nel deserto” (Lc 4,1). “Tutti” coloro che sono spinti dallo Spirito di Dio sono figli di Dio (cf. Rm 8,14). Ma lui, che è Figlio ad un titolo del tutto speciale e con maggiore dignità, è spinto o condotto nel deserto diversamente dagli altri e con più eccellenza: “Uscì dal Giordano” - è detto - “pieno di Spirito Santo” (Lc 4,1s); e, immediatamente, fu spinto da lui nel deserto. A tutti gli altri lo Spirito viene dato solo in una certa misura (cf. Gv 3,34); ed è in questa stessa misura che essi sono spinti in tutte le loro azioni. Ma egli ha ricevuto la pienezza della divinità, che si è compiaciuta di abitare corporalmente in lui (cf. Col 2,8): per cui, egli è spinto più poderosamente e vigorosamente ad eseguire gli ordini del Padre
 
Il Santo del Giorno - 9 Marzo 2025 - Beato Antonio Zogaj Sacerdote e martire: Anton Zogaj nacque il 26 luglio 1908 a Khtellë in Albania, precisamente nel distretto di Mirdita, ma crebbe nel territorio dell’attuale Kosovo. Studiò al Pontificio Seminario di Scutari e proseguì la formazione in Austria.
Al momento della presa di potere da parte del partito comunista, era parroco della cattedrale di Durazzo e segretario dell’arcivescovo, monsignor Vinçenc Prennushi.
Fu arrestato nel 1945 e, come accaduto anche ad altri, venne torturato quasi a morte. Il suo ultimo desiderio, ossia che almeno i bottoni della sua talare venissero conservati, venne realizzato proprio dal suo vescovo, che era detenuto con lui: riuscì a farli uscire dalla prigione. Il segretario venne quindi fucilato presso il porto romano di Durazzo, in località Spitalla, il 9 marzo 1948.
Compreso nell’elenco dei 38 martiri albanesi capeggiati da monsignor Vinçenc Prennushi, don Anton Zogaj è stato beatificato a Scutari il 5 novembre 2016. Dello stesso gruppo fanno parte altri diciannove sacerdoti diocesani. (Autore: Emilia Flocchini)
 
Ci hai saziati, o Signore, con il pane del cielo
che alimenta la fede,
accresce la speranza e rafforza la carità:
insegnaci ad aver fame di Cristo, pane vivo e vero,
e a nutrirci di ogni parola che esce dalla tua bocca.
Per Cristo nostro Signore.
 
Orazione sul popolo

Scenda, o Signore, sul tuo popolo
l’abbondanza della tua benedizione,
perché cresca la sua speranza nella prova,
sia rafforzato il suo vigore nella tentazione
e gli sia donata la salvezza eterna.
Per Cristo nostro Signore.
 

 8 Marzo 2025
 
Sabato dopo le Ceneri
 
Is 58,9b-14; Salmo Responsoriale Dal Salmo  85 (86); Lc 5,27-32
 
Colletta
Dio onnipotente ed eterno,
guarda con paterna bontà la nostra debolezza,
e stendi la tua mano potente a nostra protezione.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Gesù vide un pubblicano di nome Levi, seduto al banco delle imposte, e gli disse: «Seguimi!». Ed egli, lasciando tutto, si alzò e lo seguì: Benedetto XVI (Udienza Generale, 30 agosto 2006): [...] Gesù accoglie nel gruppo dei suoi intimi un uomo che, secondo le concezioni in voga nell’Israele del tempo, era considerato un pubblico peccatore. Matteo, infatti, non solo maneggiava denaro ritenuto impuro a motivo della sua provenienza da gente estranea al popolo di Dio, ma collaborava anche con un’autorità straniera odiosamente avida, i cui tributi potevano essere determinati anche in modo arbitrario. Per questi motivi, più di una volta i Vangeli parlano unitariamente di “pubblicani e peccatori” (Mt 9,10; Lc 15,1), di “pubblicani e prostitute” (Mt 21,31).
Inoltre essi vedono nei pubblicani un esempio di grettezza (cfr. Mt 5,46: amano solo coloro che li amano) e menzionano uno di loro, Zaccheo, come “capo dei pubblicani e ricco” (Lc 19,2), mentre l’opinione popolare li associava a “ladri, ingiusti, adulteri” (Lc 18,11). Un primo dato salta all’occhio sulla base di questi accenni: Gesù non esclude nessuno dalla propria amicizia. Anzi, proprio mentre si trova a tavola in casa di Matteo-Levi, in risposta a chi esprimeva scandalo per il fatto che egli frequentava compagnie poco raccomandabili, pronuncia l’importante dichiarazione: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati: non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori” (Mc 2,17). Il buon annuncio del Vangelo consiste proprio in questo: nell’offerta della grazia di Dio al peccatore!
 
Prima Lettura: Il profeta Isaia ci fa conoscere quali opere sono veramente gradite a Dio. La carità deve animare ogni opera penitenziale e deve essere il suo fine: dobbiamo amare i nostri fratelli compiendo sinceri atti di giustizia e di carità; e dobbiamo amare Dio, rendendogli l’onore e la gloria, con il rispetto anche e sopra tutto accogliendo con gioia la sua paternità amorevole mettendo tutto nelle sue mani.
 
Vangelo
Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori perché si convertano.
 
Gesù è venuto a portare salvezza: la sua salvezza è per tutti. E a sottolinearlo è la chiamata di Matteo-Levi unanimemente considerato un peccatore pubblico. Chi si crede a posto con Dio, chi pone sicurezza e vanto nelle sue opere, rischia di diventare sordo e non udire la voce di Dio che lo chiama a salvezza.
 
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 5,27-32
 
In quel tempo, Gesù vide un pubblicano di nome Levi, seduto al banco delle imposte, e gli disse: «Seguimi!».
Ed egli, lasciando tutto, si alzò e lo seguì.
Poi Levi gli preparò un grande banchetto nella sua casa.
C’era una folla numerosa di pubblicani e d’altra gente, che erano con loro a tavola.
I farisei e i loro scribi mormoravano e dicevano ai suoi discepoli: «Come mai mangiate e bevete insieme ai pubblicani e ai peccatori?».
Gesù rispose loro: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori perché si convertano».
 
Parola del Signore.
 
Lo scandalo - Richard Gutzwiller (Meditazioni su Luca): I farisei hanno una triplice occasione per scandalizzarsi di Gesù. Egli infatti chiama un pubblicano alla sua sequela, a seguirlo particolarmente da vicino. Quindi: scelta e missione.
Questo pubblicano, però, a motivo del suo ufficio, è immerso nel denaro e di conseguenza ha scarsa sensibilità spirituale e religiosa. È poi quasi necessitato ad ingannare gli altri perché gli torni il conto e possa farvi il guadagno necessario. Ed infine è costretto ad avere rapporto con i non giudei; è esposto quindi al pericolo del contagio antireligioso o pagano. In tutte le occoccasioni è continuamente esposto a contrarre impurità legali, venendo in stretto contatto con persone estranee alla legge. Come può scegliiere un tale uomo?
C’è poi una seconda occasione. Questo pubblicano per manifestare la gioia di essere stato chiamato e per congedarsi dagli amici, imbandisce un gran banchetto. La sua casa è piena la di colleghi. Gesù e i discepoli stanno in mezzo a questi pubblicani e peccatori, seggono con loro a tavola, chiacchierano e banchettano con loro con perfetta tranquillità. Come può un maestro religioso d’Israele osare una cosa del genere?
A questo rimprovero in apparenza giusto, Gesù, lungi dallo scolpare se stesso e i discepoli, rileva invece che Egli è venuto a chiamare i peccatori e non i giusti. Questo contraddice in pieno alla mentalità farisaica.
I farisei si considerano come dei segregati, perché vogliono vivere una vita particolarmente austera. Vogliono essere santi, senza avere nulla che fare con i non santi. Per delicatezza di coscienza, schivano ogni contatto con quelli che non prendono sul serio la legge. Essi sono radicali che non ammettono nessun compromesso; tanto così integralisti che non hanno nulla che fare con le mezze misure.
Di conseguenza pensano che se Gesù prende sul serio la santità debba chiamare di preferenza loro, che sono santi, e non i pubblicani, che sono empi. Si comprende il loro scandalo. Non si può infrangere con semplicità ogni barriera ed entrare in relazione con questa «canaglia», Rabbi Hillel ha scritto: «Non c’è nessun uomo di scarsa cultura che tema il peccato, nessun uomo del popolo che sia pio».In Giovanni (7,49), un fariseo parla di «gente maledetta che non comprende la legge». Ora è proprio con questa canaglia, con questa plebaglia che si intrattengono i discepoli di Gesù e il Maestro stesso.
Per la difesa della vera pietà e per il rispetto alla santità non ci si può allontanare da questa scena che con sdegno. Così pensano i farisei.
 
Come mai mangiate e bevete insieme ai pubblicani e ai peccatori? - Javer Pikaza (Commento della Bibbia Liturgica): Mangiare insieme era in quel tempo, il segno più profondo e più prezioso di amicizia c di comunione non solo a livello semplicemente umano, ma anche sul piano religioso. Perciò i giudei evitavano, nei conviti, il contatto con i membri peccatori del loro popolo. Gesù tenne un comportamento. diverso: non solo chiamò Levi, il pubblicano, non solo offrì il perdono a quelli che erano i peccatori di allora, ma li accolse nella sua amicizia e sedette a tavola con loro. Per quanto il suo atteggiamento ci sembri umano, per quanto il suo gesto possa essere considerato misericordioso, agli occhi d’Israele fu motivo di scandalo. Gesù si è messo al posto di Dio, portando il segno della sua grazia e della sua comunione agli uomini perduti, ai colpevoli di questa terra.
Ricordiamo che questi banchetti con i peccatori sono un segno e un’anticipazione della festa del banchetto pieno (il regno); in essi si è resa visibile la nota peculiare del messaggio di Gesù, cioè l’offerta del perdono e l’inaugurazione d’un nuovo tipo di relazioni con Dio e col prossimo («sono venuto a chiamare i peccatori»). Per tutto questo, i giudei che hanno portato Gesù fino al Calvario accusandolo di bestemmia (rompere l’ordine stabilito da Dio sulla terra), lo hanno compreso meglio di coloro che, nel suo messaggio, hanno visto solo una specie di bontà universale e di affetto sentimentale fra gli uomini.
Ricordiamo, in fine, che tutto il testo è formulato in una prospettiva ecclesiale: i giudei accusano i discepoli di Gesù, cioè i cristiani, di mangiare con i pubblicani e con i peccatori. Questo significa che l’atteggiamento di Gesù è continuato nella Chiesa e si è trasformato, per essa, in segno di novità e di grazia. Io mi chiederei semplicemente: Si può rivolgere quella vecchia accusa ai cristiani di oggi? I cristiani sono caratterizzati dal fatto che rompono tutte le barriere creando fraternità e comunione (mangiando) con gli uomini più dimenticati della terra? Più ancora, si potrebbe lanciare quella vecchia accusa a ciascuno di noi? Forse Gesù non ha bisogno di difenderci come difendeva i suoi primi discepoli (5.31), perché abbiamo preferito abbandonare la sua via.
 
Gesù ed i peccatori - Stanistals Lyonnet (Dizionario di Teologia Biblica): a) Fin dall’inizio della catechesi sinottica vediamo Gesù in mezzo ai peccatori. Egli infatti è venuto per essi, non per i giusti (Mc 2,17). Servendosi del vocabolario giudaico dell’epoca, egli annunzia loro che i loro peccati sono «rimessi ». Non già che, assimilando in tal modo il peccato ad un «debito», anzi, usandone talvolta il termine (Mt 6,12; 18,23 ss), egli intenda suggerire che esso poteva essere perdonato con un atto di Dio che non avrebbe richiesto la trasformazione dello spirito e del cuore dell’uomo. Al pari dei profeti e di Giovanni Battista (Mc 1,4), Gesù predica la conversione, un mutamento radicale dello spirito che ponga l’uomo nella disposizione di accogliere il favore divino, di lasciarsi manovrare da Dio: «Il regno di Dio è vicino: pentitevi e credete alla buona novella» (Mc 1,15). Per contro, dinanzi a chi rifiuta la luce (Mc 3,29 par.) o immagina di non aver bisogno di perdono, come il fariseo della parabola (Lc 18,9ss), Gesù rimane impotente.
b) Perciò, come già i profeti, egli denunzia il peccato dovunque si trovi, anche in coloro che si credono giusti perché osservano le prescrizioni di una legge esterna. Infatti il peccato è dentro il cuore, donde «escono i disegni perversi: fornicazioni, furti, omicidi, adulteri, cupidigie, malvagità, frodi, lascivia, invidia, diffamazione, orgoglio, stoltezza; sono tutte queste cose cattive che escono dal di dentro e contaminano l’uomo» (Mc 7,21ss par.). E questo perché egli è venuto «a portare a compimento la legge» nella sua pienezza, ben lungi dall’abolirla (Mt 5,17); il discepolo di Gesù non può accontentarsi della «giustizia degli scribi e dei farisei» (5,20); senza dubbio la giustizia di Gesù si riduce in definitiva al solo precetto dell’amore (7,12); ma il discepolo, vedendo agire il suo maestro, conoscerà a poco a poco quel che significhi «amare» e correlativamente ciò che è il peccato, rifiuto d’amore.
c) Lo conoscerà specialmente sentendo Gesù che gli rivela l’inconcepibile misericordia di Dio per il peccatore.
Pochi passi del NT meglio della parabola del figliuol prodigo o piuttosto del padre misericordioso (Lc 15,11ss), cosi vicina d’altronde all’insegnamento profetico, manifestano in qual senso il peccato è un’offesa di Dio e quanto sarebbe assurdo concepire un perdono di Dio che non comportasse il ritorno del peccatore.
Al di là dell’atto di disobbedienza che si può supporre - benché il solo fratello maggiore vi faccia allusione per opporlo alla sua propria obbedienza (v. 29 s) -, ciò che ha «contristato» il padre è la partenza del figlio suo, la volontà di non essere più figlio, di non più permettere al padre di amarlo efficacemente: ha «offeso» il padre privandolo della sua presenza di figlio. Come potrebbe «riparare» questa offesa se non col suo ritorno, accettando nuovamente di essere trattato come un figlio? Perciò la parabola sottolinea la gioia del padre. Escluso un simile ritorno, non si potrebbe concepire alcun perdono; o meglio, il padre aveva perdonato da sempre; ma il perdono non raggiunge efficacemente il peccato del figlio se non nel ritorno e mediante il ritorno di questi.
 
Il Medico delle nostre passioni: “Questo nuovo antidoto l’ha procurato un nuovo Maestro. Non è germogliato dal terreno; infatti, nessuna creatura aveva potuto prevedere come sarebbe stato preparato. Venite, voi tutti che siete incorsi nelle contrastanti passioni dei peccati, adoperate questo antidoto venuto da lontano, col quale si espelle il veleno del serpente, e che non solo fece sparire la piaga delle passioni, ma estirpò anche la causa della terribile ferita... Ascoltatemi, uomini fatti di terra, che nutrite ebbri pensieri con i vostri peccati. Anch’io, come Levi, ero piagato dalle vostre stesse passioni. Ho trovato un Medico, il quale abita in Cielo e diffonde sulla terra la sua medicina. Lui solo può risanare le mie ferite, perché non ne ha di proprie. Lui solo può cancellare il dolore del cuore, il pallore dell’anima, perché conosce i mali nascosti” (Ambrogio, In Luc., 5,19.27).
 
Il Santo del giorno - 8 Marzo 2025 - San Giovanni di Dio, Religioso e Fondatore: Nato a Montemoro-Novo, poco lontano da Lisbona, nel 1495, Giovanni di Dio - allora Giovanni Ciudad - trasferitosi in Spagna, vive una vita di avventure, passando dalla pericolosa carriera militare alla vendita di libri. Ricoverato nell’ospedale di Granada per presunti disturbi mentali legati alle manifestazioni “eccessive” di fede, incontra la drammatica realtà dei malati, abbandonati a se stessi ed emarginati e decide così di consacrare la sua vita al servizio degli infermi. Fonda il suo primo ospedale a Granada nel 1539. Muore l’8 marzo del 1550. Nel 1630 viene dichiarato Beato da Papa Urbano VII, nel 1690 è canonizzato da Papa Alessandro VIII. Tra la fine del 1800 e gli inizi del 1900 viene proclamato Patrono degli ammalati, degli ospedali, degli infermieri e delle loro associazioni e, infine, patrono di Granada. (Avvenire)
 
O Signore, che ci hai nutriti alla tua mensa,
fa’ che il sacramento celebrato in questa vita
sia per noi pegno di salvezza eterna.
Per Cristo nostro Signore.
 
7 Marzo 2025
 
Venerdì dopo le Ceneri
 
Is 58,1-9a; Salmo Responsoriale Dal Salmo 50 (51); Mt 9,14-15
 
Colletta
Accompagna con la tua benevolenza,
Padre misericordioso,
i primi passi del nostro cammino penitenziale,
perché all’osservanza esteriore
corrisponda un profondo rinnovamento dello spirito.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Perché noi e i farisei digiuniamo molte volte, mentre i tuoi discepoli non digiunano? - Giovanni Paolo II (Udienza Generale, 21 Marzo 1979): Perché il digiuno? A questa domanda bisogna dare una risposta più ampia e profonda, perché diventi chiaro il rapporto tra il digiuno e la “metànoia”, cioè quella trasformazione spirituale, che avvicina l’uomo a Dio. Cercheremo quindi di concentrarci non soltanto sulla pratica dell’astensione dal cibo o dalle bevande – ciò infatti significa “il digiuno” nel senso comune – ma sul significato più profondo di questa pratica che, del resto, può e deve alle volte essere “sostituita” da qualche altra. Il cibo e le bevande sono indispensabili all’uomo per vivere, egli se ne serve e deve servirsene, tuttavia non gli è lecito abusarne sotto qualsiasi forma. La tradizionale astensione dal cibo e dalle bevande ha come fine di introdurre nell’esistenza dell’uomo non soltanto l’equilibrio necessario, ma anche il distacco da quello che si potrebbe definire “atteggiamento consumistico”. Tale atteggiamento è divenuto nei nostri tempi una delle caratteristiche della civiltà e in particolare della civiltà occidentale. L’atteggiamento consumistico! L’uomo orientato verso i beni materiali, molteplici beni materiali, molto spesso ne abusa. Non si tratta qui unicamente del cibo e delle bevande. Quando l’uomo è orientato esclusivamente verso il possesso e l’uso di beni materiali, cioè delle cose, allora anche tutta la civiltà viene misurata secondo la quantità e la qualità delle cose che è in grado di fornire all’uomo, e non si misura con il metro adeguato all’uomo. Questa civilizzazione infatti fornisce i beni materiali non soltanto perché servano all’uomo a svolgere le attività creative e utili, ma sempre di più... per soddisfare i sensi, l’eccitazione che ne deriva, il piacere momentaneo, una sempre maggiore molteplicità di sensazioni. Alle volte si sente dire che l’incremento eccessivo dei mezzi audio-visivi nei paesi ricchi non sempre giova allo sviluppo dell’intelligenza, particolarmente nei bambini; al contrario, talvolta contribuisce a frenarne lo sviluppo. Il bambino vive solo di sensazioni, cerca delle sensazioni sempre nuove... E diventa così, senza rendersene conto, schiavo di questa passione odierna. Saziandosi di sensazioni, rimane spesso intellettualmente passivo; l’intelletto non si apre alla ricerca della verità; la volontà resta vincolata dall’abitudine, alla quale non sa opporsi. Da ciò risulta che l’uomo contemporaneo deve digiunare, cioè astenersi non soltanto dal cibo o dalle bevande, ma da molti altri mezzi di consumo, di stimolazione, di soddisfazione dei sensi. Digiunare significa astenersi, rinunciare a qualcosa.  
 
I Lettura: Il digiuno era prescritto dalla legge solo per la festa dell’espiazione (Lv 23,26-32), ma in certe epoche si sono moltiplicati i giorni di digiuno, sia per commemorare anniversari di lutto (Zc 7,1-5, Zc 8,18-19), sia per implorare la misericordia divina (Ger 36,6, Ger 36,9, Gn 3,5; cf. 1Re 21,9, 1Re 21,12).
L’oracolo di Isaia (58,1-12) reclama una interiorizzazione delle pratiche religiose secondo lo spirito dei grandi profeti (cf. Is 1,10, Am 5,21).
I versetti 5-7, È forse come questo il digiuno che bramo, il giorno in cui l’uomo si mortifica? Piegare come un giunco il proprio capo, usare sacco e cenere per letto, forse questo vorresti chiamare digiuno e giorno gradito al Signore? Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo? Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza trascurare i tuoi parenti?, costituiscono il centro dell’oracolo.
Con questo oracolo, il profeta Isaia spazza via ogni falsa interpretazione del culto da prestare a Dio. Esso non è la somma asfissiante di cerimonie, ma l’esercizio concreto della carità e della misericordia verso i fratelli più bisognosi. Il culto è sincero se rende il fedele attento alla presenza dell’altro, altrimenti è sterile ritualismo. Lo stesso insegnamento è presente nel Nuovo Testamento. Quando verrà Cristo a giudicare i vivi e i morti, il giudizio verterà appunto sulla carità: “Venite [...] ricevete in eredità il regno preparato per voi [...]. Perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi” (Mt 25,34-36).
 
Vangelo
 
I farisei e i discepoli di Giovanni digiunavano per affrettare la venuta del Messia e per disporsi ad accoglierlo. I discepoli di Gesù sono convinti che il Messia è già con loro: è il tempo della festa, della gioia, non del digiuno. Gli invitati a nozze non possono essere in lutto finché lo sposo è con loro, digiuneranno quando lo Sposo sarà tolto: una chiara allusione alla croce, solo allora verrà il tempo del distacco, della passione e della prova, e si digiunerà. Ma sarà un digiuno diverso.
 
Dal Vangelo secondo Matteo
Mt 9,14-15
 
In quel tempo, si avvicinarono a Gesù i discepoli di Giovanni e gli dissero: «Perché noi e i farisei digiuniamo molte volte, mentre i tuoi discepoli non digiunano?».
E Gesù disse loro: «Possono forse gli invitati a nozze essere in lutto finché lo sposo è con loro? Ma verranno giorni quando lo sposo sarà loro tolto, e allora digiuneranno».
 
Parola del Signore.
 
Possono forse gli invitati a nozze essere in lutto finché lo sposo è con loro? - Ortensio Da Spinetoli (Matteo): Come è impossibile astenersi dal cibo durante un banchetto, è difficile far digiunare i discepoli quando Gesù, sposo messianico, è ancora in mezzo a essi. I discepoli esprimeranno il loro dolore, inizieranno cioè un regime penitenziale, quando Cristo non sarà più con loro. Il digiuno diventerà come il segno del lutto che li verrà a colpire. In questa interpretazione, piuttosto parabolica, l’attenzione di Gesù rimane accentrata al digiuno materiale, cui viene data una giustificazione cristiana.
Gli annunci veterotestamentari vedono nel banchetto l’immagine dell’era messianica. Gesù assiso a tavola con i suoi amici annuncia ufficialmente l’apertura dell’era della salvezza. La sua venuta nel mondo ha posto fine alla lunga attesa e ha dato il via alle realizzazioni salutari. L’immagine dello sposo non solo serve a stringere i rapporti tra Gesù e gli uomini che egli associa a sé, ma più ancora con Jahve, lo sposo per antonomasia del popolo eletto. Gesù ne prende il posto sottolineando i rapporti intimi che lo legano all’umanità. Il raffronto tra Gesù e il Battista, vivo nei circoli giovannei, cade irreparabilmente con quest’ultima identificazione.
Gesù rivendica le sue attribuzioni, ma non manca contemporaneamente di annunciare il suo futuro destino. Nei conviti nuziali è la partenza degli ospiti che chiude la festa; qui è lo sposo che lascia improvvisamente gli amici. Anzi è tolto loro di forza. Questa anomalia fa prevedere la tragica sorte che attende il salvatore.
 
Dio ha amato Israele con un amore che travalica il sentimento umano facendosi provvidenza, misericordia, perdono. Dio celebrerà con il popolo di Israele nuovi ed eterni sponsali, dimenticando in questo modo il suo passato, gravido di peccati e infedeltà: «Come un giovane sposa una vergine, così ti sposerà il tuo architetto; come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te» (Is 62,5). Ciò che Dio darà a Israele, in queste nuove nozze, non saranno «più i beni materiali dell’antica alleanza [Os 2,10], ma le disposizioni interiori richieste affinché il popolo sia d’ora innanzi fedele all’alleanza. Qui abbiamo già in germe quanto sarà sviluppato da Geremia e da Ezechiele: la nuova ed eterna alleanza, la legge iscritta nel cuore, il cuore nuovo e lo Spirito nuovo [Ger 31,31-34; Ez 36,26-27]» (Bibbia di Gerusalemme).
Gesù si approprierà di questa immagine (Mt 9,15; 22,1ss; 25,1ss;) e sarà ripresa dall’apostolo Paolo nelle sue lettere (Ef 5,22; 2Cor 11,2). Il libro dell’Apocalisse si chiude con la visione del fidanzamento dell’Agnello con la sua Sposa, la nuova Gerusalemme celeste: «Vidi la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo» (Ap 21,2).
Le nozze tra l’Agnello e la Chiesa saranno celebrate alla fine dei tempi. Infatti, la Chiesa, «nel suo pellegrinare terreno, è solo la “promessa” dell’agnello: ogni tentativo, da parte della Chiesa, di vestire l’abito nuziale prima del tempo, è sacrilego. Infatti il “vestito nuziale” sta ad indicare che si celebrano le nozze. Quindi ogni volta che nel corso della storia la Chiesa veste un abito nuziale, cioè abbandona la sua condizione umile e di servizio, cerca di celebrare le nozze. E siccome l’agnello è uno sposo fedele, la Chiesa farebbe solo esperienze “prematrimoniali” con altri amanti. Si tratterebbe d’un adulterio flagrante. La fedeltà all’agnello esige la fuga della Chiesa da tutti gli amanti che la corteggiano» (José Maria González-Ruiz).

Possono forse gli invitati a nozze essere in lutto finché lo sposo è con loro - Lettera alle Famiglie 18: Parlando un giorno con i discepoli di Giovanni, Gesù accennò ad un invito a nozze e alla presenza dello sposo tra gli invitati: “Lo sposo è con loro” (Mt 9,15). Additava così il compimento nella sua persona dell’immagine di Dio-sposo, utilizzata già nell’Antico Testamento, per rivelare pienamente il mistero di Dio come mistero di Amore. Qualificandosi come “sposo”, Gesù svela dunque l’essenza di Dio e conferma il suo amore immenso per l’uomo. Ma la scelta di questa immagine getta indirettamente luce anche sulla verità profonda dell’amore sponsale. Usandola infatti per parlare di Dio, Gesù mostra quanta paternità e quanto amore di Dio si riflettano nell’amore di un uomo e di una donna che si uniscono in matrimonio. Per questo, all’inizio della sua missione, Gesù è a Cana di Galilea, per partecipare ad un banchetto di nozze, insieme con Maria e con i primi discepoli (cf. Gv 2,1-11). Egli intende così dimostrare quanto la verità della famiglia sia inscritta nella Rivelazione di Dio e nella storia della salvezza. Nell’Antico Testamento, e specialmente nei Profeti, si incontrano parole molto belle sull’amore di Dio: un amore premuroso come quello di una madre verso il suo bambino, tenero come quello dello sposo per la sposa, ma al tempo stesso altrettanto vivacemente geloso; non è anzitutto un amore che punisce, ma che perdona; un amore che si china verso l’uomo come fa il padre verso il figlio prodigo, lo solleva e lo rende partecipe della vita divina. Un amore che stupisce: una novità sconosciuta sino ad allora in tutto il mondo pagano.
19 Lo Sposo è, dunque, lo stesso Dio che si è fatto uomo. Nell’Antica Alleanza, Jahvè si presenta come lo Sposo di Israele, popolo eletto: uno Sposo tenero ed esigente, geloso e fedele. Tutti i tradimenti, le diserzioni e le idolatrie di Israele, descritte dai Profeti in modo drammatico e suggestivo, non riescono a spegnere l’amore con cui il Dio-Sposo « ama sino alla fine » (cfr Gv 13,1).
La conferma e il compimento della comunione sponsale tra Dio e il suo popolo si hanno in Cristo, nella Nuova Alleanza. Cristo ci assicura che lo Sposo è con noi (cfr Mt 9,15). È con noi tutti, è con la Chiesa. La Chiesa diventa sposa: sposa di Cristo. Questa sposa, di cui parla la Lettera agli Efesini, si fa presente in ogni battezzato ed è come una persona che si offre allo sguardo del suo Sposo: « Ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, (...) al fine di farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata » (Ef 5,25-27). L’amore, con cui lo Sposo «ha amato sino alla fine» la Chiesa, fa sì che essa sia sempre nuovamente santa nei suoi santi, anche se non cessa di essere una Chiesa di peccatori. Anche i peccatori, «i pubblicani e le prostitute», sono chiamati alla santità, come attesta Cristo stesso nel Vangelo (cfr Mt 21,31). Tutti sono chiamati a diventare Chiesa gloriosa, santa ed immacolata. « Siate santi - dice il Signore - perché io sono santo» (Lv 11,44; cfr 1Pt 1,16).
 
Il digiuno - Alcuni settori di particolare attenzione - Nota Pastorale CEI (n. 6 - 21 Ottobre 1994) n. 11: Il senso cristiano del digiuno e dell’astinenza spingerà i credenti non solo a coltivare una più grande sobrietà di vita, ma anche ad attuare un più lucido e coraggioso discernimento nei confronti delle scelte da fare in alcuni settori della vita di oggi: lo esige la fedeltà agli impegni del Battesimo. Ricordiamo, a titolo di esempio, alcuni comportamenti che possono facilmente rendere tutti, in qualche modo, schiavi del superfluo e persino complici dell’ingiustizia: - il consumo alimentare senza una giusta regola, accompagnato a volte da un intollerabile spreco di risorse; - l’uso eccessivo di bevande alcooliche e di fumo; - la ricerca incessante di cose superflue, accettando acriticamente ogni moda e ogni sollecitazione della pubblicità commerciale; - le spese abnormi che talvolta accompagnano le feste popolari e persino alcune ricorrenze religiose; - la ricerca smodata di forme di divertimento che non servono al necessario recupero psicologico e fisico, ma sono fini a se stesse e conducono ad evadere dalla realtà e dalle proprie responsabilità; - l’occupazione frenetica, che non lascia spazio al silenzio, alla riflessione e alla preghiera; - il ricorso esagerato alla televisione e agli altri mezzi di comunicazione, che può creare dipendenza, ostacolare la riflessione personale e impedisce il dialogo in famiglia. I cristiani sono chiamati dalla grazia di Cristo a comportarsi “come i figli della luce” e quindi a non partecipare “alle opere infruttuose delle tenebre” (Ef 5,8.11). Così, praticando un giusto "digiuno" in questi e in altri settori della vita personale e sociale, i cristiani non solo si fanno solidali con quanti, anche non cristiani, tengono in grande considerazione la sobrietà di vita come componente essenziale dell’esistenza morale, ma anche offrono una preziosa testimonianza di fede circa i veri valori della vita umana, favorendo la nostalgia e la ricerca di quella spiritualità di cui ogni persona ha grande bisogno.
 
Digiuno incompleto - Girolamo, Epist., 22, 37: Se digiuni due giorni, non ti credere per questo migliore di chi non ha digiunato. Tu digiuni e magari t’arrabbi; un altro mangia, ma forse pratica la dolcezza; tu sfoghi la tensione dello spirito e la fame dello stomaco altercando; lui, al contrario, si nutre con moderazione e rende grazie a Dio. Perciò Isaia esclama ogni giorno: Non è questo il digiuno che io ho scelto, dice il Signore (Is 58,5), e ancora: “Nei giorni di digiuno si scoprono le vostre pretese; voi tormentate i dipendenti, digiunate fra processi e litigi, e prendete a pugni il debole: che vi serve digiunare in mio onore?” (Is 58,3-4). Che razza di digiuno vuoi che sia quello che lascia persistere immutata l’ira, non dico un’intera notte, ma un intero ciclo lunare e di più? Quando rifletti su te stessa, non fondare la tua gloria sulla caduta altrui, ma sul valore stesso della tua azione.
 
Il Santo del Giorno - 7 Marzo 2025 - Perpetua e Felicita. Quell’antico coraggio, profezia per l’oggi: «Fummo condotti in carcere, ed ero spaventata, perché non avevo mai avuto a che fare con una simile oscurità. Un giorno sinistro. Calore intenso a causa dell’affollamento, estorsioni da parte dei soldati. A tormentarmi era però la preoccupazione per la sorte del mio bambino»: con queste parole la giovane Tibia Perpetua, martire del III secolo, ci descrive la terribile esperienza della prigionia. Il suo diario – contenuto nella Passione di Perpetua e Felicita, opera di Tertulliano – è un documento straordinario e prezioso che ci racconta la vicenda di una giovane donna di buona famiglia, arrestata nel 203 all’età di 22 anni circa, al tempo dell’imperatore Settimio Severo, a Cartagine a causa della sua fede e poi condannata a essere sbranata dalle belve assieme a un gruppo di cristiani. Perpetua è una madre di un piccolo che ancora allatta e con gli occhi di donna racconta quelle sofferenze, condivise con la più giovane Felicita, figlia di suoi servi, che è incinta. Con loro ci sono anche Saturnino, Revocato e Secondulo che non sono ancora stati battezzati e il martirio diventerà il loro Battesimo. «Capii che non dovevo combattere con le fiere, ma contro il demonio – scrive santa Perpetua nel suo diario –. Però sapevo che mia sarebbe stata la vittoria». Una vittoria che è per i cristiani di tutti i tempi, specie quelli perseguitati, un vero incoraggiamento. (Avvenire)
 
Dio misericordioso,
il tuo popolo ti renda continuamente grazie
per le tue grandi opere,
e ripercorra nel suo pellegrinaggio le vie della penitenza,
per giungere alla contemplazione del tuo volto.
Per Cristo nostro Signore.
 
 
 
 
 
6 Marzo 2025
 
Giovedì dopo le Ceneri
 
Dt 30,15-20; Salmo responsoriale Dal Salmo 1; Lc 9,22-25
 
Colletta
Ispira le nostre azioni, o Signore,
e accompagnale con il tuo aiuto,
perché ogni nostra attività
abbia sempre da te il suo inizio
e in te il suo compimento.
Per il nostro Signore Gesù Cristo
 
Papa Francesco (Angelus, 30 agosto 2020): «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce e mi segua» (v. 24). In questo modo Egli indica la via del vero discepolo, mostrando due atteggiamenti. Il primo è «rinunciare a sé stessi», che non significa un cambiamento superficiale, ma una conversione, un capovolgimento di mentalità e di valori. L’altro atteggiamento è quello di prendere la propria croce. Non si tratta solo di sopportare con pazienza le tribolazioni quotidiane, ma di portare con fede e responsabilità quella parte di fatica, quella parte di sofferenza che la lotta contro il male comporta. La vita dei cristiani è sempre una lotta. Lottare contro il Male. Così l’impegno di “prendere la croce” diventa partecipazione con Cristo alla salvezza del mondo. Pensando a questo, facciamo in modo che la croce appesa alla parete di casa, o quella piccola che portiamo al collo, sia segno del nostro desiderio di unirci a Cristo nel servire con amore i fratelli, specialmente i più piccoli e fragili. La croce è segno santo dell’Amore di Dio, è segno del Sacrificio di Gesù, e non va ridotta a oggetto scaramantico oppure a monile ornamentale. Di conseguenza, se vogliamo essere suoi discepoli, siamo chiamati a imitarlo, spendendo senza riserve la nostra vita per amore di Dio e del prossimo.
 
I Lettura: La Bibbia di Navarra: Il finale del discorso rivolge questo solenne e commosso appello a Israele, mettendolo davanti alle proprie responsabilità: è pienamente libero di scegliere tra il bene e il male; ma dalla fedeltà o dalla infedeltà dipenderanno le benedizioni del Signore o i suoi castighi.
L’esortazione conclusiva (vv. 19-20) è particolarmente toccante: «Scegli dunque la vita», vivendo nell’ amore per il Signore, «perché è Lui la tua vita». Nel Nuovo Testamento vi sono passi in cui risuonano le medesime parole: «Io sono la Vita», dirà il Signore (Gv 14,6); e san Paolo: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20); «Per me il vivere è Cristo» (Fil 1,21).
Si tenga presente che, all’inizio del v. 16, la Neovolgata (come peraltro la versione della Cei) ha seguito il teste più ampio della traduzione greca dei Settanta. Nel testo ebraico non si rinvengono le parole: «… di osservare i suoi comandi», che tuttavia sottolineano il contrasto con quanto si dirà al v. 17.
 
Vangelo
Chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà.
 
Chi vuole salvare la propria vita, la perderà... Gesù deve soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso per giungere alla risurrezione. Il discepolo di Cristo non può pensare di percorrere un cammino diverso. Anche lui, come il suo Maestro, deve portare ogni giorno la sua croce, continuando in sé il martirio e la passione del Signore: “Ora io sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Col 2,24).
 
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 9,22-25
 
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Il Figlio dell’uomo deve soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e risorgere il terzo giorno».
Poi, a tutti, diceva: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà. Infatti, quale vantaggio ha un uomo che guadagna il mondo intero, ma perde o rovina se stesso?».
Parola del Signore.
 
Benedetto Prete: 22 Il figlio dell’uomo deve soffrire molto; per la profezia della passione … Luca si attiene a Marco … Luca scrive «al terzo giorno», correggendo così l’espressione di Marco «dopo tre giorni» che sembra essere la primitiva e che dipende da Giona, 2, 1. Su questa predizione del destino doloroso riservato al Messia, l’evangelista ritornerà più volte in seguito (cf. Lc., 9, 44; 12, 50; 17, 25; 18, 31-33) per dar rilievo al significato che hanno la passione e morte di Gesù nell’economia divina; cf. Lc., 24, 7, 25-27. Dopo questa predizione i primi due Sinottici riferiscono il duro rimprovero che il Maestro indirizza a Pietro, il quale, nel suo zelo intemperante, desiderava allontanare da lui il penoso ed umiliante destino della passione (cf. Mt., 16, 22-23; Mc., 8, 32-33). Luca omette questo episodio, poiché egli, per il suo carattere dolce ed umano, tratta con rispetto i discepoli di Gesù passando sotto silenzio le parole severe rivolte ad essi.
23 Poi disse a tutti; la pericope, comune ai tre Sinottici (si veda il commento ai testi di Mt., 16, 24-27 e di Mc., 8, 34-38), è introdotta da Luca con una espressione con la quale dichiara che il suo contenuto interessa «tutti» (contrariamente a Matteo che scrive: «disse ai discepoli»; Marco invece abbina «la folla con i... discepoli»). Per l’evangelista non vi è dubbio che gli ammonimenti riferiti nel presente passo interessano indistintamente tutti. La sua formula, come quella di Marco, riflettono chiaramente la convinzione della primitiva comunità cristiana per la quale il seguire Gesù implicava per tutti, e non già per il ristretto numero dei discepoli, l’imitazione della vita del Maestro, anche nei suoi aspetti più dolorosi. Due sono i doveri di chi vuol seguire Gesù; rinunzi a se stesso, cioè: non pensi a sé, né ai suoi particolari interessi, bensì guardi a colui che intende seguire, e prenda... la sua croce (il verbo greco ἀγάτω può avere anche un senso più forte e realistico e, conseguentemente, va tradotto con: «si carichi della sua croce»). L’espressione è molto ardita anche per i discepoli; infatti la profezia della passione, riportata nel vers. precedente, non accennava alla crocifissione; la croce tuttavia era un’immagine nota ai discepoli, perché questo supplizio veniva inflitto dall’autorità romana soprattutto contro i sudditi ribelli. Luca inserisce nella frase l’espressione «ogni giorno»; tale determinazione accentua il senso spirituale dell’ammonimento ed in pari tempo illustra la portata di esso. La prontezza al sacrificio e l’intera dedizione della vita costituiscono un dovere abituale di ogni giorno, non già rappresentano un atteggiamento eccezionale per qualche circostanza particolarmente difficile. Mi segua; l’espressione riprende il concetto già indicato all’inizio della frase («chi vuol venire dietro a me»), perciò non designa una terza condizione per essere discepoli di Gesù.
24 Per me, oppure: per causa mia; la precisazione è determinante per il senso dell’intero vers. che compie l’idea espressa antecedentemente; lo spirito di rinunzia si deve spingere fino al sacrificio della vita per Cristo. Luca omette l’aggiunta di Marco: «(...per causa mia) e del vangelo», poiché la considera come una spiegazione.
25 Se poi si perde o danneggia se stesso; non sembra che l’evangelista voglia considerare due eventualità (una rovina totale ed un’altra parziale), ma soltanto intende esprimere la stessa idea con due verbi distinti («si perde o danneggia»). In Luca al termine del vers. è omessa la dichiarazione riferita dagli altri due Sinottici, che suona: «poiché qual cosa può dare l’uomo in cambio della propria anima?» (Mc., 8, 37; cf. Mt., 16, 26).
 
Chi vuole essere mio discepolo prenda la sua croce ogni giorno e mi segua - Gesù annunciando la sua futura passione, morte e risurrezione si compromette con gli uomini per la loro salvezza e lo fa nel modo più pieno: «Il Figlio dell’uomo deve soffrire molto… esser messo a morte». Si fa solidale con l’uomo attraversando la via della croce in pienezza di libertà (Cf. Gv 10,18), portando nel suo corpo le stigmate del peccato e della follia omicida degli uomini. Prendere la croce di Cristo, in questa visuale, significa essere sollecitati a dichiarare fino a che punto si è disposti a compromettersi con lui, il Messia trafitto per la salvezza degli uomini. Si tratta di assumere esistenzialmente il destino di Gesù come destino proprio.
Il discepolo deve accettare senza scandalizzarsi che Gesù porti la croce; ma deve a sua volta portare la croce con Gesù; deve rinnegare se stesso e quindi smettere di porre se stesso al centro delle sue attenzioni e delle sue preoccupazioni; deve assumere la sua croce ogni giorno se vuol seguire davvero il suo Signore, il quale «si sottopose alla croce, disprezzando l’ignominia» (Eb 12,2).
Prendere la croce di Cristo, per l’uomo è una dolorosa e difficile vocazione da assumere e accettare di prenderla significa interrogarsi sulla “quantità e qualità” del proprio amore verso Cristo Gesù e se questo amore lo attira alla croce e gli fa desiderare di percorrere lo stesso cammino.
Gesù esige una risposta dai suoi amici mostrando loro un orizzonte di sofferenza e di morte perché capiscano che il vero valore della croce va colto nella perseveranza e nella fedeltà, e anche questo è un compromettersi per Dio: “ogni giorno”, senza lasciarsi sedurre dalle promesse del mondo o spaventare dalle sue minacce.
Gesù vuole che la risposta sia data in una visione di un destino di dolore e di morte perché i discepoli capiscano che il legame con Gesù deve mostrarsi indissolubile in un sì pieno e totale, un sì che deve essere rinnovato “ogni giorno”, di fronte a ogni nuova situazione di ostacolo o di prova o di tentazione diabolica, un sì pieno che nasca dall’amore e dalla profonda convinzione che perdere la propria vita per Gesù non si rivelerà una perdita ma un autentico guadagno.
 
Il Figlio dell’uomo..., è spesso usato nel Nuovo Testamento e Gesù amava riferirlo a stesso, «ora per descrivere le sue umiliazioni [Mt 8,20; 11,19;  20,28], soprattutto quelle della passione [Mt 17,22, ecc.], ora per annunziare il suo trionfo escatologico della risurrezione [Mt 17,9], del ritorno glorioso [Mt 24,30] e del giudizio [Mt 25,31]. Questo titolo infatti, di sapore aramaico e che in origine significa “uomo” [Ez 2,1], per l’originalità della locuzione attirava l’attenzione sull’umiltà della sua condizione umana; ma nello stesso tempo, applicato da Dn 7,13 e in seguito dall’apocalittica giudaica [Enoch] al personaggio trascendente, d’origine celeste, che riceve da Dio il regno escatologico, esso suggeriva, in maniera misteriosa ma sufficientemente chiara [cfr. Mc 1,34; Mt 13,13], il carattere del suo messianismo» (Bibbia di Gerusalemme).
 
L’Imitazione di Cristo (Libro II, Cap XII, 2): Ecco, tutto dipende dalla croce, tutto è definito con la morte. La sola strada che porti alla vita e alla vera pace interiore, è quella della santa croce e della mortificazione quotidiana. Va’ pure dove vuoi, cerca quel che ti piace, ma non troverai, di qua o di là, una strada più alta e più sicura della via della santa croce. Predisponi pure ed ordina ogni cosa, secondo il tuo piacimento e il tuo gusto; ma altro non troverai che dover sopportare qualcosa, o di buona o di cattiva voglia troverai cioè sempre la tua croce.

Il Santo del Giorno - 6 Marzo 2025 - San Marciano, vescovo e martire - Marciano (o Marziano) è indicato dalla tradizione come protovescovo di Tortona (Alessandria), diocesi di cui è patrono. Di famiglia pagana, sarebbe stato convertito da san Barnaba, compagno di san Paolo e confermato poi nella fede da san Siro, vescovo di Pavia. Per 45 anni pastore di Tortona, sarebbe morto martire sotto l’imperatore Adriano tra il 117 e il 138. Da alcuni documenti del secolo VIII che ne parlano, non risulta vescovo. È Valafrido Strabone che, in occasione della costruzione di una chiesa in onore del santo, lo indica come primo vescovo della comunità derthonese e martire. Le reliquie, ritrovate sulla riva sinistra della Scrivia dal vescovo sant’Innocenzo (suo successore del IV secolo), sono nella cattedrale di Tortona. L’osso di un indice è conservato dalla fine del XVII secolo a Genola (Cuneo), di cui è anche patrono. (Avvenire)

Il pane del cielo che abbiamo ricevuto,
Dio onnipotente, ci santifichi
e sia per noi sorgente inesauribile
di perdono e di salvezza.
Per Cristo nostro Signore.