5 OTTOBRE 2024
 
Sabato XXVI Settimana T. O.
 
Gb 42,1-3.5-6.12-16; Salmo Responsoriale Dal Salmo 118 (119); Lc 10.17-24
 
Colletta
O Dio, che riveli la tua onnipotenza
soprattutto con la misericordia e il perdono,
continua a effondere su di noi la tua grazia,
perché, affrettandoci verso i beni da te promessi,
diventiamo partecipi della felicità eterna.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.  
 
Catechismo degli Adulti - Gesù rivela il Padre misericordioso [197]: Gesù sa di essere in totale sintonia con la misericordia del Padre. Dio ama per primo, appassionatamente; va a cercare i peccatori e, quando si convertono, fa grande festa: «Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta, finché non la ritrova? Ritrovatala, se la mette in spalla tutto contento, va a casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta» (Lc 15,4-6).
L’unità di Gesù con il Padre è tale, che egli si attribuisce perfino il potere divino di rimettere i peccati, sebbene si levi intorno un mormorio di riprovazione e l’accusa di bestemmia: «Che cosa è più facile: dire al paralitico: Ti sono rimessi i peccati, o dire: Alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina? Ora, perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere sulla terra di rimettere i peccati, ti ordino - disse al paralitico - alzati, prendi il tuo lettuccio e va’ a casa tua» (Mc 2,9-11).
 
Prima Lettura -  Giobbe, confessando e riconoscendo che tutto è guidato dalla sapienza e dalla onnipotenza di Dio, ritratta le accuse che aveva precedentemente mosso contro i disegni e la provvidenza di Dio. In conclusione, Giobbe ha saputo con la sua fede dare al lettore la soluzione al problema del giusto che soffre, e al problema del male che nonostante tutto, per permissione di Dio, impera nel mondo.
Giobbe ebbe anche sette figli e tre figlie. Alla prima mise nome Colomba, alla seconda Cassia e alla terza Argentea: I nomi “intendono mettere in luce la bellezza delle tre figlie e si riferiscono al triplice regno: animale, vegetale e minerale. Colomba è l’appellativo che lo sposo, affascinato e innamorato, dà alla sua donna [Ct 2,14; 5,2; 6,9]. Cassia, essenza aromatica derivata da una pianta orientale, è uno dei tre profumi citati dal Sal 45 nel descrivere le vesti di nozze del re [Sal 45,9]. Argentea vorrebbe rendere, per un lettore moderno, il significato di un’espressione ebraica piuttosto oscura, tradotta talvolta con “Fiala di stibio”; lo stibio [o antimonio], minerale dal colore argenteo, veniva usato dalle donne del Vicino oriente per rendere più splendente il loro volto.” (Bibbia di Gerusalemme, nota a Gb 42,14).
 
Vangelo
Rallegratevi perché i vostri nomi sono scritti nei cieli.
 
Il vero motivo della gioia dei missionari non va cercato nel loro potere sulle forze infernali, ma nel fatto che Dio ha scritto i loro nomi nel libro della vita. Pieno di gioia per la venuta del regno testimoniata dalla sconfitta di Satana, Gesù eleva allora un rendimento di grazie al Padre, che si rivela ai piccoli. I sapienti e i dotti sono i rabbini e farisei che per il loro orgoglio religioso restano ciechi di fronte all’annuncio di Gesù, i piccoli, invece, sono gli uomini senza cultura, senza competenza religiosa, i poveri delle beatitudini che per la loro umiltà sanno aprirsi alla novità del Vangelo.
 
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 10,17-24
 
In quel tempo, i settantadue tornarono pieni di gioia, dicendo: «Signore, anche i demòni si sottomettono a noi nel tuo nome».
Egli disse loro: «Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore. Ecco, io vi ho dato il potere di camminare sopra serpenti e scorpioni e sopra tutta la potenza del nemico: nulla potrà danneggiarvi. Non rallegratevi però perché i demòni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli».
In quella stessa ora Gesù esultò di gioia nello Spirito Santo e disse: «Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio e nessuno sa chi è il Figlio se non il Padre, né chi è il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo».
E, rivolto ai discepoli, in disparte, disse: «Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete. Io vi dico che molti profeti e re hanno voluto vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono».
 
Parola del Signore.
 
Vedevo satana cadere dal cielo come la folgore - Javer Pikaza (Commento della Bibbia Liturgica): In questo brano evangelico è chiarito il contenuto della missione dei discepoli di Cristo. Tornano i settantadue inviati (cf 10,1), e Gesù svela tutta la profondità della loro opera. Il tema è sviluppato in due unità differenti, benché leggermente parallele (10,17-20 e 10,21 24). Prescindendo dalle considerazioni letterarie, facciamo solo notare l’unità della tematica sviluppando uno per uno i diversi aspetti del racconto.
a) La missione cristiana (e tutta l’opera di Gesù fra gli uomini) è interpretata partendo dalla caduta di satana (10,18). Il tema appartiene al mito apocalittico nel quale si accenna alla presenza del diavolo in cielo. Certamente, il suo posto e la sua funzione si differenziano dal posto e dalla funzione di Dio, ma si pensa che satana abbia posto il suo trono nelle sfere superiori e domini, di lassù, tutto il movimento degli uomini nel mondo.
Orbene, la predicazione di Gesù e della Chiesa è interpretata come la sconfitta di satana che, detronizzato, cade nel baratro e perde il potere sugli uomini. Ap 12 ha inserito questa caduta nel concetto d’insieme della storia. Luca, trasmettendo forse una vecchia parola di Gesù, si è contentato di presentare il fatto: la missione cristiana è l’avvenimento cosmico nel quale si sta giocando il destino della realtà (la presenza di Dio, la sconfitta del maligno).
b) Alla luce di questa esperienza si comprende la funzione dei missionari. La loro vittoria su satana si traduce nel fatto che essi sono capaci di vincere (o superare) il male del mondo (10,19). Per questo sono detti fortunati: sono fortunati, perché sperimentano quella pienezza messianica che i vecchi profeti e i re d’Israele avevano sospirata (10,23-24) Però la loro vera grandezza sta nei fatto del loro incontro personale con Dio: i loro nomi appartengono al regno dei cieli (10,20). Questa vittoria dei missionari di Gesù sulla forza di satana svela il contenuto più profondo dell’umano. L’uomo non è schiavo degli elementi cosmici, né è sottomesso al potere irrazionale del male, né può darsi per vinto di fronte alla miseria degli altri uomini o del mondo. Gl’inviati di Gesù hanno ricevuto il potere di superare la maledizione della nostra terra; perciò siamo certi che la sorte finale è dalla loro parte.
c) In questa dimensione si scopre la « grandezza » degli uomini. Grandi sono i saggi i quali suppongono che la vita si trovi dalla loro parte, pensano di essere forti e rifiutano l’aiuto che Gesù ha loro offerto. Perciò restano soli. Intanto i piccoli restano aperti al mistero e comprendono (o ricevono) la verità di Gesù Cristo (10,21).
d) Su questo piano si formula una delle rivelazioni definitive del mistero di Gesù. Gesù loda il Padre per il dono concesso ai piccoli (10,21) e scopre l’unione fra sé e il Padre: « Ogni cosa mi è stata affidata dal Padre mio, e nessuno sa chi è il Figlio, se non il Padre ... » (10,22). In questo contesto, conoscersi significa essere uniti. Gesù e il Padre costituiscono un mistero d’unità e di dedizione nel quale penetrano tutti coloro che vogliono ricevere il Cristo.
A modo di conclusione possiamo affermare: la missione è strutturata come espansione di amore nel quale si uniscono Dio e il Cristo (Figlio). Nell’amore, rivelato ai piccoli, ha il suo fondamento la sconfitta delle forze distruttrici della storia (le forze sataniche).
 
O Dio, che riveli la tua onnipotenza soprattutto con la misericordia e il perdono … - Jean Giblet  e Marc-François Lacan: Nella Bibbia, il peccatore è un debitore cui Dio, col suo perdono, rimette il debito (ebr. salah: Num 14, 19); remissione così efficace che Dio non vede più il peccato che è come gettato dietro le sue spalle (Is 38, 17), è tolto (ebr. nasa’: Es 32, 32), espiato, distrutto (ebr. kipper: Is 6, 7). Cristo, usando lo stesso vocabolario, sottolinea che la remissione è gratuita ed il debitore insolvibile (Lc 7, 42; Mt 18, 25 ss). La predicazione primitiva ha come oggetto, insieme al dono dello Spirito, la remissione dei peccati, che ne è il primo effetto, e che essa chiama «àfesis» (Lc 24, 47; Atti 2, 38; cfr. il Post-communio del martedì di Pentecoste). Altri termini: purificare, lavare, giustificare, compaiono negli scritti apostolici che insistono sull’aspetto positivo del perdono, riconciliazione e riunione.
IL DIO DI PERDONO - Proprio di fronte al peccato il Dio geloso (Es 20, 5) si rivela un Dio di perdono. La apostasia, che segue all’alleanza e che meriterebbe la distruzione del popolo (Es 32, 30 ss), è per Dio l’occasione di proclamarsi «Dio di tenerezza e di pietà, tardo all’ira, ricco di grazia e di fedeltà... che tollera colpa, trasgressione e peccato, ma non lascia nulla impunito...»; Mosè quindi può pregare con sicurezza: «È un popolo di dura cervice. Ma perdona le nostre colpe ed i nostri peccati, e fa’ di noi la tua eredità!» (Es 34, 6-9). Umanamente e giuridicamente, il perdono non trova giustificazione. Il Dio santo non deve rivelare la sua santità mediante la sua giustizia (Is 5, 16) e colpire coloro che lo disprezzano (5, 24)? Come potrebbe contare sul perdono la sposa infedele all’alleanza che non arrossisce della sua prostituzione (Ger 3, l-5)? Ma il cuore di Dio non è quello dell’uomo, ed il Santo non si compiace nel distruggere (Os 11, 8 s); lungi dal volere la morte del peccatore, egli ne vuole la conversione (Ez 18, 23) per poter prodigare il suo perdono; infatti «le sue vie non sono le nostre vie», e «i suoi pensieri superano i nostri pensieri» di tutta l’altezza del cielo (Is 55, 7 ss). Questo appunto rende così fiduciosa la preghiera dei salmisti: Dio perdona al peccatore che si accusa (Sal 32, 5; cfr. 2 Sam 12, 13); lungi dal volere la sua perdita (Sal 78, 38), lungi dal disprezzarlo, egli lo ricrea, purificando e colmando di gioia il suo cuore contrito ed umiliato (Sal 51, 10-14. 19; cfr. 32, 1-11); fonte abbondante di redenzione, egli è un padre che perdona tutto ai suoi figli (Sal 103, 3. 8-14). Dopo l’esilio non si cessa di invocare il «Dio dei perdoni» (Neem 9, 17) e «delle misericordie» (Dan 9, 9), sempre pronto a pentirsi del male di cui ha minacciato il peccatore, se questi si converte (Gioe 2, 13); ma Giona, che è il tipo del particolarismo di Israele, è sconcertato nel vedere questo perdono offerto a tutti gli uomini (Giova 3, 10; 4, 2); al contrario, il libro della Sapienza canta il Dio che ama tutto ciò che ha fatto ed ha pietà di tutti, che chiude gli occhi sui peccati degli uomini affinché si pentano, li castiga a poco a poco e ricorda loro ciò in cui essi peccano affinché credano in lui (Sap 11, 23 - 12, 2); manifesta in tal modo di essere l’onnipotente di cui è proprio il perdonare (Sap 11, 23. 26; cfr. la colletta della domenica X dopo Pentecoste e l’Oremus delle litanie dei santi).
IL PERDONO DI DIO PER MEZZO DI CRISTO - Al pari di Israele (Lc 1, 77), Giovanni Battista attende quindi la remissione dei peccati e predica un battesimo che ne è la condizione: «Fate penitenza, altrimenti colui che viene vi battezzerà nel fuoco»; per lui questo fuoco è quello dell’ira e del giudizio, quello che consuma la pula, una volta separato il buon grano (Mt 3, 1-12). Questa prospettiva rimane quella dei discepoli di Giovanni che hanno seguito Gesù; essi vogliono far cadere il fuoco dal cielo su coloro che si chiudono alla predicazione del maestro (Lc 9, 54). E Giovanni Battista si pone un interrogativo (cfr. Lc 7, 19-23), sentendo che Gesù non soltanto invita i peccatori a convertirsi ed a credere (Mt 1, 15), ma proclama di essere venuto soltanto per guarire e perdonare.
L’annunzio del perdono - Di fatto Gesù, pur essendo venuto a gettare il fuoco sulla terra (Lc 12, 49), non è mandato dal Padre suo come giudice, ma come salvatore (Gv 3, 17 s; 12, 47).Egli chiama alla conversione tutti coloro che ne hanno bisogno (Lc 5, 32 par.) e suscita questa conversione (Lc 19, 1-10) rivelando che Dio è un Padre la cui gioia sta nel perdonare (Lc 15) e la cui volontà è che nessuno si perda (Mt 18, 12 ss). Gesù non annunzia soltanto questo perdono al quale si apre l’umile fede, mentre l’orgoglio vi si chiude (Lc 7, 47-50; 18, 9-14), ma lo esercita ed attesta mediante le sue opere che dispone di questo potere riservato a Dio (Mc 2, 5- 11 par.; cfr. Gv 5, 21).
 
L’aiuto ci viene da Cristo - Constitutiones Apostolor., VIII, 1, 3 s.: “Non rallegratevi però perché i demoni vi obbediscono; rallegratevi piuttosto che i vostri nomi sono scritti in cielo” (Lc 10,20); quando invero questo avvenga per opera sua (di Cristo), anche se con la nostra volontà ed impegno, dobbiamo esser convinti che siamo stati aiutati da lui. Non dunque è necessario che ogni fedele scacci i demoni o susciti i morti o parli le lingue, bensì colui che è fatto degno di un carisma per una causa utile in vista della salvezza degli infedeli, i quali, spesso, non per la esatta spiegazione mediante discorsi ma ad opera di segni si convertono, e quelli che precisamente sono degni di salvezza.
 
Il Santo del Giorno - 5 Ottobre 2024 - Sant’Anna Schaeffer:La storia della beata Anna Schaeffer (1882-1925) è il racconto di come Dio sa trasformare i progetti degli uomini. Mandando all’aria anche quelli che noi gli penseremmo più congeniali. La giovanissima Anna, bavarese, voleva andare missionaria in terre lontane.
Di umilissime origini per raccogliere la «dote» allora necessaria per entrare in convento era andata a servizio presso una famiglia benestante. Ma all’improvviso la morte del padre la costringe a rimandare quel progetto: ci sono cinque fratelli e sorelle più piccole da aiutare. «Aspetterò che diventino grandi», pensa Anna. Ma un incidente nella lavanderia dove lavora la costringe inferma in un letto. A 21 anni è l’inizio di un vero e proprio Calvario, durissimo da accettare. Ma è anche l’inizio di una serie di illuminazioni. Quel letto, a poco a poco, diventa un punto di riferimento per tante persone che vengono da lei a chiedere consiglio. La missione che pensava di vivere in terre lontane la realizza nella sua stanza. Morirà il 5 ottobre 1925. È stata proclamata beata nel 1999 e santa nel 2012. (Avvenire)

Questo sacramento di vita eterna
ci rinnovi, o Padre, nell’anima e nel corpo,
perché, annunciando la morte del tuo Figlio,
partecipiamo alla sua passione
per diventare eredi con lui nella gloria.
Egli vive e regna nei secoli dei secoli.
 
 
 4 OTTOBRE 2024
 
San Francesco d’Assisi Patrono d’Italia
 
Gal 6,14-18; Salmo Responsoriale Dal Salmo 15 (16); Mt 11,25-30
 
Colletta
O Padre, che hai concesso a san Francesco [d’Assisi]
di essere immagine viva di Cristo povero e umile,
fa’ che, camminando sulle sue orme,
possiamo seguire il tuo Figlio e unirci a te in carità e letizia.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Maurizio De Paoli (Famiglia Cristiana 3 Ottobre 2013): La devozione dei Papi per san Francesco d’Assisi affonda le radici fin nei tempi in cui il santo visse e fu protagonista di una delle più radicali esperienze di riforma della Chiesa. Ma nell’ultimo secolo si è avuto un significativo “ritorno” dei Papi ad Assisi. E non solo per via dei numerosi pellegrinaggi compiuti  nella città umbra dal 1962 ad oggi. Il gesto più significativo resta quello di Pio XII che il 18 giugno 1939, firma un Breve con il quale proclama Francesco d’Assisi e Caterina da Siena patroni d’Italia.
Così papa Pacelli sintetizza l’impegno del fondatore dell’ordine dei frati minori: “San Francesco poverello e umile, vera immagine di Gesù Cristo, diede insuperabili esempi di vita evangelica ai cittadini di quella sua tanto turbolenta età, e ad essi anzi, con la costituzione del suo triplice ordine aprì nuove vie e diede maggiori agevolezze, per la correzione dei pubblici e privati costumi e per un più retto senso dei principi della vita cattolica”.
A Pio XII sembra fare eco Giovanni XXIII, pellegrino ad Assisi il  4 ottobre 1962: “San Francesco ha compendiato in una sola parola il ben vivere, insegnandoci come dobbiamo valutare gli avvenimenti, come metterci in comunicazione con Dio e con i nostri simili. Questa parola dà il nome a questo colle che incorona il sepolcro glorioso del Poverello: Paradiso, Paradiso!”.  Il 5 novembre 1978 Giovanni Paolo II, eletto Papa il 18 ottobre, raggiunge Assisi. E lo fa dando a questo pellegrinaggio il valore  di una “nascita”, parole che lui stesso spiega così: “Eccomi ad Assisi in questo giorno che ho voluto dedicare in modo particolare ai santi patroni di questa terra: l’Italia; terra alla quale Dio mi ha chiamato perché possa servire come successore di San Pietro. Dato che non sono nato su questo suolo, sento più che mai il bisogno di una “nascita” spirituale in esso”.   Papa Wojtyla dedica quindi al santo una preghiera che ha la suggestione di una poesia: “Aiutaci, San Francesco d’Assisi, ad avvicinare alla Chiesa e al mondo di oggi il Cristo. Tu, che hai portato nel tuo cuore le vicissitudini dei tuoi contemporanei, aiutaci, col cuore vicino al cuore del Redentore, ad abbracciare le vicende degli uomini della nostra epoca”.   
Infine, un intenso ritratto spirituale di san Francesco è quello che Benedetto XVI gli dedica all’Angelus durante la visita pastorale ad Assisi il 17 giugno 2007: “Francesco d’Assisi è un grande educatore della nostra fede e della nostra lode. Innamorandosi di Gesù Cristo egli incontrò il volto di Dio-Amore, ne divenne appassionato cantore, come vero “giullare di Dio”. Alla luce delle Beatitudini evangeliche si comprende la mitezza con cui egli seppe vivere i rapporti con gli altri, presentandosi a tutti in umiltà e facendosi testimone e operatore di pace”.         
    
Prima Lettura -  José Maria González-Ruiz (Commento della Bibbia Liturgica): La croce segna il confine obbligato fra una situazione e l’altra: nella croce è stata spezzata una possibilità d’esistenza, quella della « carne », e ne è stata inaugurata una nuova, lo « spirito ». Il cristiano, per la sua incorporazione a Cristo, accetta questa liquidazione avvenuta radicalmente sulla croce. La «carne», il «mondo», cioè la situazione storica della disperazione umana è stata annullata sulla croce. Le pretese dei giudaizzanti supponevano un ritorno allo «statu quo» precedente, un ritorno a quella situazione disperata dell’uomo-Adamo che, come un Tantalo assetato, non poteva mai saziare la sete della sua esistenza storica.
Effettivamente, al di là della croce, è stata ormai trascesa l’alternativa storica: paganesimo o giudaismo, circoncisione o incirconcisione, poiché «non è la circoncisione che conta, né la non circoncisione, ma l’essere nuova creatura».
In una parola, il cristianesimo non è propriamente una religione, anche se, indubbiamente, è religione per i suoi legami con Dio. Attraverso la sua storia, si potranno avere diverse forme religioso culturali che servano di
ambiente congiunturale e geografico allo stesso messaggio di Gesu Ai tempi di Paolo, il pericolo consisteva nell’introdurre l’alternativa: giudaismo cristiano o paganesimo cristiano. Ai nostri giorni, le alternative si potrebbero moltiplicare e dire, per esempio: democrazia cristiana o marxismo cristiano.
Paolo crede d’aver esaurito il tema e mette fine alla sua lettera: «D’ora innanzi nessuno mi procuri fastidi; difatti io porto le stimmate di Gesù nel mio corpo».
L’elemento specifico di un apostolo è che, in lui, si riproduce questa dimensione peculiare dell’essere di Cristo: il dolore redentore. Un araldo della parola di Dio non se ne potrà stare nella tranquillità anodina d’un pulpito ben ornato. In concreto, questo «soffrire per Cristo» è cosa quasi visibile nel corpo sofferente di Paolo: sono i «segni» («stigmata») di Gesù. La parola che compare solo qui nel NT indicava i segni (lettere, tatuaggi o incisioni rosse) che ricordavano l’appartenenza d’uno schiavo al suo padrone o di un iniziato al suo culto e al suo dio. A questa idea di appartenenza si aggiungeva quella di minaccia: toccare uno schiavo o un iniziato era come esporsi alla vendetta del suo padrone o del suo dio.
Paolo, carico d’una lunga storia di peripezie apostoliche (2Cor 11,23-29), è come uno schiavo di Cristo che porta sul suo corpo il tatuaggio del suo Signore. Nessuno, dunque, osi toccarlo, per non esporsi alla vendetta del suo padrone. In più, egli ha già dimostrato abbastanza la sua autenticità apostolica; e perché mai i galati vogliono accumulare sulle sue stanche spalle nuovi «segni» di «sforzi» dolorosi?
In una parola, il banditore della parola dovrà affrontare l’inevitabile reazione violenta che questa parola provoca in una società egoista, ambiziosa e invidiosa. Ma, al tempo stesso, dovrà evitare la tentazione del masochismo; perciò Paolo, ormai quasi stremato per il suo lavoro, chiede che i galati gli concedano, per favore, un respiro nella sua lunga peregrinazione evangelizzatrice.
 
Vangelo
Hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli.
 
Dal Vangelo secondo Matteo
Mt 11,25-30
 
In quel tempo Gesù disse: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza.
Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo.
Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero».
 
Parola del Signore.
 
Benedetto Prete (Vangelo secondo Matteo): 25 Il passo 11, 25-27 non ha un nesso stretto con il contesto; Mt. lo introduce con un’espressione indeterminata (in quel tempo). Il versetto è concepito ed espresso alla maniera semitica; Cristo “benedice” (altri traducono: io ti lodo; io ti celebro) il Padre non per aver nascosto i misteri del regno (cf. Mt., 13, 11) ai sapienti, ma per averli rivelati ai piccoli. I sapienti sono i Farisei ed i loro dottori; i piccoli (letteralm.: i fanciulli, gli infanti) designano i discepoli. Agli umili, ai semplici, ai sinceri è dato penetrare nel mistero del regno di Dio; a coloro invece che vanno superbi per la propria conoscenza della Scrittura (la Legge) non è dato penetrare nel piano della sapienza divina (cf. 1 Corinti, 1, 19-31). La vera sapienza che Cristo richiede non è lo studio compiacente della Legge, ma l’accettazione delle verità che egli annunzia. L’abbandono fiducioso dei semplici a Cristo permette loro di superare le difficoltà che presentano i misteri della rivelazione. Il detto supera la circostanza storica che lo ha suggerito al Maestro; esso non è rivolto unicamente agli Ebrei presenti, ma agli uomini di ogni tempo. Non l’intelligenza altera e soddisfatta di sé, ma l’intelligenza umile e sinceramente aperta alla verità accoglie il mistero di Dio e ne intravede le manifestazioni create. Le verità propriamente eccelse non sono quelle che l’uomo scopre con la perspicacia della sua intelligenza, ma quelle che Dio gli rivela. Giustamente questo versetto è considerato come «la perla» del Vangelo di Matteo.
27 Passo di stile giovanneo. Il testo dimostra che la tradizione dei Sinottici conosceva la filiazione divina di Cristo. Gesù ha tutto ciò che possiede il Padre e lo manifesta a chi vuole. La presenza in Matteo e Luca (Lc., 10, 21-22) di questo passo di contenuto giovanneo costituisce una preziosa testimonianza per la storicità del IV vangelo.
28 Cristo esige l’accettazione della sua legge. Il giogo era una metafora usuale per designare la Legge (cf. Geremia, 5, 5; Ecclesiastico, 51, 34; Atti, 15, 10). Affaticati e carichi; la Legge antica era un giogo pesante ed i Farisei l’avevano ancora aggravato con l’aggiunta d’innumerevoli prescrizioni. Gesù concede il sollievo a chi lo segue, perché egli non impone una religiosità fatta d’infinite e gravose pratiche esterne, come voleva l’ebraismo ufficiale del suo tempo.
29 Prendete su di voi il mio giogo; cioè: prendete la legge che Cristo insegna, oppure: lasciatevi istruire da me. Gesù è il perfetto Maestro nella legge, perché egli la promulga e la spiega con mitezza ed umiltà di cuore. Quella legge che è suggerita dalla bontà porta sollievo alle anime.
30 Cristo impone ai propri sudditi una legge amabile (giogo soave); egli infatti perfezionando la legge antica l’ha resa leggera. In tutto il passo (11, 28-30) il lettore avverte una punta polemica contro l’opprimente legalismo dei Farisei, considerati dal popolo come interpreti e maestri qualificati della legge.
 
Fratelli, quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo Settimio Cipriani (Le Lettere di Paolo): 12-16 Contrariamente ai Giudaizzanti, che predicano la «circoncisione» al solo scopo di sfuggire alla «persecuzione» per il nome di Cristo (cfr. 5, 11) e «gloriarsi» davanti agli altri nel numero dei loro adepti (vv. 12-13), l’Apostolo pone la sua gloria nella croce di Cristo: per questo egli sente che il «mondo» per lui è ormai scomparso, «crocifisso» (v, 14), diventato oggetto di obbrobrio e di ripulsa, così come era per gli antichi il patibolo della croce. Non si poteva esprimere con una formula più efficace questo insanabile contrasto fra chi intenda vivere la propria fede sul serio e tutto ciò che è fermento di male!
Per «mondo» si deve intendere la realtà creata non in quanto tale ma in quanto, a causa del peccato, ritrae dal servizio di Dio e favorisce le voglie della carne (5, 17-21; 1Cor. l, 20; 2Cor. 4, 4; Efes. 2, 2 ecc. Cfr. Giov. 1, 1,10). Fra questo «mondo» e Paolo c’è una incompatibilità reciproca (v. 14). L’unica cosa che ormai vale è la «creatura nuova» (v. 15. Cfr. 2Cor. 5, 17), che è nata dal costato di Cristo crocifisso, per cui solo i «crocifissi» come Paolo possono far parte del regno della redenzione (cfr. 5, 24).
In tal maniera e seguendo questa via della croce, essi diventano il vero «Israele di Dio» (cfr. 3,29; Rom. 9,6-8), in opposizione all’Israele «secondo la carne» (lCor. 10, 18), e saranno oggetto di «pace» e di «misericordia» da parte di Dio (v. 16).
17-18 Con una frase energica e pittoresca, da uomo seccato, Paolo sconsiglia i Giudaizzanti di intralciargli più oltre il cammino: «D’ora in avanti nessuno mi procuri più fastidi; io infatti porto nel mio corpo le stimmate di Gesù» (v. 17).
Come gli schiavi, specialmente quelli fuggitivi, ricevevano un marchio fatto con ferro rovente sul loro corpo quale segno di appartenenza al padrone, così Paolo, «schiavo di Cristo» (l, 10; Rom. l, 1), può mostrare nel suo corpo tutte le lividure, le percosse, i segni delle sofferenze più atroci affrontate per Cristo nel corso del suo lungo apostolato (2Cor. 6, 4-5; 11, 23-25): queste sono le sue «stimmate».
Davanti ai segni del «sangue» nessuno potrà più contestare la legittimità del suo apostolato e i diritti che egli aveva acquisito sulle cristianità di Galazia, alle quali manda un ultimo, dolcissimo saluto: «La grazia del Signore nostro Gesù Cristo sia con il vostro spirito, fratelli! Amen» (v. 18).
 
Papa Francesco (Discorso 31 Ottobre 2021): Dopo otto secoli, San Francesco resta comunque un mistero. Così come resta intatta la domanda di fra’ Masseo: «Perché a te tutto il mondo viene dietro, e ogni persona pare che desideri di vederti e d’udirti e d’ubbidirti?» (Fioretti, X: FF 1838). Per trovare una risposta occorre mettersi alla scuola del Poverello, ritrovando nella sua vita evangelica la via per seguire le orme di Gesù. In concreto, questo significa ascoltare, camminare e annunciare fino alle periferie.
Ascoltare, in primo luogo. Francesco, davanti al Crocifisso, sente la voce di Gesù che gli dice: “Francesco, va’ e ripara la mia casa”. E il giovane Francesco risponde con prontezza e generosità a questa chiamata del Signore: riparare la sua casa. Ma quale casa? Piano piano, si rende conto che non si trattava di fare il muratore e riparare un edificio fatto di pietre, ma di dare il suo contributo per la vita della Chiesa; si trattava di mettersi a servizio della Chiesa, amandola e lavorando perché in essa si riflettesse sempre più il Volto di Cristo.
In secondo luogo camminare. Francesco è stato un viandante mai fermo, che ha attraversato a piedi innumerevoli borghi e villaggi d’Italia, non facendo mancare la sua vicinanza alla gente e azzerando la distanza tra la Chiesa e il popolo. Questa medesima capacità di “andare incontro”, piuttosto che di “attendere al varco”, è lo stile di una comunità cristiana che sente l’urgenza di farsi prossima piuttosto che ripiegarsi su sé stessa. Questo ci insegna che chi segue san Francesco deve imparare a essere fermo e camminante: fermo nella contemplazione, nella preghiera, e poi andare avanti, camminare nella testimonianza, la testimonianza di Cristo.
Infine, annunciare fino alle periferie. Ciò di cui tutti hanno bisogno è giustizia, ma anche fiducia. Solo la fede restituisce a un mondo chiuso e individualista il soffio dello Spirito. Con questo supplemento di respiro le grandi sfide presenti, come la pace, la cura della casa comune e un nuovo modello di sviluppo potranno essere affrontate, senza arrendersi ai dati di fatto che sembrano insuperabili.
 
L’umiltà del cuore - Origene, In Luc. 8, 5: Dice il Salvatore: “Imparate da me che sono mite e umile di cuore, e troverete riposo alle anime vostre” (Mt 11,29). E se vuoi conoscere il nome di questa virtù, cioè come essa è chiamata dai filosofi, sappi che l’umiltà su cui Dio rivolge il suo sguardo è quella stessa virtù che i filosofi chiamano atyfìa, oppure metriòtes. Noi possiamo peraltro definirla con una perifrasi: l’umiltà è lo stato di un uomo che non si gonfia, ma si abbassa. Chi infatti si gonfia, cade, come dice l’Apostolo, «nella condanna del diavolo» - il quale appunto ha cominciato col gonfiarsi di superbia -; l’Apostolo dice: “Per non incappare, gonfiato d’orgoglio, nella condanna del diavolo” (1Tm 3,6).
 
Il Santo del Giorno - 4 Ottobre 2024 - San Francesco d’Assisi, Patrono d’Italia: Francesco nacque ad Assisi nel 1182, nel pieno del fermento dell’età comunale. Figlio di mercante, da giovane aspirava a entrare nella cerchia della piccola nobiltà cittadina. Di qui la partecipazione alla guerra contro Perugia e il tentativo di avviarsi verso la Puglia per partecipare alla crociata. Il suo viaggio, tuttavia, fu interrotto da una voce divina che lo invitò a ricostruire la Chiesa. E Francesco obbedì: abbandonati la famiglia e gli amici, condusse per alcuni anni una vita di penitenza e solitudine in totale povertà. Nel 1209, in seguito a nuova ispirazione, iniziò a predicare il Vangelo nelle città mentre si univano a lui i primi discepoli insieme ai quali si recò a Roma per avere dal Papa l’approvazione della sua scelta di vita. Dal 1210 al 1224 peregrinò per le strade e le piazze d’Italia e dovunque accorrevano a lui folle numerose e schiere di discepoli che egli chiamava frati, fratelli. Accolse poi la giovane Chiara che diede inizio al secondo ordine francescano, e fondò un terzo ordine per quanti desideravano vivere da penitenti, con regole adatte per i laici. Morì nella notte tra il 3 e il 4 ottobre del 1226. Francesco è una delle grandi figure dell’umanità che parla a ogni generazione. Il suo fascino deriva dal grande amore per Gesù di cui, per primo, ricevette le stimmate, segno dell’amore di Cristo per gli uomini e per l’intera creazione di Dio. (Fonte: www.santiebeati.it)
 
Per i santi misteri che abbiamo ricevuto
concedi a noi, o Signore,
che, imitando la carità e il fervore apostolico di san Francesco [d’Assisi],
gustiamo i frutti del tuo amore
e li diffondiamo per la salvezza di ogni uomo.
Per Cristo nostro Signore.
 
 
 

3 OTTOBRE 2024
 
Giovedì XXVI Settimana T. O.
 
Gb 19,21-27b; Salmo Responsoriale Dal Salmo 26 (27); Lc 10,1-12
 
Colletta
O Dio, che riveli la tua onnipotenza
soprattutto con la misericordia e il perdono,
continua a effondere su di noi la tua grazia,
perché, affrettandoci verso i beni da te promessi,
diventiamo partecipi della felicità eterna.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.  
 
Pacem in terris - Compito immenso 87: A tutti gli uomini di buona volontà spetta un compito immenso: il compito di ricomporre i rapporti della convivenza nella verità, nella giustizia, nell’amore, nella libertà: i rapporti della convivenza tra i singoli esseri umani; fra i cittadini e le rispettive comunità politiche; fra le stesse comunità politiche; fra individui, famiglie, corpi intermedi e comunità politiche da una parte e dall’altra la comunità mondiale. Compito nobilissimo quale è quello di attuare la vera pace nell’ordine stabilito da Dio.
88. Certo, coloro che prestano la loro opera alla ricomposizione dei rapporti della vita sociale secondo i criteri sopra accennati non sono molti; ad essi vada il nostro paterno apprezzamento, il nostro pressante invito a perseverare nella loro opera con slancio sempre rinnovato. E ci conforta la speranza che il loro numero aumenti, soprattutto fra i credenti. È un imperativo del dovere; è un’esigenza dell’amore. Ogni credente, in questo nostro mondo, deve essere una scintilla di luce, un centro di amore, un fermento vivificatore nella massa: e tanto più lo sarà, quanto più, nella intimità di se stesso, vive in comunione con Dio.
Infatti non si dà pace fra gli uomini se non vi è pace in ciascuno di essi, se cioè ognuno non instaura in se stesso l’ordine voluto da Dio. “Vuole l’anima tua - si domanda sant’ Agostino - vincere le tue passioni? Sia sottomessa a chi è in alto e vincerà ciò che è in basso. E sarà in te la pace: vera, sicura, ordinatissima. Qual è l’ordine di questa pace? Dio comanda all’anima, l’anima al corpo; niente di più ordinato”.
 
Prima Lettura - Antonio González-Lamadrid (Commento della Bibbia Liturgica):  Questi versetti costituiscono il punto dialoghi fra Giobbe e i suoi amici.
Nel corso dei loro successivi interventi tanto Giobbe quanto i suoi amici hanno difeso con tenacia e fermezza le loro rispettive posizioni. Giobbe proclama con forza e persino con violenza la sua innocenza, e arriva persino ad affrontare Dio e accusarlo d’essere prepotente e arbitrario (9,1-14; 16,12; cf 23,8-13). Gli amici, ognuno secondo il proprio stile, si riconfermano nella loro tesi di sempre: le contrarietà e le disgrazie che lo hanno colpito dimostrano che Giobbe è peccatore, perché il giusto non può essere castigato.
Nell’impossibilità di dimostrare la sua innocenza a base di discorsi e ragionamenti, Giobbe in primo luogo vorrebbe lasciare scritta la sua difesa perché, un giorno, le generazioni future gli facciano giustizia (vv. 23-24), poi, si appella all’ultimo e supremo vendicatore (vv. 25-27). Il senso dei primi versetti è chiaro: di fronte alla minaccia della morte che prevede inevitabile e imminente, Giobbe intende lasciare una testimonianza scritta della sua innocenza affinché, un giorno, possa essere rivendicata la sua memoria. I versetti 25-27 sono invece i più discussi di tutto il libro. Il problema principale consiste nel sapere se il giudizio, al quale Giobbe si riferisce, debba aver luogo qui sulla terra prima della sua morte o nella vita futura dopo la sua morte. Abbracciare quest’ultima interpretazione equivarrebbe a sostenere che Giobbe spera di essere liberato dallo sheol, per godere d’una vita felice presso Dio. Dato che la fede nella risurrezione e la dottrina dell’immortalità sono assai posteriori al libro di Giobbe, pare difficile poter seguire questa interpretazione.
Il filo logico di questi versetti sarebbe, quindi, il seguente: Giobbe è convinto della sua innocenza e l’ha difesa vigorosamente davanti agli amici e persino davanti a Dio, che ha osato invocare come arbitro. Ma né gli amici né Dio hanno riconosciuto la sua giustizia; quindi, Giobbe si sente abbandonato e ridotto all’impotenza. Nel suo abbandono, gli viene in mente una soluzione: lasciare scritta la difesa perché, un giorno, in futuro, la sua innocenza sia riconosciuta. Ma questa soluzione postuma non  lo convince del tutto, e chiede l’intervento d’un ultimo e supremo vendicatore che gli faccia giustizia qui sulla terra e subito. L’intervento di questo vendicatore convincerebbe tutti, a cominciare da Dio e dai suoi amici, della sua innocenza; e, una volta dichiarato innocente, egli sarà riabilitato anche nel suo aspetto fisico e potrà «vedere Dio», nel senso che Dio cesserà di essere il suo avversario e si trasformerà in un suo amico affezionato.
La figura del «vendicatore» (in ebraico, «go’el») è presa dal diritto israelita. È il termine tecnico per designare il «vendicatore del sangue», cioè il parente più stretto della vittima sul quale ricade l’obbligo di vendicarla (Gn 4,15; 9,6; Dt 19,12). Il «go’el» è anche il protettore ufficiale dei suoi parenti, e specialmente delle vedove e dei minorenni (Lv 25,23-25; Rt 4,3-4). Per astensione il termine è applicato spesso anche a Dio, salvatore del popolo e protettore degli oppressi (Is 41,14; Ger 50, 34; Sal 19,15).
 
Vangelo
La vostra pace scenderà su di lui.
 
Gesù è venuto a portare la pace destinandola a tutti gli uomini. Lo fa intendere anche col numero dei missionari inviati ad annunciare la Parola: secondo i Giudei, i popoli della terra erano settantadue e presumibilmente l’evangelista Luca vuol prefigurare la missione universale alla quale sarà inviata la Chiesa. La missione ha le note della massima sollecitudine svolgendosi «sotto il segno di un’urgenza escatologica: si deve annunziare che il Regno è vicino; non è consentito attardarsi per via negli interminabili saluti caratteristici degli Orientali.
È scoccata ormai l’ora della mietitura: tradizionale immagine del “Giorno di Jahvé”, l’intervento definitivo Dio, salvifico e giudiziale al tempo stesso» (Vittorio Fusco).
 
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 10,1-12
 
In quel tempo, il Signore designò altri settantadue e li inviò a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi.
Diceva loro: «La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe! Andate: ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi; non portate borsa, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada.
In qualunque casa entriate, prima dite: “Pace a questa casa!”. Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi. Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché chi lavora ha diritto alla sua ricompensa. Non passate da una casa all’altra.
Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà offerto, guarite i malati che vi si trovano, e dite loro: “È vicino a voi il regno di Dio”. Ma quando entrerete in una città e non vi accoglieranno, uscite sulle sue piazze e dite: “Anche la polvere della vostra città, che si è attaccata ai nostri piedi, noi la scuotiamo contro di voi; sappiate però che il regno di Dio è vicino”. Io vi dico che, in quel giorno, Sòdoma sarà trattata meno duramente di quella città».
 
Parola del Signore.
 
Rosanna Virgili (Vangelo secondo Luca): In questo testo, con materiale proprio di Luca, Gesù chiama a collaborare alla sua missione ben settantantadue altri d scepoli. La ragione è che la messe (= probabilmente la gente che segue Gesù con domande e bisogni urgenti) è aumentata e Gesù non vuole che il buon annuncio non arrivi a chi lo sta cercando. Benché non venga esplicitamente affermato, i settantadue mostrano di avere forza, autorità e compiti analoghi a quelli degli apostoli e non sono in nulla subordinati a loro.  Gesù li manda due a due, “davanti” a lui: sono degli apri pista all’annuncio di Gesù. La loro principale caratteristica è la mitezza, “pecore in mezzo ai lupi”. L’immagine ripresa dalla tradizione giudaica può indicare la persecuzione degli apostoli (cf At 20,29 e i capitoli 7 e 12). La loro parola dovrà affrontare resistenze e, probabilmente, violenze, ciò non di meno non dovranno attrezzarsi di nulla di materiale. Perché saranno ospiti di chi li accoglie e potranno godere di quanto gli viene dato. La loro ricchezza sta nel fatto che non sono soli. Due a due perché «non è bene che l’essere umano sia solo»; due a due per sorreggersi a vicenda nelle tribolazioni missionarie; due a due perché «dove due o più saranno unii i nel mio nome, là ci sarò io». Con loro, non solo Gesù, ma anche “il padrone della messe”, cioè il Padre del cielo. Forti dei loro legami, essi non si volgeranno indietro, né indugeranno, voltandosi a destra o a sinistra (cf Pr 4,27; 9,13-16), ma avranno single mind, una convinzione ed una direzione che non potrà essere bloccata da nessuno, neppure da chi li perseguitasse. Inoltre andranno in fretta, data l’urgenza della salvezza di cui si fanno portatori. Non per nulla la metafora utilizzata è quella della mietitura che richiede molta  manodopera e che occorre fare in un tempo preciso per cui tutti ne hanno urgenza e bisogno (cf Gl 4,13). L’invito che Gesù fa a “non salutare” è dettato ugualmente dall’urgenza del lavoro, considerando che nel Vicino Oriente il saluto aveva un lungo e complesso rituale (cf 2Re 4,29). Il numero potrebbe avere una prima valenza simbolica ed evocare una chiesa universale. Il settanta potrebbe far pensare, infatti, alle nazioni della terra (cf Gen 10) e allora il gruppo segnerebbe simbolicamente l’anticipazione della missione cristiana fuori della Palestina. Luca è, del resto, molto sensibile a questo allargamento apostolico, basti pensare alla geografia propulsiva dell’evangelizzazione nel libro degli Atti che da Gerusalemme giungerà fino a Roma.
A tutti viene annunciata la possibilità di entrare a far parte del regno di Dio. Un retroterra biblico interessante potrebbe essere, però, l’istituzione dei settanta anziani come collaboratori di Mosè nel libro dei Numeri (cf Nm 11,16ss). Un gruppo di uomini su cui viene condiviso lo spirito mosaico della profezia. Una crescita di presenza divina in mezzo al popolo, un impulso espansivo che non può essere chiuso in nessun “circolo magico” fosse anche quello dei Dodici. Il moltiplicarsi del numero degli apostoli è connaturato al vangelo ed alla Chiesa.
Essa è una realtà che sorge da “due o più” e poi avanza a cerchi sempre più grandi, fino ad avvolgere il mondo. Un terzo valore del numero potrebbe essere quello simbolico circa l’identità degli apostoli: essi verranno numerosi aggiungendosi a quelli che già sono stati chiamati da Gesù. Tra essi Paolo, o tanti altri i cui nomi sono scritti nella storia.
 
Xavier Léon-Dufour: La pace, felicità perfetta: Per apprezzare nel suo pieno valore la realtà indicata dalla parola, occorre sentire il sapore locale che sussiste nell’espressione semitica sin nella sua concezione più spirituale, e nella Bibbia sin nell’ultimo libro del NT.
1. Pace e benessere. - La parola ebraica šalôm deriva da una radice che, secondo i suoi usi, designa il fatto di essere intatto, completo (Giob 9,4), ad es. terminare una casa (1Re 9,25), o l’atto di ristabilire le cose nel loro stato primitivo, nella loro integrità, ad es. «pacificare» un creditore (Es 21, 34), compiere un voto (Sal 50,14).
Perciò la pace biblica non è soltanto il «patto» che permette una vita tranquilla, né il «tempo della pace» in opposizione al «tempo della guerra» (Eccle 3,8; Apoc 6,4); designa il benessere dell’esistenza quotidiana, lo stato dell’uomo che vive in armonia con la natura, con se stesso, con Dio; in concreto è benedizione, riposo, gloria, ricchezza, salvezza, vita.
2. Pace e felicità. - «Essere in buona salute» ed «essere in pace» sono due espressioni parallele (Sal 38,4); per domandare come sta uno, se sta bene, si dice: «È in pace?» (2Sam 18,32; Gen 43,27); Abramo che morì in una vecchiaia felice e sazio di giorni (Gen 25,8) se ne andò in pace (Gen 15,15; cfr. Lc 2,29). In senso più largo, la pace è la sicurezza. Gedeone non deve più temere la morte dinanzi alla apparizione celeste (Giud 6,23; cfr. Dan 10,19); Israele non ha più da temere i nemici, grazie a Giosuè vincitore (Gios 21,44; 23,1), a David (2Sam 7,1), a Salomone (1Re 5,4; 1Cron 22,9; Eccli 47,13). Infine la pace è concordia in una vita fraterna: il mio familiare, il mio amico, è «l’uomo della mia pace» (Sal 41,10; Ger 20,10); è mutua fiducia sanzionata sovente da una alleanza (Num 25,12; Eccli 45,24) o da un trattato di buona vicinanza (Gios 9,15; Giud 4,17; 1Re 5, 26; Lc 14,32; Atti 12,20).
3. Pace e salvezza. - Tutti questi beni materiali e spirituali sono compresi nel saluto, nell’augurio di pace (in arabo, il salamelecco) mediante il quale, nel VT e nel NT, si dice «buon giorno», ed «addio», sia nella conversazione (Gen 26,29; 2Sam 18,29), sia nelle lettere (ad es. Dan 3,98; Filem 3). Ora, se è conveniente augurare la pace o porsi la domanda circa le disposizioni pacifiche del visitatore (2Re 9,18), si è perché la pace è uno stato da conquistare o da difendere; è vittoria su un qualche nemico. Gedeone od Achab sperano di ritornare in pace, cioè vincitori della guerra (Giud 8,9; 1Re 22,27s); allo stesso modo si augura il successo di una esplorazione (Giud 18,5s), il trionfo sulla sterilità di Anna (1Sam 1,17), la guarigione delle ferite (Ger 6,14; Is 57,18s); infine si offrono «sacrifici pacifici» (salutaris hostia) che significano la comunione tra Dio e l’uomo (Lev 3,1).
4. Pace e giustizia. - Infine la pace è ciò che è bene in opposizione a ciò che è male (Prov 12,20; Sal 28,3; cfr. Sal 34,15). «Non c’è pace per i malvagi» (Is 48,22), viceversa, «guardare l’uomo giusto: c’è una posterità per l’uomo di pace» (Sal 37,37); «gli umili possederanno la terra e gusteranno le delizie di una pace senza fine» (Sal 37,11; cfr. Prov 3,2). La pace è la somma dei beni accordati alla giustizia: avere una terra fertile, mangiare a sazietà, abitare in sicurezza, dormire senza timore, trionfare dei propri nemici, moltiplicarsi, e tutto questo in definitiva perché Dio è con noi (Lev 26,1-13). Lungi, quindi, dall’essere soltanto una assenza di guerra, la pace è pienezza della felicità.
 
Catechismo degli Adulti - Edificare la pace [1040] La pace non si riduce all’assenza di guerra. È una costruzione politica e prima ancora un fatto spirituale. È dovere dei politici organizzare la pace: eliminare le armi di distruzione di massa e tenere a basso livello le altre, destinare le risorse risparmiate con il disarmo allo sviluppo dei popoli, sostituire sempre più la collaborazione alla concorrenza. È dovere di tutti i cittadini educare se stessi alla pace: rispettare il pluralismo politico, sociale, culturale e religioso, favorire il dialogo e la solidarietà in ambito locale e a dimensione planetaria, tenere un sobrio tenore di vita che consenta di condividere con gli altri i beni della terra. «Non è possibile che la pace sussista se non prospera prima la virtù». In questo contesto risalta il significato educativo che può avere la scelta degli obiettori di coscienza di testimoniare il valore della non violenza sostituendo il servizio civile a quello militare, senza peraltro recare pregiudizio al valore e alla dignità del servizio dei militari quando operano come «servitori della sicurezza e della libertà dei loro popoli».Le contese tra gli uomini non cesseranno; la pace perfetta verrà al di là della storia. Il cristiano sa di non avere soluzioni definitive; ma si impegna ugualmente con totale serietà, per attuare un’anticipazione profetica della salvezza: «Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9).
Operatori di pace [1165] Il cristiano costruisce la pace a partire dal suo ambiente personale. Sceglie di non percorrere mai la via della violenza per affermare la verità e il bene: sa che non è lecito servirsi del male in vista di obiettivi positivi. Al più potrebbe essere costretto all’uso della forza per necessità di legittima difesa. Non fa ritorsioni per le offese subite; non solo perdona ogni singola volta, ma accetta gli altri così come sono, con il rischio di dover subire ulteriori danni dalla convivenza con loro.Educa se stesso e gli altri al rispetto del pluralismo religioso, culturale, sociale e politico. Assume un sobrio tenore di vita, per poter condividere i beni della terra. Fa il possibile per attivare il dialogo e la solidarietà a tutti i livelli, dai rapporti interpersonali ai complessi problemi internazionali dello sviluppo e del disarmo.«Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9). I cristiani con impegno perseverante edificano la pace, come immagine, anticipo e profezia di quella del regno di Dio. Testimoni operosi e credibili di Cristo «nostra pace» (Ef 2,14), gli consentono di manifestarsi come Salvatore presente nella storia fino a quando giungerà il compimento completo e definitivo.
 
Gregorio Magno, Hom., 17, 1-4.7 s.:L’operaio è degno della sua mercede” (Lc 10,7), perché gli alimenti fanno parte della mercede, in modo che qui cominci la mercede della fatica della predicazione, che sarà compiuta in cielo con la visione della Verità. Il nostro lavoro, dunque, ha due mercedi, una qui nel viaggio e un’altra nella patria: una che ci sostiene nel lavoro, l’altra che ci premia nella risurrezione. La mercede che riceviamo qui però ci deve rendere più forti per la seconda. Il predicatore perciò non deve predicare per ricevere una mercede temporale, ma deve accettare la mercede, perché possa continuare a predicare. E chiunque predica per una mercede di lode o di danaro, si priva della mercede eterna. Colui invece che, quando parla, desidera di piacere, non perché lui sia amato, ma perché il Signore sia amato, e accetta uno stipendio solo perché non venga poi meno la voce della predicazione, certamente questi non sarà premiato meno nella patria perché ha accettato un compenso in questa vita.
Ma che facciamo noi pastori, non posso dirlo senza dolore, che facciamo noi che prendiamo la mercede dei pastori e non ne facciamo il lavoro? Mangiamo ogni giorno il pane della santa Chiesa, ma non lavoriamo affatto per la Chiesa eterna. Riflettiamo quale titolo di dannazione sia il prendere il salario d’un lavoro senza fare il lavoro. Viviamo con le offerte dei fedeli, ma dov’è il lavoro per le loro anime? Prendiamo come paga ciò che i fedeli danno in sconto dei loro peccati, ma non ci diamo da fare con l’impegno della preghiera e della predicazione, come sarebbe giusto, contro quegli stessi peccati.
 
Il Santo del Giorno - 3 Ottobre 2024 - San Dionigi l’Areopagita. Lo scandalo della risurrezione che non trova posto tra i «comfort»: A cosa ci serve Dio? Non possiamo non porci questa domanda in una società che pare soddisfare ogni nostra esigenza. Ma il messaggio che porta il Risorto è qualcosa che non rientra in nessuno “schema”, nessuna confortevole “interfaccia” di controllo della nostra vita. La risurrezione dai morti rappresenta un vero e proprio “scandalo” più grande per la ragione, il mistero più difficile da accettare per il cuore. Una verità che richiede il coraggio della fede, l’audacia di andare oltre i dubbi, rinunciare alle proprie sicurezze e contraddire il sentire della cultura “dominante”. Così fece san Dionigi l’Areopagita, che incontrò il Risorto grazie all’annuncio di san Paolo ad Atene. Secondo il capitolo 17 degli Atti degli Apostoli, infatti, l’apostolo aveva parlato davanti ai saggi sull’Areopago. All’inizio il suo discorso aveva affascinato i presenti, esponenti di una cultura da sempre sinonimo di impegno nella ricerca della verità con i mezzi della ragione e ben disposti verso tradizioni religiose diverse, ma poi Paolo era stato deriso quando aveva cominciato a parlare di Risurrezione. Dionigi, invece, fu tra coloro che si unirono all’Apostolo delle genti e la tradizione lo vorrebbe primo vescovo di Atene. Per alcuni il santo celebrato oggi, invece, sarebbe un teologo del V secolo che usò il nome di Dionigi come pseudonimo. (Avvenire)
 
Questo sacramento di vita eterna
ci rinnovi, o Padre, nell’anima e nel corpo,
perché, annunciando la morte del tuo Figlio,
partecipiamo alla sua passione
per diventare eredi con lui nella gloria.
Egli vive e regna nei secoli dei secoli.
 
 2 OTTOBRE 2024
 
SANTI ANGELI CUSTODI – MEMORIA
 
Es 23,20-23a; Salmo Responsoriale Dal Salmo 90 (91); Mt 18,1-5.10
 
La Bibbia e i Padri della Chiesa [I Padri Vivi]: La Chiesa conosce il culto degli angeli sin dai primi secoli san Giustino lo menziona nella sua «Apologia» (c. 155), Origene (+ 254) si oppone a coloro che nel culto degli angeli vedono l’idolatria; san Clemente di Alessandria (+ c. 212) parla della cura che gli angeli hanno di tutto il creato. Il culto reso agli angeli non assumeva una particolare forma, ma la Chiesa, celebrando la liturgia, si univa spiritualmente alla liturgia celeste dei cori degli angeli. Fino ad oggi, questo rimane vivissimo nella coscienza della Chiesa orientale, come pure continua a essere vivo in Oriente il culto degli angeli. [...].
Gli innumerevoli eserciti degli angeli stanno davanti al volto di Dio e incessantemente gli rendono onore. Ogni volta che celebriamo l’Eucaristia e glorifichiamo Dio nel prefazio per le sue grandi opere, noi radunati sulla terra c’inseriamo nel perenne cantico di lode che risuona in Cielo. Con tutti gli angeli e gli arcangeli, uniti a tutti i cori celesti esclamiamo: Santo, Santo, Santo il Signore Dio degli eserciti. L’uomo di fede, riconoscente a Dio per la sua bontà, acclama con le parole del salmo: «A te voglio cantare davanti agli angeli» (137, 1) e sapendo che da solo non è capace di esprimere il cantico di gratitudine invoca gli angeli: «Benedite [con me], angeli del Signore, il Signore, lodatelo ed esaltatelo nei secoli» (Dn 3,58).
La Chiesa crede che gli angeli non soltanto circondano il trono di Dio nel sacro servizio, ma che Dio anche per loro, come per noi, in modo mirabile, ha stabilito dei doveri. L’angelo fu mandato a Maria per annunciarle il mistero dell’Incarnazione. L’angelo incoraggia Cristo prima della Passione; tramite l’angelo fu annunciata la notizia della Risurrezione del Signore. Anche oggi, gli angeli sono presenti nella Chiesa, perché essa possa annunciare a tutti l’Incarnazione, la Passione e la Risurrezione del Signore. La Chiesa crede che gli angeli proteggono la nostra vita terrena, hanno cura di noi, ci sostengono sulla via che porta alla salvezza. Nella loro cura, troviamo la difesa e, grazie a loro, evitiamo i pericoli.
In comunione con tutta la Chiesa, benediciamo gli angeli del Signore e glorifichiamo Dio perché ci permette di sperimentare la loro custodia. Poiché attendiamo la nostra unione con loro, quando il Signore verrà nella sua gloria con tutti i suoi angeli.
 
Colletta
O Dio, che con ineffabile provvidenza
mandi i tuoi santi angeli
perché siano nostri custodi,
dona a noi, che ti supplichiamo,
di essere sempre difesi dalla loro protezione
e di godere in eterno della loro compagnia.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Catechismo degli Adulti - Creazione degli angeli [368]  Dio ha creato anche gli angeli, che sono creature personali, puri spiriti, immortali, più intelligenti e potenti degli uomini. La libertà umana non è sola nell’universo e il mondo è più vasto e profondo di quanto la mentalità razionalista possa supporre. Peraltro appare del tutto plausibile che gli esseri materiali della natura e gli uomini, esseri materiali e spirituali nello stesso tempo, abbiano al di sopra di sé altri esseri puramente spirituali. Anche questi sono stati creati per mezzo di Cristo e in vista di lui; sono stati chiamati a vivere in comunione con lui e a cooperare per l’avvento del regno di Dio.
Servitori di Dio e di Cristo [378] Nella nostra cultura dubbi e negazioni riguardo agli angeli e ai demòni coesistono con il fascino dell’occulto. Occorre chiarire e chiedersi: ci sono davvero queste presenze nella storia? quale incidenza hanno?La rivelazione attesta la creazione dei puri spiriti e la loro chiamata alla comunione con Cristo. Creati liberi, possono liberamente accogliere o rifiutare il disegno di Dio. Una parte di essi lo accoglie: sono gli angeli santi. Ora stanno davanti a Dio per servirlo, contemplano la gloria del suo volto e giorno e notte cantano la sua lode. «Potenti esecutori dei suoi comandi, pronti alla voce della sua parola» (Sal 103,20), intervengono nella storia, a servizio del suo disegno di salvezza.
[379]  Cristo è il loro capo ed essi sono «i suoi angeli» (Mt 25,31); gli sono accanto come servitori in alcuni momenti decisivi della sua vita. Un angelo porta a Maria e a Giuseppe l’annuncio dell’incarnazione del Figlio di Dio; una moltitudine di angeli loda Dio per la sua nascita; un angelo lo protegge dalla persecuzione di Erode; gli angeli lo servono nel deserto; un angelo lo conforta nell’agonia del Getsemani; gli angeli annunciano la sua risurrezione; infine, saranno ancora gli angeli ad assisterlo nell’ultimo giudizio.
Protettori della Chiesa [380]  In modo analogo gli angeli accompagnano e aiutano la Chiesa nel suo cammino. Incoraggiano gli apostoli; li liberano dalla prigione; li sostengono nell’evangelizzazione. Proteggono tutti i fedeli e li guidano alla salvezza: «Ogni fedele ha al proprio fianco un angelo come protettore e pastore, per condurlo alla vita». Si comprende così la tradizionale e bella devozione agli angeli custodi.
 
Prima Lettura: Ecco, io mando un angelo davanti a te per custodirti: l’angelo inviato dal Signore precederà il popolo nel suo viaggio verso la terra promessa per custodirlo e guidarlo. Nel brano che oggi leggiamo, l’angelo di Dio si identifica con Dio, il mio nome è in lui, per cui ubbidire o ribellarsi a lui è come ubbidire o ribellarsi a Dio. Il nome degli angeli (ebr. mal’ak, gr. ànghelos), non è un nome di natura ma di funzione: significa «messaggero». Secondo la letteratura giudaica, la funzione degli angeli è triplice: di adorazione e di lode a Dio; di messaggeri divini nelle incombenze degli uomini; di custodi degli uomini, dei loro beni, case, campi, animali, e delle nazioni. Sfuggendo alla nostra percezione ordinaria, essi costituiscono un mondo misterioso, ma non mitico in quanto l’esistenza degli angeli è una verità di fede.
 
Vangelo
I loro angeli nei cieli vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli.
 
Chi dunque è più grande nel regno dei cieli?: Gesù risponde che il criterio sono i piccoli. I discepoli devono diventare bambini. Invece di crescere verso l’alto, devono crescere verso il basso, la vera grandezza del discepolo si costruisce sul trono dell’umiltà. Questi piccoli non devono essere disprezzati, in quanto i loro angeli in cielo difendono davanti a Dio la loro causa e chiedono che Egli intervenga a riparare le offese fatte loro.
 
Dal Vangelo secondo Matteo
Mt 18,1-5.10
In quel momento i discepoli si avvicinarono a Gesù dicendo: «Chi dunque è più grande nel regno dei cieli?».
Allora chiamò a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse: «In verità io vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli.
Perciò chiunque si farà piccolo come questo bambino, costui è il più grande nel regno dei cieli. E chi accoglierà un solo bambino come questo nel mio nome, accoglie me.
Guardate di non disprezzare uno solo di questi piccoli, perché io vi dico che i loro angeli nei cieli vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli».
 
Parola del Signore.
 
Felipe F. Ramos (Il Vangelo secondo Matteo): Gesù comanda di farsi come bambini. Quando si esprime così, non pensa alla proverbiale innocenza dei bambini, ma pensa principalmente alla loro umiltà. Il bambino non ha pretese: sa di essere bambino e si accetta come è; accetta la sua incapacità di fronte alla vita e il bisogno che ha dei genitori per sopravvivere. I bambini vivono nell’umiltà, non stimandosi meno di quello che sono - non sarebbe umiltà - ma riconoscendo quello che sono. L’uomo ha forse bisogno di stimarsi di meno di quello che è per essere umile?
Se passiamo dalla famiglia umana a quella cristiana - la famiglia di Gesù o di Dio - l’argomentazione acquista molta maggior efficacia. Che cos’è l’uomo davanti a Dio? L’umiltà cristiana è causata appunto dalla gioia di essere figli di Dio (5,3ss; 11,25).
La filiazione divina richiede la conversione, come dice espressamente il versetto 3. Le parole che aprono il vangelo esigendo la conversione (3,2; 4,17) si applicano ora ai discepoli di Gesù. Se questi discepoli devono essere i dirigenti della comunità cristiana, devono comportarsi, di fronte a essa, con quell’umiltà di cui abbiamo parlato. E devono farlo per due ragioni: per quello che sono essi - aspetto che già abbiamo esposto - e per quello che sono. gli altri. Gli altri sono figli di Dio: «i loro angeli nel cielo vedono sempre la faccia del Padre mio».
Ma la frase non si occupa minimamente degli angeli e non ha il minimo interesse per essi. Secondo la letteratura giudaica, la funzione degli angeli è triplice: a) di adorazione e di lode a Dio; b) di agenti o messaggeri divini negli affari umani; c) di custodi degli uomini delle nazioni (At 12,15). Secondo una credenza che si era molto diffusa fra i giudei, erano pochi gli angeli che avevano accesso diretto a Dio. Tenendo conto di questi particolari, l’insegnamento fa pensare alla dignità dei piccoli che credono in Gesù: se i loro angeli hanno questa dignità, quanto maggiore sarà la dignità dei credenti che gli angeli stessi son destinati a servire!
 
Angelo - Paul Hubert Schüngel: Gli scritti biblici conoscono diversi angeli, che si distinguono per il modo di apparire e soprattutto di agire. La maggior parte delle volte gli angeli appaiono come messaggeri e portavoce di Dio: il malak JHWH comanda ad Abramo di risparmiare suo figlio (Gen 22,11). Questo angelo  di JHWH a volte non è distinguibile dallo stesso JHWH (Gen 18). Agli angeli  viene spesso attribuito un potere di devastazione o di castigo, per es. all’angelo sterminatore, oppure allo spirito che causa dissidi politici, Gdc 9,23. In questo caso non si possono separare gli a. dalla sventura che essi portano; questo è particolarmente chiaro nel Sal 78,49. Talvolta gli angeli  sono visti come cherubini, cioè esseri ibridi alati, come quelli noti soprattutto a Babilonia: Gen 3,24 è uno di questi angeli che fa la guardia all’albero della vita; nel Sal 18,11 esso è colui che accompagna JHWH che discende dai cieli. Ezechiele si è servito in modo particolare di questa immagine. Altri angeli costituiscono una corte celeste che celebra JHWH (Is 6), o lo consiglia (Gb 1,6ss). Soltanto più tardi gli angeli hanno un nome (Dn, Tb) e sono visti ora come angeli custodi personali (Raffaele per Tobia), come protettori di popoli (Dn 10,l1ss), come intercessori presso Dio (Zc 3), come interpreti dei progetti divini (Zc 1,9.11ss). Nell’apocalittica tardogiudaica, ma anche nell’Apocalisse neotestamentaria, essi svolgono un ruolo molto importante. La credenza veterotestamentaria negli angeli è una mescolanza variopinta e disarmonica di antica fede popolare (cf. Gen 6,1-4), dèi stranieri denigrati (Lv 16,8ss) e divinità sbiadite (serpente di rame) d’influenza babilonese e (più tardi) iraniana. Come dimostra Rm 8,38s, Paolo condivide ancora la concezione degli angeli di sventura; parlando di “troni” e “dominazioni” (Col 1,16) Paolo intende angeli dei popoli, cioè soprattutto la potenza della Roma pagana. Soltanto nei Sinottici gli angeli, in quanto messaggeri di Dio e interpreti dell’evento della salvezza (Lc 1; 2; At 1,10s), vengono separati dai demoni quali cause di malattia e di possessione (Mc 3,23-27). Gesù, manifestandosi padrone dei demoni, dimostra di essere colui che possiede la potenza del creatore e introduce il regno di Dio escatologico (Mc 3,27).
 
La presenza degli angeli - Origene Comment. in Luc., 23, 8-9: Quanto a me, non esito affatto a pensare che gli angeli siano presenti anche nella nostra assemblea, in quanto essi vegliano non soltanto su tutta la Chiesa presa nel suo insieme, ma anche su ciascuno di noi. È di essi che parla il Salvatore, quando dice: I loro angeli vedono sempre il volto del Padre mio che è nei cieli (Mt 18,10). Ci sono qui due Chiese: quella degli uomini e quella degli angeli. Se quanto noi diciamo è conforme al pensiero divino e all’intenzione delle Scritture, gli angeli ne godono e pregano per noi. Ed è perché gli angeli sono presenti nelle Chiese, in tutte, o almeno in quelle che lo meritano e che appartengono a Cristo, che è prescritto alle donne, durante la preghiera, di avere un velo sulla testa a causa degli angeli (1Cor 11,10). Di quali angeli si tratta? Senza alcun dubbio degli angeli che assistono i santi e si rallegrano nella Chiesa; angeli che noi non vediamo perché il fango del peccato ci copre gli occhi, ma che vedono gli apostoli di Gesù ai quali il Signore dice: In verità, in verità vi dico: voi vedrete i cieli aperti e gli angeli di Dio che salgono e discendono sul Figlio dell’uomo (Gv l,51).
Se io avessi la grazia di vederli come gli apostoli e di guardarli come li contemplò Paolo, scorgerei senza dubbio ora la folla di angeli che vedeva Eliseo e che Gihezi, che era al suo fianco, non vedeva affatto. Gihezi aveva paura di essere catturato dai nemici, perché vedeva Eliseo tutto solo. Ma Eliseo, in quanto era profeta del Signore, si mise a pregare e disse: O Signore, apri gli occhi di questo servo in modo che egli veda che ci sono più con noi che con loro (2Re 6,17). E subito, alla preghiera di quel santo, Gihezi vide gli angeli che non vedeva prima.
 
Il Santo del Giorno - 2 Ottobre 2024 - Santi Angeli custodi - Antonio Borrelli: L’angelo nella Bibbia - Specifici episodi del Vecchio e Nuovo Testamento, indicano la presenza degli Angeli: la lotta con l’angelo di Giacobbe (Genesi 32, 25-29); la scala percorsa dagli angeli, sognata da Giacobbe (Genesi, 28, 12); i tre angeli ospiti di Abramo (Genesi, 18); l’intervento dell’angelo che ferma la mano di Abramo che sta per sacrificare Isacco; l’angelo che porta il cibo al profeta Elia nel deserto.
L’annuncio ai pastori della nascita di Cristo; l’angelo che compare in sogno a Giuseppe, suggerendogli di fuggire con Maria e il Bambino; gli angeli che adorano e servono Gesù dopo le tentazioni nel deserto; l’angelo che annunciò alla Maddalena e alle altre donne, la resurrezione di Cristo; la liberazione di s. Pietro, dal carcere e dalle catene a Roma; senza dimenticare la cosmica e celeste simbologia angelica dell’Apocalisse di s. Giovanni Evangelista.
L’Angelo Custode - Infine l’Angelo Custode, l’esistenza di un angelo per ogni uomo, che lo guida, lo protegge, dalla nascita fino alla morte, è citata nel Libro di Giobbe, ma anche dallo stesso Gesù, nel Vangelo di Matteo, quando indicante dei fanciulli dice: “Guardatevi dal disprezzare uno solo di questi piccoli, perché vi dico che i loro angeli nel cielo vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli”.
La Sacra Scrittura parla di altri compiti esercitati dagli angeli, come quello di offrire a Dio le nostre preghiere e sacrifici, oltre quello di accompagnare l’uomo nella via del bene. Il nome di ‘angelo’ nel discorrere corrente, ha assunto il significato di persona di eccezionale virtù, di bontà, di purezza, di bellezza angelica e indica perfezione.
 
O Padre, che in questo sacramento
ci doni il pane per la vita eterna,
guidaci, con l’assistenza degli angeli,
nella via della salvezza e della pace.
Per Cristo nostro Signore.