1 Aprile 2025
 
MARTEDÌ DELLA IV SETTIMANA DI QUARESIMA
 
Ez 47,1-9.12; Salmo Responsoriale Dal Salmo 45 (46); Gv 5,1-16
 
Colletta
Dio fedele e misericordioso,
questo tempo di penitenza e di preghiera
disponga i cuori dei tuoi fedeli
ad accogliere degnamente il mistero pasquale
e a proclamare il lieto annuncio della tua salvezza.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Peccato e malattia: Catechismo della Chiesa Cattolica Compendio 313: Nell’Antico Testamento l’uomo durante la malattia sperimenta il proprio limite, e nello stesso tempo percepisce che la malattia è legata, in modo misterioso, al peccato. I profeti hanno intuito che essa poteva avere anche un valore redentivo per i peccati propri e altrui. Così la malattia era vissuta di fronte a Dio, dal quale l’uomo implorava la guarigione.
La compassione di Gesù verso gli ammalati e il comportamento della Chiesa verso i malati: Catechismo della Chiesa Cattolica Compendio 314: La compassione di Gesù verso gli ammalati e le sue numerose guarigioni di infermi sono un chiaro segno che con lui è venuto il Regno di Dio e quindi la vittoria sul peccato, sulla sofferenza e sulla morte. Con la sua passione e morte, egli dà nuovo senso alla sofferenza, la quale, se unita alla sua, può diventare mezzo di purificazione e di salvezza per noi e per gli altri.
315: La Chiesa, avendo ricevuto dal Signore l’imperativo di guarire gli infermi, si impegna ad attuarlo con le cure verso i malati, accompagnate da preghiere di intercessione. Essa soprattutto possiede un Sacramento specifico in favore degli infermi, istituito da Cristo stesso e attestato da san Giacomo: «Chi è malato, chiami a sé i presbiteri della Chiesa e preghino su di lui, dopo averlo unto con olio nel nome del Signore» (Gc 5,14-15).
 
I Lettura: Il torrente descritto nel brano del profeta Ezechiele rivela la benedizione che reca al paese la rinnovata dimora di Dio in mezzo al suo popolo, una presenza che apporterà vita e renderà assai feconda la terra. L’immagine sarà ripresa dal libro dell’Apocalisse: “E mi mostrò poi un fiume d’acqua viva, limpido come cristallo, che scaturiva dal trono di Dio e dell’Agnello. In mezzo alla piazza della città, e da una parte e dall’altra del fiume, si trova un albero di vita che dà frutti dodici volte all’anno, portando frutto ogni mese; le foglie dell’albero servono a guarire le nazioni” (22,1-2).
 
Vangelo
All’istante quell’uomo guarì.
 
La guarigione del paralitico alla piscina, posta nei pressi della porta delle Pecore che conduceva al tempio, avviene di sabato, una vera iattura per i Giudei che vedono male e peccato in ogni angolo del mondo. L’uomo infermo, in verità, è afflitto da due malanni: da una parte, è malato da tanto tempo, 38 anni, e ciò lascia supporre che la sua malattia è inguaribile, dall’altra parte, non può approfittare dell’efficacia miracolosa dell’acqua, riservata al primo che vi entra, poiché non ha nessuno che lo immerge nella piscina. Un caso veramente disperato. Gesù prende l’iniziativa e guarisce l’uomo intimandogli di non peccare più: Ecco: sei guarito! Non peccare più, perché non ti accada qualcosa di peggio. Gesù “non dice che l’infermità sia stata una conseguenza del peccato [cfr. Gv 9,2s]. Avverte l’infermo che la grazia della sua guarigione lo impegna a convertirsi [cfr. Mt 9,2-8]; dimenticandolo, rischierebbe peggio della infermità passata. Il miracolo è dunque il «segno» di una resurrezione spirituale” (Bibbia di Gerusalemme). La guarigione mette in risalto l’onnipotenza di Gesù capace di rimettere in piedi un uomo malato e rassegnato, ma mette anche in evidenza la cecità dei Giudei, impotenti di accogliere il Dono di Dio.
 
Dal Vangelo secondo Giovanni
Gv 5,1-16

Ricorreva una festa dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. A Gerusalemme, presso la porta delle Pecore, vi è una piscina, chiamata in ebraico Betzatà, con cinque portici, sotto i quali giaceva un grande numero di infermi, ciechi, zoppi e paralitici.
Si trovava lì un uomo che da trentotto anni era malato. Gesù, vedendolo giacere e sapendo che da molto tempo era così, gli disse: «Vuoi guarire?». Gli rispose il malato: «Signore, non ho nessuno che mi immerga nella piscina quando l’acqua si agita. Mentre infatti sto per andarvi, un altro scende prima di me». Gesù gli disse: «Àlzati, prendi la tua barella e cammina». E all’istante quell’uomo guarì: prese la sua barella e cominciò a camminare.
Quel giorno però era un sabato. Dissero dunque i Giudei all’uomo che era stato guarito: «È sabato e non ti è lecito portare la tua barella». Ma egli rispose loro: «Colui che mi ha guarito mi ha detto: “Prendi la tua barella e cammina”». Gli domandarono allora: «Chi è l’uomo che ti ha detto: “Prendi e cammina?”». Ma colui che era stato guarito non sapeva chi fosse; Gesù infatti si era allontanato perché vi era folla in quel luogo.
Poco dopo Gesù lo trovò nel tempio e gli disse: «Ecco: sei guarito! Non peccare più, perché non ti accada qualcosa di peggio». Quell’uomo se ne andò e riferì ai Giudei che era stato Gesù a guarirlo. Per questo i Giudei perseguitavano Gesù, perché faceva tali cose di sabato.

Parola del Signore.
 
Salvatore Alberto Panimolle (Lettura Pastorale del Vangelo di Giovanni - II Vol): L’evangelista, in Gv 5,4, narra che la guarigione degli infermi avveniva con l’immersione nella piscina, dopo che l’angelo aveva agitato l’acqua e, per di più, che la virtù terapeutica dell’acqua si esauriva, curando un solo malato. Invece, il comportamento di Gesù in questa circostanza (Gv 5,8) mette in risalto che il suo potere sulle malattie è illimitato. Il Maestro comanda e l’infermo guarisce. Egli non ordina di immergersi nella piscina, ma solo di prendere il giaciglio e di camminare! Quindi non è l’acqua che risana, ma la parola di Gesù. In tal modo Il Verbo incarnato si presenta come l’unico guaritore. «Con il miracolo, Cristo mostra di essere il vero guaritore; egli infatti ristabilisce completamente il malato in salute , corpo e anima , con una parola.
Duprez sostiene che il richiamo implicito al culto degli dèi guaritori, nella piscina di Betzatà, viene fatto, dall’evangelista, per sottolineare che solo Gesù è il guaritore dell’anima e del corpo e, quindi, per allontanare il pericolo del culto pagano: «Questo studio... ha il grande merito di mostrare il pericolo che presentava, per il cristianesimo nascente, il culto degli dèi guaritori. La chiesa combattendolo non faceva che prolungare l’opera del Cristo che si era manifestato come il solo salvatore capace di portare agli uomini la salute integrale, quella del corpo e dell’anima». [...]
Inoltre il miracolo descritto in Gv 5 mostra che Gesù ha gli stessi poteri di Jahvè, il quale nell’Esodo e nel libro della Sapienza è descritto come liberatore dai nemici, dalle malattie e dalla morte.
«I temi sono molto simili: Dio apporta la salvezza, guarisce con la sua parola. Egli comanda alla vita e alla morte. Si può dire che Gv 5 è un’illustrazione e un compimento, fatto da Cristo, di Sap 16 e un’applicazione a Gesù dei miracoli attribuiti a Dio nell’AT. Cristo, che negli altri miracoli si rivela come colui che libera dalla sete (Gv 2,1-11 e Sap 11,4-14), dalla fame (Gv 6,1-13 e Sap 16,20-22), dalle tenebre (Gv 9,1-41 e Sap 18,1), in questi testi si manifesta come liberatore dalla malattia e dalla morte. Cristo è padrone della vita e della morte, perché il Padre glielo ha dato».
In particolare il miracolo di Betzatà mette in luce che il Cristo è il Salvatore dei più deboli, di coloro che sono abbandonati e trascurati da tutti. Con la sua domanda «vuoi guarire?» (Gv 5,6), «forse Gesù vuole in qualche modo mettere alla prova la fede dell’uomo, a forse mettere a nudo la sua situazione di impotenza. Ma è certo che soprattutto vuoi sottolineare la crudeltà e l’egoismo che si nascondono dietro la pia leggenda dell’acqua miracolosa. Chi veniva guarito? Il più veloce, il più sano o, comunque, il più assistito, cioè il più ricco. La religione popolare copiava lo schema della salvezza degli uomini attribuendo a Dio la stessa ingiustizia. Gesù invece non soltanto salva senza l’acqua, ma salva il più ebole , colui che non poteva salvarsi!
 
Giuseppe Barbaglio (Malattia in Schede Bibliche Pastorali - Vol. V): Le infermità fisiche dei poveretti che supplicano Gesù “ne provocano la compassione (Mt 9,27; 15,22; 17,15; 20,30-31; Mc 10,47-48; Le 18,38-39). In altre parole, egli se ne fa carico efficacemente. La malattia è un male da cui liberare: le forze nuove, che hanno cominciato a esplodere con l’annuncio del regno di Dio e sono presenti in Gesù, sono creatrici di vita e di salute.
L’accentuazione di Marco sulle guarigioni degli indemoniati poi evidenzia come Gesù sia intervenuto con gesto liberatore a favore anche di malati psichici. In breve, la salute del corpo e della psiche non è estranea alla salvezza promessa dalla venuta del regno di Dio.
In Gv 5,1ss (guarigione del malato alla piscina di Betesda) appare come la cultura del tempo, che legava strettamente malattia e peccato, non sia estranea alle parole di Gesù che, dopo aver risanato il poveretto, così lo esorta: «Ecco che sei guarito; non peccare più, perché non ti abbia ad accadere qualcosa di peggio» (v. 14). In Gv 9,1ss (guarigione del cieco-nato) invece Gesù si oppone alla diffusa mentalità dell’ambiente che attribuiva la cecità del malato ai peccati suoi o a quelli dei suoi genitori, dicendo che questa malattia costituiva un’ottima occasione per l’autorivelazione del Figlio di Dio: « ... i suoi discepoli lo interrogarono: Rabbi, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco? Rispose Gesù: Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio» ( v. 2-3). Dalla ricerca delle cause egli sposta l’accento sulla finalità della malattia, da cui libera come rivelatore dei tempi ultimi.
 
Lo sguardo non si fermava alla sola salute del corpo: mirava anche alla guarigione dell’anima, alla salvezza spirituale - Giovanni Paolo II (Udienza Generale 29 Aprile 1992): Gli evangelisti ci dicono che fin dall’inizio della sua vita pubblica egli trattava con grande amore e sincera compassione gli infermi e tutti gli altri bisognosi e tribolati che chiedevano il suo intervento. San Matteo attesta che “curava ogni malattia e infermità” (Mt 9, 35). Per Gesù le innumerevoli guarigioni miracolose erano il segno della salvezza che voleva procurare agli uomini. Non di rado egli stabilisce chiaramente questa relazione di significanza, come quando rimette i peccati al paralitico, e solo dopo opera il miracolo, per dimostrare che “il Figlio dell’uomo ha il potere sulla terra di rimettere i peccati” (Mc 2, 10). Il suo sguardo dunque non si fermava alla sola salute del corpo: mirava anche alla guarigione dell’anima, alla salvezza spirituale.
Questo comportamento di Gesù apparteneva all’economia della missione messianica, che la profezia del libro di Isaia aveva descritto in termini di risanamento dei malati e di soccorso dei poveri (cf. Is 61, 1-2; Lc 4, 18-19). È una missione che già durante la sua vita terrena Gesù volle affidare ai suoi discepoli, perché portassero il soccorso ai bisognosi, e particolarmente la guarigione ai malati. Ci attesta infatti l’evangelista Matteo che Gesù, “chiamati a sé i dodici discepoli, diede loro il potere di scacciare gli spiriti immondi e di guarire ogni sorta di malattie e infermità” (Mt 10, 1). E Marco dice di essi che “scacciavano molti demoni, ungevano di olio molti infermi e li guarivano” (Mc 6, 13). È significativo che già nella Chiesa primitiva venisse sottolineato non solo questo aspetto della missione messianica di Gesù, al quale sono dedicate molte pagine dei Vangeli, ma anche l’opera da lui affidata ai suoi discepoli e apostoli, in connessione con la sua missione.
 
Tommaso d’Aquino: In Jo. ev. exp ., V: Alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina! il Signore comanda alla natura e alla volontà umane: entrambe sono in suo potere. Comanda alla natura umana dicendo: Alzati; infatti non lo comanda alla volontà, perché essa da sola non poteva farlo; bensì alla natura, che il Signore mutò col suo comando, donandole la forza di potersi alzare. Alla volontà poi comanda: prendi il tuo lettuccio; infatti il giaciglio nel quale l’uomo riposa sta ad indicare il peccato. Ora l’uomo prende il proprio lettuccio quando accetta il peso della penitenza per i peccati commessi ... e cammina per avvicinarsi a Dio.
 
Il Santo del giorno - 1 Aprile 2025 -  Sant’Ugo di Grenoble: Venne alla luce nel 1053 a Châteauneuf-sur-Lers, nel Delfinato, e morì a Grenoble il 1° aprile 1132 dopo 52 anni di episcopato nella città francese. Nato da nobile famiglia, fu educato dalla madre a una vita di elemosina, preghiera e digiuno. A soli 27 anni era già vescovo di Grenoble. Da allora, per tutta la vita, conciliò con abnegazione l’attrazione fortissima verso la vita eremitica e il cenobio e la fedeltà al servizio episcopale, che svolse con grande ardore, secondo lo spirito di riforma della Chiesa che caratterizzò il pontificato di Gregorio VII. (Avvenire)
 
Purifica, o Signore, il nostro spirito
e rinnovalo con questo sacramento di salvezza,
perché anche il nostro corpo mortale
riceva un germe di risurrezione e di vita nuova.
Per Cristo nostro Signore.
 
Orazione sul popolo ad libitum

Concedi, Dio misericordioso, che il tuo popolo
viva sempre nell’adesione piena alla tua volontà
e ottenga incessantemente il sostegno della tua clemenza.
Per Cristo nostro Signore.
 
 31 Marzo 2025
 
Lunedì IV Settimana di Quaresima
 
Is 65,17-21; Sal 29 (30); Gv 4,43-54
 
Colletta
O Dio, che rinnovi il mondo
con i tuoi ineffabili sacramenti,
fa’ che la Chiesa si edifichi
con questi segni delle realtà del cielo
e non resti priva del tuo aiuto per la vita terrena.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Catechismo della Chiesa Cattolica 1814-1815: La fede è la virtù teologale per la quale noi crediamo in Dio e a tutto ciò che egli ci ha detto e rivelato, e che la Santa Chiesa ci propone da credere, perché egli è la stessa verità. Con la fede «l’uomo si abbandona tutto a Dio liberamente». Per questo il credente cerca di conoscere e di fare la volontà di Dio. «Il giusto vivrà mediante la fede» (Rm 1,17). La fede viva «opera per mezzo della carità» (Gal 5,6). Il dono della fede rimane in colui che non ha peccato contro di essa. Ma «la fede senza le opere è morta» (Gc 2,26). Se non si accompagna alla speranza e all’amore, la fede non unisce pienamente il fedele a Cristo e non ne fa un membro vivo del suo Corpo.
Le caratteristiche della fede: Catechismo della Chiesa Cattolica Compendio 28: La fede, dono gratuito di Dio e accessibile a quanti la chiedono umilmente, è la virtù soprannaturale necessaria per essere salvati, L’atto di fede è un atto umano, cioè un atto dell’intelligenza dell’uomo che, sotto la spinta della volontà mossa da Dio, dà liberamente il proprio consenso alla verità divina. La fede, inoltre, è certa, perché fondata sulla Parola di Dio; è operosa «per mezzo della carità» (Gal 5,6); è in continua crescita, grazie all’ascolto della Parola di Dio e alla preghiera, Essa fin d’ora ci fa pregustare la gioia celeste.
Io credo: Catechismo della Chiesa Cattolica 26: Quando professiamo la nostra fede, cominciamo dicendo: «Io credo» oppure: «Noi crediamo». Perciò, prima di esporre la fede della Chiesa, così come è confessata nel Credo, celebrata nella liturgia, vissuta nella pratica dei comandamenti e nella preghiera, ci domandiamo che cosa significa «credere». La fede è la risposta dell’uomo a Dio che gli si rivela e gli si dona, apportando nello stesso tempo una luce sovrabbondante all’uomo in cerca del senso ultimo della vita.
 
I Lettura: Un annuncio di pace che riempie i cuori di gioia e di ineffabile letizia. Il cuore del messaggio  è l’espressione: “Ecco, infatti io creo nuovi cieli e nuova terra; non si ricorderà più il passato, non verrà più in mente”. Al versetto 18 ritroviamo il verbo creare, è usato non solo per “cielo e terra” come al versetto 17, ma anche per Gerusalemme. Gerusalemme sarà creata come città santa, fonte perenne di pace e di giustizia per tutti i popoli. Il profeta Isaia intravvede un rinnovamento totale. È un mondo nuovo, nuovi cieli e nuova terra, quello che viene annunziato e descritto attraverso tutta la letteratura apocalittica (cf. Ap 21,1, 2Pt 3,13).
 
Vangelo
Va’, tuo figlio vive.
 
Il racconto evangelico, presente anche in Matteo (8,5-13) e in Luca (7,1-10), ma con sfumature diverse, esalta la potenza taumaturgica di Gesù: Egli è veramente il Signore della vita. Bisogna però superare la dimensione prodigiosa dei segni per giungere a una fede piena nel Signore: non più una fede legata ai miracoli, ma una fede viva nella parola di Gesù.
 
Dal Vangelo secondo Giovanni
Gv4,43-54

In quel tempo, Gesù partì [dalla Samarìa] per la Galilea. Gesù stesso infatti aveva dichiarato che un profeta non riceve onore nella propria patria. Quando dunque giunse in Galilea, i Galilei lo accolsero, perché avevano visto tutto quello che aveva fatto a Gerusalemme, durante la festa; anch’essi infatti erano andati alla festa.
Andò dunque di nuovo a Cana di Galilea, dove aveva cambiato l’acqua in vino. Vi era un funzionario del re, che aveva un figlio malato a Cafàrnao. Costui, udito che Gesù era venuto dalla Giudea in Galilea, si recò da lui e gli chiedeva di scendere a guarire suo figlio, perché stava per morire.
Gesù gli disse: «Se non vedete segni e prodigi, voi non credete». Il funzionario del re gli disse: «Signore, scendi prima che il mio bambino muoia». Gesù gli rispose: «Va’, tuo figlio vive». Quell’uomo credette alla parola che Gesù gli aveva detto e si mise in cammino.
Proprio mentre scendeva, gli vennero incontro i suoi servi a dirgli: «Tuo figlio vive!». Volle sapere da loro a che ora avesse cominciato a star meglio. Gli dissero: «Ieri, un’ora dopo mezzogiorno, la febbre lo ha lasciato».
Il padre riconobbe che proprio a quell’ora Gesù gli aveva detto: «Tuo figlio vive», e credette lui con tutta la sua famiglia.
Questo fu il secondo segno, che Gesù fece quando tornò dalla Giudea in Galilea.
 
Parola del Signore.
 
Marida Nicolaci (Vangelo secondo Giovanni): Il racconto del miracolo è racchiuso tra i due riferimenti al segno di Cana (vv. 46.54) che ne evidenziano il significato nel progredire del ministero di Gesù: «di nuovo» egli si trova ed agisce a Cana (v 46); «di nuovo» egli «fa un segno» (v 54); di nuovo la sua presenza provoca una richiesta di aiuto, persistente nonostante il suo tentativo iniziale di sottrarsi e, infine, esaudita (vv 47-49); di nuovo, dunque, la presa di distanza ammonitrice di Gesù (v, 48) risulta sopraffatta dalla sua percezione del bisogno e della fiducia di chi chiede; Gesù si trova a «fare» un segno prima non previsto e il suo agire suscita una risposta di fede (vv. 50.53). Come nel caso del miracolo di Cana, nello sviluppo del racconto risultano centrali la «parola» di Gesù e la configurazione temporale del prodigio: è alla «parola» efficace di Gesù che il funzionario regio «crede» e obbedisce senza indugio prima ancora di constatarne l’efficacia (v. 50); è la consapevolezza raggiunta riguardo all’«ora» della guarigione, proprio l’ora in cui Gesù ha pronunciato la parola della vita (vv. 52-53), che fa esplodere, come immediata, puntuale e consapevole reazione, la fede assoluta dell’uomo e di tutto il suo nucleo domestico.
Ciò che viene messo a tema alla fine della seconda sezione del vangelo, dunque, non è l’inadeguatezza di una fede basata sui «segni e prodigi» potenti del Dio liberatore (cf l’espressione in Es 7,3; 11,Qs; Dt 6,22; 11,3; 29,2; Sal 78,43; l35,9; Is 20,3; Ger 32,20s), quella dalla quale Gesù (e l’evangelista) prenderebbe polemicamente le distanze (v. 48), né la superiorità di una fede basata sulla parola rispetto a una fede basata sui segni, bensì il progressivo dispiegarsi della rivelazione di Gesù e, in lui, dell’amore e della volontà di vita di Dio verso il mondo nel segno di una «parola» di vita efficace sul corpo.
Ciò che emerge dal racconto del secondo segno compiuto a Cana di Galilea è la correlazione strutturale della fede a una parola incarnata e, dunque, la correlazione strutturale tra il segno e il significato, l’esperienza fisica e l’annunzio, il corpo e la parola. In questa correlazione non c’ è più e meno, ma la complessità della rivelazione di Dio al mondo nella persona del Verbo divenuto carne, uomo in relazione agli altri, riferimento ultimo dell’atto del credere.
Basterà, però, che Gesù compia uno, due o più miracoli perché il senso della sua missione sia riconosciuto e compreso fino in fondo e la sua rivelazione accolta e creduta?
 
La fede nel pensiero e nella vita di Gesù - Jean Duflacy (Fede in Dizionario di Teologia Biblica): 1. Le preparazioni. - La fede dei poveri (cfr. Lc 1,46-55) accoglie il prime annunzio della salvezza. Imperfetta in Zaccaria (1,18 ss; cfr. Gen 15,8), esemplare in Maria (Lc 1,35 ss. 45; cfr, Gen 18,14), condivisa a poco a poco da altri, l’umiltà delle apparenze non le vela l’iniziativa divina. Coloro che credono in Giovanni Battista sono pure dei poveri, coscienti del loro peccato, e non dei farisei orgogliosi (Mt 21,23-32). Questa fede li raduna a loro insaputa attorno a Gesù, venute tra essi (3,11-17 par.), e li orienta verso la fede in lui (Atti 19,4; cfr. Gv 1,7).
2. La fede in Gesù e nella sua parola. - Tutti potevano «sentire e vedere» (Mt 13,13 par.) la parola ed i miracoli di Gesù che proclamavano la venuta del regno (11,3-6 par.; 13,16-17 par.). Ma «ascoltare la parola» (11,15 par.; 13,19-23 par.) e «metterla in pratica» (7,24-27 par.; cfr. Deut 5,27), vedere veramente, in una parola: «credere» (Mc 1, 15; Le 8,12; cfr, Deut 9,23), fu la caratteristica dei discepoli (Lc 8,20 par.). D’altra parte, parola e miracoli ponevano la domanda: «Chi è costui?» (Mc 4,41; 6,1-6.14 ss par.). Questa questione fu una prova per Giovanni Battista (Mt 11,2s) ed uno scandalo per i farisei (12,22-28 par.; 21,23 par.). La fede richiesta per i miracoli (Le 7,50; 8,48) non vi rispondeva che parzialmente riconoscendo la onnipotenza di Gesù (Mt 8,2; Mc 9,22 s). Pietro diede la vera risposta: «Tu sei il Cristo» (Mt 16,13-16 par.). Questa fede in Gesù unisce ormai i discepoli con lui e tra di loro, facendoli partecipi del segreto della sua persona (16, 18-20 par. ).
Attorno a Gesù, che è un povero (Mt 11,29) e si è rivolto ai poveri (5,2-10 par.; 11,5 par.), si è così costituita una comunità di poveri, di «piccoli» (10,42), il cui legame, più prezioso di ogni cosa, è la fede in lui e nella sua parola (18,6-10 par.). Questa fede viene da Dio (11,25 par.; 16,17) e sarà condivisa un giorno dalle nazioni (8,5-13 par.; 12,38-42 par.). Le profezie si compiono.
3. La perfezione della fede. - Quando Gesù, il servo, prende la via di Gerusalemme per obbedire fino alla morte (Fil 2, 7 s), «fa il viso duro» (L 9,51; cfr. Is 50,7). In presenza della morte egli «porta alla perfezione la fede» (Ebr 12,2) dei poveri (Lc 23,46 = Sal 31,6; Mt 27,46 par. = Sal 22), mostrando una fiducia assoluta in «colui che poteva», con la risurrezione, «salvarlo dalla morte» (Ebr 5,7).
Malgrado la loro conoscenza dei misteri del regno (Mt 13,11 par.), i discepoli ebbero difficoltà a mettersi sulla via in cui, nella fede, dovevano seguire il figlio dell’uomo (16,21-23 par.). La fiducia che esclude ogni preoccupazione ed ogni timore (Lc 12,22-32 par.) non era loro abituale (Mc 4, 35-41; Mt 16,5-12 par.). Quindi, la prova della passione (Mt 26,41) sarà per essi uno scandalo (26,33). Ciò che allora essi vedono richiede molta fede (cfr. Mc 15,31 s). La fede dello stesso Pietro, senza sparire - perché Gesù aveva pregato per essa (Lc 22,32) - non ebbe il coraggio di affermarsi (22,54-62 par.). La fede dei discepoli doveva ancora fare un passo decisivo per diventare la fede della Chiesa.
 
La fede è capace di indurre uno a preferire la perdita della vita che si vede, per una vita che non si vede - Agostino, Sermo Guelferb. 28, 2: Quant’è grande, quant’è meravigliosa la fede! È cosa grande la fede, ma dov’è? Vediamo a vicenda le nostre facce, la nostra figura, i nostri vestiti, distinguiamo anche con l’orecchio le nostre voci e parole; ma dov’è questa fede di cui sto parlando? Ecco, nessuno la vede, eppure questa fede, che nessuno vede qui nella casa di Dio, ha fatto venire tutta questa folla. È grande, dunque, la fede, come dice anche il Signore nel Vangelo: “Ti sia fatto secondo la tua fede”. E poi lo stesso Signore nostro Dio, lodando la fede di certuni dice: “Non ho trovato tanta fede in Israele”. Non fa meraviglia, quindi, se per la fede, che non si vede, venga disprezzata la vita, che si vede, perché si possa conquistare una vita che non si vede.
 
Il Santo del giorno - 31 Marzo 2025 - Santa Balbina di Roma Martire: Di lei non si hanno molte notizie certe. Secondo la tradizione era figlia del tribuno romano e martire Quirino con cui venne uccisa intorno al 130 per poi essere seppellita sulla via Appia. Tuttavia il cimitero che vi si trova nonché la chiesa sul piccolo Aventino non avrebbe alcun legame con lei. Balbina era stata battezzata da Papa Alessandro I insieme al padre convertitosi al cristianesimo. Ammalatasi gravemente fu portata dal Pontefice che allora era imprigionato e ne venne guarita. Di estrazione nobile venne chiesta più volte in sposa ma rimase sempre fedele al suo voto di verginità.
Arrestata insieme col padre per ordine dell’imperatore Adriano venne decapitata dopo lunghe torture.
L’iconografia la raffigura con croce e scettro di gigli; talvolta anche con un angelo che indica il cielo. Altre immagini la rappresentano mentre tiene in mano una catena. Sarebbe infatti guarita dal mal di gola sfiorando le catene che tenevano imprigionato Papa Alessandro I. (Avvenire)
 
I tuoi santi doni, o Signore,
trasformino la nostra vita
e ci guidino ai beni eterni.
Per Cristo nostro Signore.
 
Orazione sul popolo ad libitum

Rinnova, o Signore, il tuo popolo nell’anima e nel corpo;
tu che non vuoi privarlo delle gioie della terra,
fa’ che si rafforzi nei desideri del cielo.
Per Cristo nostro Signore.
 
 
 
 
30 MARZO 2025
 
IV Domenica di Quaresima
 
Gs 5,9a.10-12; Salmo Responsoriale Dal Salmo 33 (34); 2Cor 5,17-21; Lc 15,1-3.11-32
 
Colletta
O Padre,
che in Cristo crocifisso e risorto
offri a tutti i tuoi figli
l’abbraccio della riconciliazione,
donaci la grazia di una vera conversione,
per celebrare con gioia la Pasqua dell’Agnello.
Egli è Dio, e vive e regna con te
 
Catechismo della Chiesa Cattolica 1435 La conversione si realizza nella vita quotidiana attraverso gesti di riconciliazione, attraverso la sollecitudine per i poveri, l’esercizio e la difesa della giustizia e del diritto," attraverso la confessione delle colpe ai fratelli, la correzione fraterna, la revisione di vita, l’esame di coscienza, la direzione spirituale, l’accettazione delle sofferenze, la perseveranza nella persecuzione a causa della giustizia. Prendere la propria croce, ogni giorno, e seguire Gesù è la via più sicura della penitenza.
1439 il dinamismo della conversione e della penitenza è stato meravigliosamente descritto da Gesù nella parabola detta « el figlio prodigo» il cui centro è «il padre misericordioso»: il fascino di una libertà illusoria, l’abbandono della casa paterna; la miseria e trema nella quale il figlio viene a trovarsi dopo aver dilapidato la sua fortuna; l’umiliazione profonda di veder i costretto a pascolare i porci, e, peggio ancora, quella di desiderare di nutrirsi delle carrube che mangiavano i maiali; la riflessione sui beni perduti; il pentimento e la decisione di dichiararsi colpevole davanti a suo padre; il cammino del ritorno; l’accoglienza generosa da parte del padre; la gioia del padre: ecco alcuni tratti propri del processo di conversione. L’abito bello, l’anello e il banchetto di festa sono simboli della vita nuova, pura, dignitosa, piena di gioia che è la vita dell’uomo che ritorna a Dio e in seno alla sua famiglia, la Chiesa. Soltanto il cuore di Cristo, che conosce le profondità dell’amore di uo Padre, ha potuto rivelarci l’abisso della ua misericordia in una maniera così piena di semplicità e di bellezza.
 
I Lettura: Oggi ho allontanato da voi l’infamia dell’Egitto: poiché questo testo va compreso alla luce dell’ordine divino di circoncidere gli Israeliti (cfr. Gs 5,2), l’«infamia» consisteva nell’essere non circoncisi. La circoncisione fu imposta ad Abramo dal Signore come segno dell’alleanza che Egli concludeva con il suo popolo (cfr. Gen 17,9-27). Osservata dai patriarchi (cfr. Gen 31,13-24) e ripresa dopo l’entrata nella Terra promessa, acquistò tutta la sua importanza solo a partire dall’esilio (cfr. 1Mac l,60ss; 2Mac 6,10). La Pasqua, un’antica festa celebrata dai pastori durante la transumanza, nel libro dell’Esodo viene messa in relazione con la decima piaga, la morte dei primogeniti egiziani, e l’uscita dall’Egitto. La Pasqua ebraica, memoriale della liberazione dalla schiavitù egiziana, nel Nuovo Testamento, da Gesù viene insignita di un nuovo e profondo significato: la liberazione dal peccato e dalla morte.
 
II Lettura: Essere «creatura nuova» è un dono del tutto gratuito «che viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo». Con il dono della sua vita, Gesù libera l’uomo dalla morte e dal peccato, rendendolo «creatura nuova». In virtù del sacrificio di Cristo e del dono dello Spirito Santo, gli uomini non sono più schiavi, ma figli ed «eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo» (Rom 8,17).
 
Vangelo
Questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita.
 
Il figlio prodigo ritrovandosi tra le braccia del Padre ritrova la vita: se il peccato è la via larga che conduce alla morte, ritornare nella casa del Padre è ritrovare la via che conduce alla vera vita. Gesù racconta la parabola perché mormoravano di lui dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». E il figlio maggiore è la chiara risposta alla mormorazione: i farisei, come il figlio maggiore, sazi della loro presunta onestà, ritenevano la conversione una realtà necessaria per gli altri, e credendosi giusti si pensavano gli unici ad avere l’esclusivo diritto di abitare nella casa del Padre. La parabola capovolge tutto, nel regno di Dio non vi sono giusti e peccatori, e non si possono innalzare barriere, perché tutti sono stati costituiti peccatori (Rom 5,19), e tutti sono bisognosi della misericordia, del perdono, dell’amore del Padre.
 
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 15,1-3.11-32

In quel tempo, si avvicinavano Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro».
Ed egli disse loro questa parabola: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese
Ed egli disse loro questa parabola: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre.
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa.
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».
 
Parola del Signore.
 
Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio - Luigi Rocca, (Seguendo Gesù con Luca): Il figliolo è già pronto per recitare il suo mea culpa per le mancanze commesse, chiedendogli perdono e dichiarandosi pronto per qualsiasi servizio anche il più umile. Ma il padre non lo lascia nemmeno parlare, gli chiude la bocca impedendogli di ripensare al passato. Per lui questo suo ritorno è un momento di immensa gioia e desidera coinvolgere il figlio in questa sua gioia. È una gioia che ricopre tutte le mancanze, tutti gli sgarbi da lui commessi e che esploderà poi in una grande festa (viene ucciso l’agnello più grasso, viene rivestito del vestito più bello, r anello al dito, i calzari ai piedi, poi il banchetto, la musica, le danze).
Vediamo ancora come l’ amore del padre si manifesta nel contrasto che avviene tra lui e il figlio rimasto fedele, obbediente, in ca a con lui. Questo ragazzo critica il padre, non riesce a capire il suo comportamento. Per lui il padre dimostra un amore totalmente sbagliato perché per essere un amore vero dovrebbe essere anche giusto e capace di castigare il fratello che si è comportato in modo così scapestrato. Insomma questo figliolo non è rimasto contento, è incapace di partecipare alla gioia del padre.
Ma il padre non lo capisce. Lui ragiona solo con la logica dell’amore, capisce solo l’amore, l’amore misericordioso, l’amore che vuole salvare a tutti i costi. Il padre vuole reinserire nella sua casa il figliolo che si era perduto. Vuole farlo partecipare in pieno alla vita della sua famiglia, per cui veramente per lui il passato non esiste più.
Ora qual è l’insegnamento che ci viene da questa parabola così toccante? È innanzitutto la rivelazione di Dio Amore infinitamente misericordioso; amore il quale vede il nostro peccato con un occhio molto diverso. Noi giudichiamo Dio secondo i nostri schemi mentali, mentre Gesù vuole portarci su un altro piano, quello dell’amore infinito di Dio Padre. Tutte le volte che noi ci convertiamo è una grande gioia che diamo a Lui. Di qui l’incoraggiamento anche per tutti coloro che eventualmente si trovassero lontani: saper v der i propri sbagli con l’occhi: di Dio, un occhio pieno di misericordia.
L’altro insegnamento è che Dio ama infinitamente tutti i suoi figli e vuole quindi che anche noi ci amiamo gli uni gli altri ugualmente senza giudicarci a vicenda, ma caso mai aiutandoci e pregando gli uni per gli altri sapendo che non diamo mai tanta gioia a Dio c me quando ci aiutiamo scambievolmente per far ritorno a Lui. Dio vuole da noi un amore veramente umile che non pretende di far leva su presunti meriti acquisiti.
“È molto significativa a questo riguardo la risposta che il padre dà al figliolo che continua a brontolare e pretende uno speciale trattamento in nome della sua fedeltà: «tu sei sempre con me!». Così è anche per il Padre celeste. La gioia più grande che noi diamo a Lui è la pace nell’amore scambievole, perché contenti di essere tutti nella sua casa. Naturalmente dobbiamo stare molto attenti a non confondere la fede nella misericordia di Dio con quella faciloneria spirituale la quale, sapendo che Dio è infinitamente misericordioso, presume di salvarsi comunque senza alcuno sforzo. Sarebbe un peccato grave contro lo Spirito Santo. Dovremmo insomma essere capaci di unire questa fede nella misericordia infinita di Dio con una grande lealtà che viene dall’amore vero e che consiste nel fare bene tutta la pr pria parte nell’evitare il peccato.
 
L’amore misericordioso...: Giovanni Paolo II (Udienza Generale, 17 febbraio 1999): Quanti uomini d’ogni tempo hanno riconosciuto in questa parabola [del “figlio prodigo”] i tratti fondamentali della loro storia personale! Il cammino che, dopo l’amara esperienza del peccato, riconduce alla casa del Padre passa attraverso l’esame di coscienza, il pentimento ed il fermo proposito di conversione. È un processo interiore che cambia il modo di valutare la realtà, fa toccare con mano la propria fragilità e spinge il credente ad abbandonarsi fra le braccia di Dio. Quando l’uomo, sostenuto dalla grazia, percorre all’interno del suo spirito queste tappe, nasce in lui il bisogno vivo di ritrovare se stesso e la propria dignità di figlio nell’abbraccio del Padre. Questa parabola, tanto cara alla tradizione della Chiesa, descrive così, in modo semplice e profondo, la realtà della conversione, offrendo la più concreta espressione dell’opera della misericordia divina nel mondo umano
 
La prima confessione cerca la riconciliazione - Ambrogio, Esposizione del Vangelo secondo Luca 7,224-225: Padre, dice, ho peccato contro il cielo e contro di te. Questa è la prima confessione presso il creatore della natura, il soprintendente della misericordia, il giudice della colpa.
Ma sebbene Dio conosca tutte le cose (cf. Est 4,37 - Settanta; Gv 21,17), egli attende la voce della tua confessione. [ .. ]. Piuttosto riconosci il tuo torto, affinché interceda per te Cristo, che noi abbiamo come avvocato presso il Padre (cf. 1Gv 2,1), affinché supplichi per te la Chiesa, versi le sue lacrime il popolo. Non aver paura di non poter conseguire quanto chiedi. Come tuo avvocato ti assicura il perdono, come tuo patrono ti promette la grazia, e come difensore ti garantisce la riconciliazione con la pietà patema. Abbi fede in lui perché è la verità (cf. Gv 14,6; 1Gv 5,6), fidati di lui perché è la potenza. Ha un motivo per interporre la sua autorità in tuo favore, perché non vorrebbe essere morto invano per te (cf. Gal 2,21). Anche il Padre ha un motivo per perdonarti, perché ciò che vuole il Figlio lo vuole anche il Padre.
 
Il Santo del Giorno - 30 Marzo 2025 - San Leonardo Murialdo. Laici e sacerdoti insieme con gli ultimi La visione di una Chiesa «di popolo»: Lo stile sinodale e l’impegno nella cura dell’ascolto e della condivisione hanno in diversi santi dei veri e proprio precursori, profeti del loro tempo la cui eredità parla ancora ai giorni nostri. Come nel caso di san Leonardo Murialdo, la cui attualità appare evidente nelle parole con le quali ricordava che «il laico, di qualsiasi ceto sociale, può essere oggi un apostolo non meno del prete e, per alcuni ambienti, più del prete», anticipando così l’idea di una Chiesa “di popolo” che avrebbe preso forma nel Concilio Vaticano II. Questo testimone della santità sociale torinese del XIX secolo era nato nel 1828 in una famiglia benestante ed era rimasto orfano di padre a cinque anni. Nel 1851, dopo gli studi nel Collegio degli Scolopi di Savona e alla Facoltà teologica a Torino, venne ordinato sacerdote, lavorando per 14 anni nell’oratorio di San Luigi a Porta Nuova. Gran parte del suo ministero lo dedicò ai giovani e agli operai, che anche allora erano le maggiori emergenze sociali, come oggi lo sono il lavoro e l’educazione. Tra il 1865 e il 1866 si trovò a studiare a Parigi e soggiornò per un periodo anche a Londra. Nel 1867 diede vita alla confraternita laicale di San Giuseppe, per l’aiuto ai ragazzi poveri e abbandonati; nel 1871 fondò l’Unione operai cattolici. Lavorò alla nascita dell’Associazione della Buona stampa e del giornale «La voce dell’operaio». Colpito da polmonite morì il 30 marzo 1900; beatificato nel 1963, è santo dal 1970. (Matteo Liut)
 
O Dio, che illumini ogni uomo
che viene in questo mondo,
fa’ risplendere su di noi la luce della tua grazia,
perché i nostri pensieri
siano conformi alla tua sapienza
e possiamo amarti con cuore sincero.
Per Cristo nostro Signore.
 
Orazione sul popolo

Custodisci, o Signore,
coloro che ti supplicano,
sorreggi chi è fragile,
vivifica sempre con la tua luce
quanti camminano nelle tenebre del mondo
e concedi loro, liberati da ogni male,
di giungere ai beni eterni.
Per Cristo nostro Signore.
 
 
 29 Marzo 2025
 
Sabato III Settimana di Quaresima

Os 6,1-6; Salmo Responsoriale Dal Salmo 50 (51); Lc 18,9-14
 
Colletta
O Dio, nostro Padre,
che nella celebrazione della Quaresima
ci fai pregustare la gioia della Pasqua,
donaci di contemplare e vivere
i misteri della redenzione
per godere la pienezza dei suoi frutti.
Per il nostro Signore Gesù Cristo. .
 
Papa Francesco (Angelus, 23 ottobre 2022): La parabola è compresa tra due movimenti, espressi da due verbi: salire e scendere. Il primo movimento è salire. Il testo infatti comincia dicendo: «Due uomini salirono al tempio a pregare» (v. 10). Questo aspetto richiama tanti episodi della Bibbia, dove per incontrare il Signore si sale verso il monte della sua presenza […]. Ma per vivere l’incontro con Lui ed essere trasformati dalla preghiera, per elevarci a Dio, c’è bisogno del secondo movimento: scendere. Come mai? Che cosa significa questo? Per salire verso di Lui dobbiamo scendere dentro di noi: coltivare la sincerità e l’umiltà del cuore, che ci donano uno sguardo onesto sulle nostre fragilità e le nostre povertà interiori. Nell’umiltà, infatti, diventiamo capaci di portare a Dio, senza finzioni, ciò che realmente siamo, i limiti e le ferite, i peccati, le miserie che ci appesantiscono il cuore, e di invocare la sua misericordia perché ci risani, ci guarisca, ci rialzi. Sarà Lui a rialzarci, non noi. Più noi scendiamo con umiltà, più Dio ci fa salire in alto. […] Il fariseo e il pubblicano ci riguardano da vicino. Pensando a loro, guardiamo a noi stessi: verifichiamo se in noi, come nel fariseo, c’è «l’intima presunzione di essere giusti» (v. 9) che ci porta a disprezzare gli altri. Succede, ad esempio, quando ricerchiamo i complimenti e facciamo sempre l’elenco dei nostri meriti e delle nostre buone opere, quando ci preoccupiamo dell’apparire anziché dell’essere, quando ci lasciamo intrappolare dal narcisismo e dall’esibizionismo. Vigiliamo sul narcisismo e sull’esibizionismo, fondati sulla vanagloria, che portano anche noi cristiani, noi preti, noi vescovi ad avere sempre una parola sulle labbra, quale parola? “Io.”
 
I Lettura: Epifanio Gallego: «Voglio l’amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più che gli olocausti».
La contrapposizione non può essere più enfatica e assoluta. È il tipico stile semita, usato per mettere in risalto alcuni valori in contrapposizione con altri. Non è una condanna incondizionata dei sacrifici e degli olocausti, ma solo del modo in cui erano offerti; e in questo concordano anche Amos, Isaia e Michea.
È la condanna radicale della religione esteriore quando è vuota d’interiorità, il rifiuto delle manifestazioni di fede quando queste manifestazioni si trasformano in sostitutivi della fede stessa.
Per questo Dio esige conoscenza e amore e nell’amore a Dio e al prossimo Cristo riassumerà il suo Vangelo.
Per questo Matteo mette due volte sulle sue labbra questa frase di Osea: «Voglio l’amore e non il sacrificio» (Mt 9,13 e 12.7). Lo stesso Signore la spiegherà nel discorso della montagna quando dirà, che se andando  a presentare la nostra offerta all’altare, ricordiamo che il nostro fratello ha qualcosa contro di noi … dobbiamo pensare prima al fratello poi all’offerta. Prima l’amore, poi il sacrificio; prima la fede, poi le sue manifestazioni.
 
Vangelo
Il pubblicano tornò a casa sua giustificato, a differenza del fariseo.
 
La parabola evangelica presenta due tipi umani opposti. I farisei, scrupolosi osservanti della Legge, e i pubblicani schedati come peccatori pubblici, gente senza salvezza. La preghiera del fariseo non è accetta a Dio perché sgorga da un cuore infettato dall’orgoglio, mentre il pubblicano è ascoltato e giustificato perché, riconoscendo la propria indegnità, la sua preghiera erompe da un cuore contrito e umiliato. È quanto insegna anche la prima lettura: il valore della preghiera non dipende dalla sua prolissità, ma dalle disposizioni del cuore. La preghiera del povero, spoglia di arroganza e di sedicenti meriti, penetrando le nubi arriva fino al cuore di Dio che è pronto ad intervenire per rendere soddisfazione ai giusti e ristabilire l’equità.
 
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 18,9-14
 
In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri:
«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano.
Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”.
Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”.
Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».
Parola del Signore.
 
Il fariseo e il pubblicano - La cornice entro la quale l’evangelista Luca pone la parabola è un insegnamento sull’umiltà (Cf. v. 14: Vi dico... chi invece si umilia sarà esaltato).
Due uomini salirono al tempio per pregare, uno era fariseo e l’altro pubblicano. Se la parabola è narrata per riprovare l’operato ipocrita dei farisei, non vuole sottintendere una sentenza di demerito o di condanna sul gruppo storico dei farisei. Occorre, quindi, comprendere il giudizio di Gesù. Egli loda la fede del pubblicano, ma non approva il suo peccato. Il peccatore deve pentirsi e convertirsi (Cf. Mt 3,2; 4,17); deve tendere al possesso di un cuore nuovo e dimostrare il suo pentimento con preghiere, digiuni ed elemosine (Cf. Tob 12,8-9; 1Pt 4,8).
Gesù rimprovera l’arroganza dei farisei che con i loro sedicenti meriti credono di potere pilotare il giudizio di Dio e di tirarselo dalla loro parte, ma non disprezza il loro amore per la legge di Dio, la giustizia e lo sforzo di inculcarlo nel cuore degli uomini (Cf. Mt 23,3).
Il fariseo stando in piedi... Il fariseo è l’immagine dell’uomo amato, adulato, onorato dal mondo per quello che ha e per quello che fa, per il posto sociale che occupa, e non per quello che è.
Digiuno due volte... Il fariseo va al di là delle prescrizioni: digiuna il Lunedì e il Giovedì, mentre questa pratica penitenziale è prescritta una volta all’anno, nel giorno dell’espiazione (Kippur). Così per la decima. La legge comanda il pagamento della decima sui principali prodotti (Dt 14,22-23); il fariseo invece, la paga su tutti i prodotti e per questo si ritiene più giusto degli altri.
Il pubblicano... non osava alzare gli occhi al cielo... Sulla sponda opposta il pubblicano, il quale stava a distanza e non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo. I pubblicani sono i “senza legge”, “gente maledetta” (Gv 7,49), o per il mestiere che esercitavano o perché collaborazionisti dell’odiato potere romano. La partita doppia di questo povero uomo non ha voci né di credito né di debito; il pubblicano sa soltanto battersi il petto e chiedere perdono di tutti i suoi peccati: pensieri, parole, opere ed omissioni. E forse nella conta esagerava un po’!
Io vi dico... Umiltà, fede, preghiera, penitenza..., queste sono le vie maestre che conducono l’uomo al cuore di Dio e obbligano Dio a volgere il suo sguardo pietoso sulla creatura: «Su chi volgerò lo sguardo? Sull’umile e su chi ha lo spirito contrito e su chi trema alla mia parola» (Is 66,2).
Negli ultimi versetti della parabola possiamo cogliere così «l’idea centrale della parabola e dell’insegnamento di Gesù: ciò che ci rende giusti, graditi a Dio, non sono i nostri meriti, le nostre virtù. Ciò che vi è di nostro in noi ci allontana da Dio, solo ciò che vi è di suo in noi ci avvicina a lui: il suo perdono e la sua grazia, accompagnati, da parte nostra, dalla penitenza e dalla fede» (CARLO GHIDELLI, Luca - Edizioni Paoline).
 
La virtù dell’umiltà: la persona e l’insegnamento di Gesù - Giuseppe Barbaglio (Umiltà in Schede Bibliche Pastorali): Premettiamo un necessario riferimento al Magnificat, nel quale Maria interpreta poeticamente il senso dell’evento dell’annunciazione: ella loda Dio «perché ha guardato l’umiltà della sua serva» (Lc 1,48). Non si tratta però di un caso sporadico; è legge dell’agire divino quella dell’esaltazione dell’umile e dell’abbassamento del superbo: «...ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili» (Lc 1,52).
Maria, come anche Anna, la madre di Samuele, nell’Antico Testamento (Cf. Gdc 1,11), ha valore paradigmatico. Il detto: «Chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato», che sottintende l’intervento di Dio a umiliare ed esaltare, come già nell’Antico Testamento era stato ripetuto più volte, compare tre volte nei testi dei sinottici e tutte a conclusione di un brano, posta a suggello del senso di quanto precede. Così Luca conclude la pericope riguardante la scelta dei primi posti da parte degli invitati a un banchetto (14,11): un modo per chiarire l’insegnamento di Gesù sull’umiltà. Lo stesso evangelista mette questa conclusione anche alla fine della parabola del fariseo e del pubblicano (18,14): Dio che umilia il superbo ed esalta l’umile si è manifestato a proposito del fariseo e del pubblicano della parabola. Matteo se ne serve invece per chiudere l’esortazione ai discepoli a non ambire titoli gloriosi all’interno della comunità e, positivamente, a perseguire la grandezza consistente nel servizio reso ai fratelli (23,12).
Sempre il primo evangelista ha costruito un bel brano incentrato sull’umiltà necessaria per entrare nel regno finale di Dio (18,15). Introduce il brano la domanda dei discepoli: «Chi dunque è il più grande nel regno dei cieli?». Gesù risponde con un’azione simbolica, tipica dei profeti nell’Antico Testamento: prende un bambino, lo mette in mezzo a loro e dice: «In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno di Dio». Dunque la condizione impreteribile per l’ingresso nel regno futuro di Dio è far proprio un atteggiamento spirituale di umiltà che trova nei bambini una realizzazione naturale: ciò che i bambini sono per se stessi, esseri umili e deboli, deve diventare un tratto della condotta e del sentire interno delle persone. Che sia in questione il motivo dell’umiltà, della bassezza appare dal detto successivo: «Perciò chiunque si umilierà (tapeinósei: ns. trad.) come questo bambino, sarà il più grande nel regno dei cieli». Un modo per esprimere la classica antitesi di Dio che esalta gli umili e abbassa i superbi; con questa particolarità: il ribaltamento avverrà alla fine. Il detto dunque ha valore escatologico; il che peraltro è tutt’altro che sconosciuto nell’Antico Testamento.
Gesù però non ha solo parlato della necessità di essere umili, ma ha incarnato nella sua persona l’umiltà. Ne è testimonianza Mt 11,29: «Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me che sono mite (prays) e umile di cuore (tapeinos téi kardiai) e troverete ristoro per le vostre anime». L’immagine del giogo sta a indicare il peso della legge imposto alle persone. Nel contesto immediato del detto: «Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi e io vi ristorerò» (v. 28); «Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero» (v. 30) si precisa l’antitesi tra il peso della legge giudaica che opprime le persone con l’infinito numero delle sue prescrizioni e dei suoi divieti e il giogo della sequela di Cristo, che è tutt’altro che oppressivo.
Gesù afferma di essere maestro mansueto e umile di cuore, da cui i discepoli suoi devono imparare. In concreto «Gesù è tapeìnos dinanzi a Dio, sottomesso a lui. L’aggiunta a tapeinos di téi kardiaì rende chiaro che egli non è tale in forza di una necessità imposta, alla quale si sia sottomesso, bensì nella libertà e nell’assenso a questa via in cui Dio l’accompagna. Gesù è tapeinos anche rispetto agli uomini, di cui diventa il servitore e il soccorritore (Lc 22,27; Mt 20,28; Mc 10,45). Questo aspetto del suo essere tapeinos è espresso con prays. Egli si trattiene in compagnia dei peccatori e dei disprezzati, ponendosi in questo modo come modello per i suoi discepoli» (GLNT, XIII, 877).
 
Compostella (Messale per la Vita Cristiana): Se siamo onesti, dobbiamo riconoscere che noi tutti abbiamo la tendenza a compiacerci di noi stessi.
Forse perché pratichiamo molto fedelmente la nostra religione, come quel zelante fariseo, pensiamo di dover essere considerati « per bene ».
Non abbiamo ancora capito queste parole di Dio in Osea: « Voglio l’amore e non il sacrificio » (Os 6,6). Invece di glorificare il Padre per quello che è, il nostro ringraziamento troppo spesso riguarda ciò che noi siamo o, peggio, consiste nel confrontarci, in modo a noi favorevole, con gli altri. È proprio questo giudizio sprezzante nei confronti dei fratelli che Gesù rimprovera al fariseo, così come gli rimprovera il suo atteggiamento nei confronti di Dio.
Durante questa Quaresima, supplichiamo Gesù di cambiare radicalmente il no tra spirito e il nostro cuore, e di darci l’umiltà del pubblicano che invece ha scoperto l’atteggiamento e la preghiera « giusti » di fronte a Dio. Non comprenderemo mai abbastanza che il nostro amore è in stretta relazione con la nostra umiltà. La cosa migliore che possiamo fare di fronte a Dio, in qualsiasi misura ci pretendiamo santi, è di umiliarci di fronte a Dio. Ci sono dei momenti in cui non riusciamo a rendere grazie in modo sincero; allora possiamo far la preghiera del pubblicano, possiamo cioè approfittare della nostra miseria per avvicinarci a Gesù: « O Dio, abbi pietà di me peccatore». Gesù esaudisce sempre questa preghiera.
L’umiltà non ha niente a che vedere con un qualsiasi complesso di colpa o con un qualsiasi sentimento di inferiorità. È una disposizione d’amore; essa suppone che sappiamo già per esperienza che il nostro stato di peccatori attira l’amore misericordioso del Padre, poiché « chi si umilia sarà esaltato».
Essa suppone cioè che siamo entrati nello spirito del Magnificat.
 
Dio non preferisce il peccatore a chi non ha peccato - Origene, Contra Celsum, 3, 64: Dato che egli aggiunge: «Perché dunque questa preferenza accordata ai peccatori?» e cita opinioni analoghe, per rispondere dirò: il peccatore non è assolutamente preferito a chi non ha peccato. Capita che un peccatore che ha preso coscienza della sua colpa, e per tal motivo progredisce sulla via della conversione umiliandosi per i suoi peccati, venga preferito ad un altro che si riguarda come meno peccatore, e che, lungi dal credersi peccatore, si gonfia di orgoglio per certe qualità superiori che crede di possedere. È quel che rivela a chi legge lealmente il vangelo la parabola del pubblicano che dice: “Abbi pietà di me peccatore”, mentre il fariseo, con sufficienza perversa, si gloriava dicendo: “Ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, rapaci, ingiusti, adulteri, e neppure come quel pubblicano”. Gesù, infatti, conclude il suo discorso sui due uomini: “Il pubblicano scese a casa sua giustificato, al contrario dell’altro, poiché chi si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato” (Lc 18,13; 1,14).
Siamo ben lontani, perciò, «dal bestemmiare Dio e dal mentire», insegnando ad ogni uomo, chiunque esso sia, a prendere coscienza della propria umana piccolezza in rapporto alla grandezza di Dio, e a chiedere incessantemente ciò che manca alla nostra natura a colui che solo può colmare le nostre insufficienze.
 
Il Santo del giorno  - 29 Marzo 2025 - San Marco di Aretusa. La verità e la comunione sono due beni da amministrare con profonda saggezza - Senza se e senza ma, sempre dalla parte di ciò che è vero, perché le ambiguità del mondo aprono alle più profonde ferite: i testimoni del Vangelo sanno che il patrimonio di fede loro affidato è un tesoro prezioso per l’umanità. Per questo lo difendono fino alla fine, anche amministrandolo con saggezza di fronte alle minacce e agli assalti dei prepotenti, che creano divisioni e lotte fratricide. A dimostrarlo sono le storie come quella di san Marco di Aretusa, vescovo del IV secolo della città siriana che oggi è Er Rastan. Accusato inizialmente di non essere abbastanza deciso contro l’arianesimo (forse perché preoccupato proprio della ferita provocata dalla diffusione dell’eresia e non volendo creare spaccature ancora più profonde nella Chiesa), nel 360 Marco chiarì la sua ortodossia e questo fece sparire i “sospetti” su di lui. Nel 361 fu costretto a fuggire a causa della presa di potere di Giuliano l’Apostata che voleva restaurare il paganesimo.
Tornò, però, quando venne a sapere che i preti erano stati imprigionati. Marco aveva fatto distruggere un tempio pagano e questo, al suo ritorno, gli costò l’arresto e le torture, alle quali, però, sopravvisse. Si dedicò all’evangelizzazione dei pagani fino alla morte nel 364 e la sua eredità è un chiaro invito a scegliere sempre la difesa della verità e la cura della comunione. (Matteo Liut)
 
Dio di misericordia, concedi a noi
di celebrare sempre con sincera devozione
e di ricevere con spirito di fede
i sacramenti che ci doni
con inesauribile larghezza.
Per Cristo nostro Signore.

ORAZIONE SUL POPOLO ad libitum
 
Stendi la tua mano, o Signore, a difesa dei tuoi fedeli
perché ti cerchino con tutto il cuore
e vedano esauditi i loro giusti desideri.
Per Cristo nostro Signore.