1 OTTOBRE 2024
 
SANTA TERESA DI GESÙ BAMBINO, VERGINE E DOTTORE DELLA CHIESA 
 
Gb 3,1-3.11-17.20-23; Salmo Responsoriale dal Salmo 87 (88); Lc 9,51-56
 
 
Colletta
O Dio, che apri le porte del tuo regno agli umili e ai piccoli,
fa’ che seguiamo con fiducia
la via tracciata da santa Teresa [di Gesù Bambino],
perché, per sua intercessione, ci sia rivelata la tua gloria eterna.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Santa Teresa del Bambino Gesù, Dottore della Chiesa: Giovanni Paolo II (Omelia, 19 Ottobre 1997): Santa Teresa di Lisieux non ha potuto frequentare una Università e neppure studi sistematici. Morì in giovane età: e tuttavia da oggi in poi sarà onorata come Dottore della Chiesa, qualificato riconoscimento che la innalza nella considerazione dell’intera comunità cristiana ben al di là di quanto possa farlo un “titolo accademico”. Quando, infatti, il Magistero proclama qualcuno Dottore della Chiesa, intende segnalare a tutti i fedeli, e in modo speciale a quanti rendono nella Chiesa il fondamentale servizio della predicazione o svolgono il delicato compito della ricerca e dell’insegnamento teologico, che la dottrina professata e proclamata da una certa persona può essere un punto di riferimento, non solo perché conforme alla verità rivelata, ma anche perché porta nuova luce sui misteri della fede, una più profonda comprensione del mistero di Cristo. Il Concilio ci ha ricordato che, sotto l’assistenza dello Spirito Santo, cresce continuamente nella Chiesa la comprensione del “depositum fidei”, e a tale processo di crescita contribuisce non solo lo studio ricco di contemplazione cui sono chiamati i teologi, né solo il Magistero dei Pastori, dotati del “carisma certo di verità”, ma anche quella “profonda intelligenza delle cose spirituali” che è data per via di esperienza, con ricchezza e diversità di doni, a quanti si lasciano guidare docilmente dallo Spirito di Dio (cfr. Dei Verbum, 8). La Lumen gentium, da parte sua, insegna che nei Santi “Dio stesso ci parla” (n. 50). È per questo che, al fine dell’approfondimento dei divini misteri, che rimangono sempre più grandi dei nostri pensieri, va attribuito speciale valore all’esperienza spirituale dei Santi, e non a caso la Chiesa sceglie unicamente tra essi quanti intende insignire del titolo di “Dottore”. Tra i “Dottori della Chiesa” Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo è la più giovane, ma il suo cammino spirituale è così maturo ed ardito, le intuizioni di fede presenti nei suoi scritti sono così vaste e profonde, da meritarle un posto tra i grandi maestri dello spirito. 
 
I Lettura: Giobbe non riesce a comprendere perché la sofferenza lo abbia aggredito inopinatamente riducendolo a un cencio ributtante. Ha messo a nudo la sua anima e non trova nulla che possa giustificare l’agire di Dio. Maledire il giorno in cui nacque significa semplicemente che la vita che Dio gli ha dato non è buona e che avrebbe preferito non averla mai ricevuta. Desiderare la morte per Giobbe significa entrare in quel mondo dove i malvagi cessano di agitarsi, e chi è sfinito trova riposo.
 
Vangelo
Prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme.
 
Se Gesù andrà a Gerusalemme inevitabilmente l’odio dei Farisei si abbatterà su di lui, e lo uccideranno, i discepoli lo sanno e vogliono fermarlo, ma Gesù, come nota l’evangelista Luca, prende la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme. Non sarà l’amore e la benevolenza dei suoi discepoli a fermarlo, e nemmeno l’ostilità dei samaritani, o l’odio dei Farisei, l’obbedienza al Padre e l’urgenza del Vangelo hanno il primato assoluto nella sua vita. Rimproverando lo zelo violento dei discepoli che volevano incenerire il villaggio di samaritani inospitali, Gesù fa intendere a chiare lettere che per la sua Chiesa non ci sono nemici e tanto meno persone da distruggere.
 
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 9,51-56
 
Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, Gesù prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme e mandò messaggeri davanti a sé.
Questi si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per preparargli l’ingresso. Ma essi non vollero riceverlo, perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme.
Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?». Si voltò e li rimproverò. E si misero in cammino verso un altro villaggio.
 
Parola del Signore.
 
Gesù è diretto a Gerusalemme, la città santa, dove si deve compire il suo destino di dolore e di gloria. L’espressione “i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto oltre i giorni dell’assunzione di Gesù” (cfr. At 1,2) ricorda anche i giorni della passione, morte e resurrezione. La frase prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme, in greco letteralmente suona “egli indurì il volto per andare a Gerusalemme”, un modo di dire semitico (cfr. Ger 21,10; Ez 6,2; 21,2) con cui l’evangelista Luca vuole sottolineare la risolutezza di Gesù nell’affrontare il suo destino di morte che lo attende a Gerusalemme: «Ho un battesimo nel quale sarò battezzato; e come sono angosciato, finché non sia compiuto!» (Lc 12,50). La stessa espressione la troviamo in Isaia 50,7 quando si sottolinea la missione del Servo sofferente: «II Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare confuso». Il percorso più rapido che dalla Galilea porta a Gerusalemme prevede l’attraversamento della regione dei Samaritani, i quali, sempre molto mal disposti verso i Giudei (cfr. Gv 4,9), si rifiutano di accogliere Gesù. Da qui l’inimmaginabile reazione degli apostoli Giacomo e Giovanni. La richiesta dei «figli del tuono» (Mc 3,17) cavalca l’onda di un messianismo terreno e ricorda 2Re 1,10-12 in cui Elia, per due volte, chiama il fuoco dal cielo per incenerire i suoi nemici. La risposta di Gesù non si fa attendere ed è molto dura: si voltò e li rimproverò. Il verbo che Luca usa è “epitimao” che significa, letteralmente, “vincere con un comando, minacciare”, usato da Gesù negli esorcismi. In questo modo il senso della richiesta e del rimprovero si fanno più chiari. In sostanza, come Satana, Giacomo e Giovanni propongono a Gesù un messianismo trionfalistico che sottende il rifiuto della croce. A questa proposta Gesù si oppone con forza. È lo stesso rimprovero che aveva mosso a Pietro: «Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!» (Mt 16,23). Alla luce della proposta dei figli di Zebedeo, l’insegnamento di Gesù suona come monito anche per noi, spesso tanto bellicosi a tal punto da voler incendiare il mondo intero.
 
Fuoco - B. Renaud e X. Léon-Dufour. Nuovo Testamento: Con la venuta di Cristo sono incominciati gli ultimi *tempi, quantunque la fine dei tempi non sia ancora giunta. Anche nel NT il fuoco conserva il suo valore escatologico tradizionale, ma la realtà religiosa che esso significa si attua già nel tempo della Chiesa.
I. Prospettive escatologiche 1. Gesù. - Annunciato come il vagliatore che getta la paglia nel fuoco (Mt 3, 10) e battezza nel fuoco (3, 11 s), Gesù, pur rifiutando la funzione di giustiziere, ha mantenuto i suoi uditori nell’attesa del fuoco del giudizio, riprendendo il linguaggio classico del VT. Egli parla della «Geenna del fuoco» (5, 22), del fuoco in cui saranno gettati la zizzania improduttiva (13, 40; cfr. 7, 19) ed i sarmenti (Gv 15, 6): sarà un fuoco che non si spegne (Mc 9, 43 s), in cui «il loro verme» non muore (9, 48), vera fornace ardente (Mt 13, 42. 50). Null’altro che un’eco solenne del VT (cfr. Lc 17, 29).
2. I primi cristiani. I primi cristiani hanno conservato questo linguaggio, adattandolo a situazioni diverse. Paolo se ne serve per dipingere la fine dei tempi (2 Tess 1, 8); Giacomo descrive la ricchezza marcia, arrugginita, consegnata al fuoco distruttore (Giac 5, 3); la lettera agli Ebrei mostra la prospettiva terribile del fuoco che deve divorare i ribelli (Ebr 10, 27). Altrove è evocata la conflagrazione ultima, in vista della quale «cieli e terra sono tenuti in serbo» (2 Piet 3, 7. 12). La fede deve essere purificata in funzione di questo fuoco escatologico (1 Piet 1, 7), e così pure l’opera apostolica (1 Cor 3, 15) e l’esistenza cristiana perseguitata (1 Piet 4, 12-17). 3. L’Apocalisse conosce i due aspetti del fuoco: quello delle teofanie e quello del giudizio. Dominando la scena, il figlio dell’uomo appare con gli occhi fiammeggianti (Apoc 1, 14; 19, 12). Da un lato, ecco la teofania: è il mare di cristallo mescolato a fuoco (15, 2). Dall’altro, ecco il castigo: il lago di fuoco e di zolfo per il demonio (20, 10), il che è la seconda morte (20, 14 s).
II. Nel tempo della Chiesa - 1. Gesù ha inaugurato una nuova epoca. Non ha agito immediatamente come prevedeva Giovanni Battista, cosicché la fede di quest’ultimo ha potuto avere delle esitazioni (Mt 11, 2-6). Si è opposto ai figli del tuono che volevano far discendere il fuoco dal cielo sui Samaritani inospitali (Lc 9, 54 s). Ma se, durante la sua vita terrena, non è stato lo strumento del fuoco vendicatore, ha tuttavia realizzato a modo suo l’annunzio di Giovanni. È quanto egli proclamava in una frase di difficile interpretazione: «Sono venuto a portare il fuoco sulla terra, e come vorrei che fosse già acceso! Devo ricevere un battesimo...» (Lc 12, 49 s). La morte di Gesù non è forse il suo *battesimo nello spirito e nel fuoco?
2. La Chiesa ormai vive di questo fuoco che infiamma il mondo grazie al sacrificio di Cristo. Esso ardeva nel cuore dei pellegrini di Emmaus, mentre ascoltavano il risorto parlare (Lc 24, 32). È disceso sui discepoli radunati nel giorno della Pentecoste (Atti 2, 3). Questo fuoco del cielo non è quello del giudizio, ma quello delle teofanie che realizza il battesimo di fuoco e di spirito (Atti 1, 5): il fuoco simboleggia ora lo Spirito, e, se non è detto che questo Spirito è la carità stessa, il racconto della Pentecoste mostra che esso ha la missione di trasformare coloro che devono diffondere attraverso tutte le nazioni lo stesso linguaggio, quello dello Spirito. La vita cristiana è quindi sotto il segno del fuoco cultuale, non più di quello del Sinai (Ebr 12, 18), ma di quello che consuma l’olocausto delle nostre vite in un culto accetto a Dio (12, 29). Trasponendo la gelosia divina in una consacrazione cultuale di ogni istante, questo fuoco rimane un fuoco consumante. Ma per coloro che hanno accolto il fuoco dello Spirito, la distanza tra l’uomo e Dio è superata da Dio stesso, presente nel più intimo dell’uomo; forse è questo il senso della frase enigmatica: si diventa fedeli quando si è stati «salati per mezzo del fuoco», il fuoco del giudizio e quello dello Spirito (Mc 9, 48 s). Secondo una frase attribuita a Gesù da Origene: «Chi è presso di me, è vicino al fuoco; chi è lontano da me, è lontano dal regno».
 
Come seguire Gesù: “E se egli rimprovera i discepoli che volevano far discendere il fuoco su coloro che non avevano voluto accogliere Cristo [cfr. Lc 9,55], questo ci indica che non sempre si devono colpire coloro che hanno peccato: spesso giova di più la clemenza, sia a te, perché fortifica la tua pazienza, sia al colpevole, perché lo spinge a correggersi. Ma il Signore agisce mirabilmente in tutte le sue opere. Egli non accoglie colui che si offre con presunzione, mentre non si adira contro coloro che, senza nessun riguardo, respingono il Signore. Egli vuole così dimostrare che la virtù perfetta non ha alcun desiderio di vendetta, che non c’è alcun posto per la collera laddove c’è la pienezza della carità, e che, infine, non bisogna respingere la debolezza ma aiutarla. L’indignazione stia lungi dalle anime pie, il desiderio della vendetta sia lontano dalle anime grandi; e altrettanto lontano stia dai sapienti l’amicizia sconsiderata e l’incauta semplicità. Perciò egli dice a quello: «Le volpi hanno tane»; il suo ossequio non è accettato perché non è trovato effettivo. Con circospezione si usi dell’ospitalità della fede, nel timore che aprendo agli infedeli l’intimità della nostra dimora si finisca col cadere, per la nostra imprevidente credulità, nella rete della cattiva fede altrui.” (Ambrogio, In Luc., 7,27s.).
 
Il Santo del Giorno - Santa Teresa di Lisieux. È piccola la strada che conduce al cuore di Dio e dell’umanità: Elogio di ciò che è piccolo, maestoso canto alla vita e alla fiducia smisurata che arriva all’abbandono nel cuore di Dio: tutto questo, e molto di più, è il tesoro prezioso che ci dona santa Teresa di Gesù Bambino, o di Lisieux. “Piccola” è la via che porta a Dio, appunto, nella visione spirituale di questa santa, che ha camminato nella vita lungo un percorso non sempre facile, segnato dalla fatica e dalla sofferenza fisica e spirituale. Un percorso che la condusse fino al cuore di Dio e che è l’icona dell’impresa che ogni cristiano è chiamato a compiere. Paradossalmente furono proprio gli ostacoli e le difficoltà, come viene narrato in «Storia di un’anima», che aiutarono Teresa a trovare la sua “piccola via” verso il Signore: è nelle imperfezioni della vita che è possibile cogliere con più forza l’amore del Signore. Nata nel 1873 ad Alençon in Francia, Teresa era cresciuta in una famiglia “santa” (anche i genitori, Luigi e Zelia Martin, sono stati canonizzati) e a 8 anni cominciò a frequentare la scuola presso le Benedettine di Lisieux, dove si era trasferita nel 1877, dopo la morte della madre. Pian piano crebbe il desiderio di farsi carmelitana, ma per lei non fu semplice, vista la giovane età: solo il 9 aprile 1888 entrò nel Carmelo di Lisieux. La sua ricerca spirituale sui passi della santità venne interrotto dalla tubercolosi: morì nel 1897 all’età di 24 anni. Nel 1997 è stata proclamata dottore della Chiesa. (Matteo Liut)
 
Il sacramento che abbiamo ricevuto, o Signore,
accenda in noi la forza di quell’amore
che spinse santa Teresa [di Gesù Bambino] ad affidarsi
interamente a te e a invocare per tutti la tua misericordia.
Per Cristo nostro Signore.
 
 30 Settembre 2024
 
San Girolamo, Presbitero e Dottore della Chiesa
 
Gb 1,6-22; Salmo Responsoriale Dal Salmo 16 (17); Lc 9,46-50
 
Colletta
O Dio, che hai dato al santo presbitero Girolamo
un amore soave e vivo per la Sacra Scrittura,
fa’ che il tuo popolo si nutra sempre più largamente
della tua parola e trovi in essa la fonte della vita.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
 
Benedetto XVI (Udienza Generale, 14 Novembre 2007): Girolamo sottolineava la gioia e l’importanza di familiarizzarsi con i testi biblici: «Non ti sembra di abitare - già qui, sulla terra - nel regno dei cieli, quando si vive fra questi testi, quando li si medita, quando non si conosce e non si cerca nient’altro?» (Ep. 53,10). In realtà, dialogare con Dio, con la sua Parola, è in un certo senso presenza del cielo, cioè presenza di Dio. Accostare i testi biblici, soprattutto il Nuovo Testamento, è essenziale per il credente, perché «ignorare la Scrittura è ignorare Cristo» (Commento ad Isaia, prol.). È sua questa celebre frase, citata anche dal Concilio Vaticano II nella Costituzione dei Verbum (n. 25). Veramente «innamorato» della Parola di Dio, egli si domandava: «Come si potrebbe vivere senza la scienza delle Scritture, attraverso le quali si impara a conoscere Cristo stesso, che è la vita dei credenti?» (Ep. 30,7). La Bibbia, strumento «con cui ogni giorno Dio parla ai fedeli» (Ep. 133,13), diventa così stimolo e sorgente della vita cristiana per tutte le situazioni e per ogni persona.
 
I Lettura: Il Libro di Giobbe narra la vita di un uomo ricco, onesto, un uomo che vive nella terra di Uz, fuori dalla Palestina e che appare un esempio di vita esemplare, sia dal punto di vista religioso, che dal punto di vista umano. Il Satana (l’ebraico ha l’articolo), però, mette in dubbio la sua virtù e la sua fede, non è convinto che la religiosità di Giobbe sia autentica, così ottiene da Dio il potere di metterla alla prova: Giobbe deve perdere tutto quello che possiede, tutto, anche i propri figli. Ciò nonostante Giobbe non viene meno alla sua fede. Un messaggio assai chiaro valido per tutti i tempi: tutto quello che la Provvidenza dispone per l’uomo è ben fatto, anche le difficoltà dolorose, non solo non spezzano il legame con Dio, ma lo rafforzano e diventano preghiera e inni di benedizioni.
Un giorno, i figli di Dio andarono a presentarsi al Signore e anche Satana andò in mezzo a loro: Una nota per suggerirci che Dio riceve o dà udienza in determinati giorni come farebbe un sovrano.
Un giorno i figli di Dio (cfr. Gb 2,1; 38,7; Gen 6,1-4; Sal 29,1; 82,1; 89,7), si tratta di esseri superiori all’uomo, che formano la corte di Jahve e il suo consiglio. Vengono identificati con gli angeli (i LXX traducono: «gli angeli di Dio»; cfr. Tb 5,4).
Satana: Secondo l’etimologia ebraica, indica «l’avversario» (cfr. 2Sam 19,23; 1Re 5,18; 11,14.23.25a) oppure «l’accusatore» (Sal 109,6); qui però la sua parte è piuttosto quella di una spia. Si tratta di una figura equivoca, distinta dai figli di Dio, scettica riguardo all’uomo, tutta tesa a coglierlo in fallo, capace di scatenare su di lui ogni sorta di mali e perfino di spingerlo al male (cfr. anche 1Cr 21,1). Anche se non è deliberatamente ostile a Dio, mette in dubbio però la riuscita della sua opera nella creazione dell’uomo.
Al di là del satana cinico, dall’ironia fredda e malevola, si profila l’immagine di un essere pessimista, che se la prende con l’uomo perché ha motivi per esserne invidioso. Il testo però non approfondisce i motivi del suo atteggiamento. Per tutti questi aspetti, si può accostare ad altri abbozzi o figurazioni dello spirito del male, in particolare del serpente di Gen 3, con cui in definitiva finirà per fondersi (cfr. Sap 2,24; Ap 12,9; 20,2) per incarnare la potenza diabolica (cfr. Lc 10,18). (Fonte: Bibbia di Gerusalemme, nota Gb 1,6)
 
Vangelo
Chi è il più piccolo fra tutti voi, questi è grande.
 
I discepoli, per via si infervorano a discutere «tra loro chi fosse il più grande». Forse pensavano ai seggi da occupare nel regno di Gesù, ma la loro non è rozzezza perché questi discorsi nei loro paesi da sempre animavano riunioni o convìvi. Gesù approfitta del fatto per dare loro una lezione di vita cristiana: prende un bambino, se lo mette vicino e dice ai discepoli: Chi è il più piccolo fra tutti voi, questi è grande. In altre parole, chi si fa piccolo dinanzi a Dio e dinanzi agli uomini sarà grande nel Regno di Dio. Gesù ancora una volta rovescia i modelli sui quali tanti maestri avevano costruito l’identikit del vero figlio della Legge (cfr. Lc 15,25-32).
 
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 9,46-50
 
In quel tempo, nacque una discussione tra i discepoli, chi di loro fosse più grande.
Allora Gesù, conoscendo il pensiero del loro cuore, prese un bambino, se lo mise vicino e disse loro: «Chi accoglierà questo bambino nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato. Chi infatti è il più piccolo fra tutti voi, questi è grande».
Giovanni prese la parola dicendo: «Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e glielo abbiamo impedito, perché non ti segue insieme con noi». Ma Gesù gli rispose: «Non lo impedite, perché chi non è contro di voi, è per voi».
 
Parola del Signore.
In quel tempo, nacque una discussione tra i discepoli, chi di loro fosse più grande. La discussione dei discepoli, nell’ambiente giudaico, era d’obbligo e di grande importanza quando più uomini si venivano a trovare insieme. L’imbarazzo dei discepoli è dovuto dal fatto che essi comprendevano che tali discorsi erano contrari agli insegnamenti di Gesù. I bambini da accogliere nel nome di Gesù sono gli uomini più reietti, gli infelici, quelli che hanno bisogno di tutto: nel debole, nel povero risplende il volto del Cristo. Imitare Cristo significa sopra tutto “comportarsi come lui si è comportato” (1Gv 2,6). E Gesù ha amato e privilegiato i poveri, gli ultimi, gli indifesi, tanto da identificarsi con essi. Chi accoglie un sofferente, un indifeso nel nome di Cristo onora Cristo e, in lui, Dio Padre: “È veramente giusto renderti grazie, Padre misericordioso: tu ci hai donato il tuo Figlio, Gesù Cristo, nostro fratello e redentore. In lui ci hai manifestato il tuo amore per i piccoli e i poveri, per gli ammalati e gli esclusi. Mai egli si chiuse alle necessità e alle sofferenze dei fratelli. Con la vita e la parola annunziò al mondo che tu sei Padre e hai cura di tutti i tuoi figli” (Preghiera Eucaristica V/c). Gesù ha voluto ritenersi presente nei bambini e in tutti i bisognosi, ma “vuole che anche le tenerezze verso queste categorie di persone siano dettate dall’amore verso di lui e che le premure siano usate a causa sua. In lui v’è il Padre. La carità verso il prossimo perciò diviene un atto religioso fondamentale, un rito cultuale verso Dio” (Vincenzo Raffa).
 
Gesù e i bambini - Giuseppe Manzoni e Giuseppe Barbaglio (Schede Bibliche Pastorali - Vol. I): Anzitutto i vangeli dell’infanzia s’interessano di Gesù bambino. Matteo ne sottolinea la messianicità, affermando che in lui si è compiuta la profezia di Isaia; egli è l’Emmanuele, «Dio con noi» (1,18-25). Nel c. 2 poi il termine paidion (= bambino) dà unità ai racconti dell’adorazione dei magi (vv. 8.9.11), della fuga in Egitto (vv. 13.14), dell’uccisione dei bambini betlemiti (v. 16: hoi paides), del ritorno dall’Egitto (vv. 20.21). Da parte sua, Luca racconta in parallelo l’infanzia di Gesù e di Giovanni, rilevando la superiorità del primo, che è il Figlio di Dio, e la funzionalità del secondo, che sarà il suo precursore (cc. 1-2).
La tradizione evangelica sinottica, inoltre, ha conservato il ricordo di un episodio significativo dell’esistenza di Cristo, che ha benedetto alcuni bambini, imponendo loro le mani (leggere Mc 10,13-16 e par.). Il suo comportamento contrasta con la mentalità dell’ambiente riflessa nella reazione dei discepoli che si oppongono all’incontro. È probabile che la chiesa primitiva, alle prese con il problema del battesimo dei bambini, vi si sia ispirata, motivando così la sua prassi di ammissione al sacramento e a riti sacri come l’imposizione delle mani e l’uso di formule d’invocazione.
Un bambino sta di nuovo al centro di un gesto profetico e di una solenne dichiarazione di Gesù. Questi contesta i sogni di grandezza dei discepoli che si contendevano il primato e, per dare plasticità alla sua esortazione all’umiltà, prende un fanciullo, lo mette in mezzo a loro e afferma paradossalmente che il più grande è il più piccolo (Lc 9,46-48 e par.). Marco e Luca poi fanno seguire un detto di Cristo sull’accoglienza dei bambini che equivale ad accogliere lui stesso (Mc 9,37 e Lc 9,48b).
Come i bambini - In alcuni detti del Signore i bambini sono stati presi come termine di paragone per evidenziare precisi atteggiamenti esistenziali richiesti agli adulti. Concordemente i tre vangeli sinottici collegano all’episodio dell’accoglienza dei bambini da parte di Gesù la seguente affermazione di principio: «Il regno dei cieli è degli uomini che "sono diventati come loro» (Mt 19,14 e par.; nostra traduzione). Marco e Luca vi aggiungono: «Chi non accoglie il regno di Dio come un bambino, non entrerà in esso» (Mc 10,15 e Lc 18,17). Matteo si rifà invece in 18,3: «Se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli». I tre detti hanno in comune di porre come condizione indispensabile d’ingresso nel regno un atteggiamento globale di piccolezza spirituale e umiltà di fronte a Dio, piccolezza e umiltà significate appunto dai bambini.
C’è infine da notare la sezione 18,5-14 del Vangelo di Matteo che trova unità letteraria e tematica nel motivo dei «piccoli» (= hoi mikroi). Si tratta di piccoli in senso traslato; in realtà, l’evangelista parla di credenti adulti modesti e di nessuna rilevanza all’interno della comunità matteana. Attualizzando qui detti del Signore, egli esorta la sua chiesa ad accoglierli fraternamente (v. 5), a dimostrare loro premurosa attenzione (vv. 6-9) e rispetto (v. 10), e a impegnarsi insonnemente perché, una volta smarriti, non abbiano a perdersi del tutto (vv. 12-14).
 
I cristiani devono gareggiare solo in umiltà: «Da ciò comprendiamo che con l’umiltà si giunge al regno, on la semplicità si entra in cielo. Chiunque desidera di conquistare il vertice della Divinità, cerchi l’umiltà più profonda; chiunque vuole superare il fratello nel regno, prima lo superi nell’ ossequio, come dice l’ Apostolo: Superandovi vicendevolmente nel rendervi onore (Rm 12,10), lo superi nel servizio, per poterlo superare nella santità. Se infatti il fratello non ti ha offeso, merita l’ossequio quale manifestazione di amore; se invece forse ti ha offeso, merita maggiormente l’ossequio perché tu sia superiore a lui. Questa è l’essenza del nostro cristianesimo: rendere il contraccambio a quelli che ci amano, ripagare con pazienza quelli che ci offendono. Colui dunque che sarà stato più paziente di fronte a un’offesa diventerà più potente nel regno» (Massimo di Torino, Sermoni 48,1-2).
 
Il Santo del Giorno - 30 Settembre 204 - San Girolamo. Che siano parole o altri strumenti, ciò che conta è portare il Vangelo a tutti: San Girolamo ci offre un interessante spunto di meditazione: oggi, nel XXI secolo, la parola “funziona” ancora come mezzo di trasmissione del Vangelo? La riflessione parte dalla consapevolezza che ogni cristiano ha un’unica chiara vocazione: essere portatore di Dio nel mondo in ogni angolo del pianeta e in ogni tempo, ma oggi sembrano essere efficaci altri linguaggi. In realtà, però, anche se la parola era di certo lo strumento privilegiato per Girolamo, cui si deve la versione “popolare” della Bibbia in latino (la cosiddetta “Vulgata”), a ben guardare la scrittura non è mai stato l’unico mezzo di trasmissione della fede, che passa da un corpo vivo, la Chiesa, con tutte le sue espressioni, dal culto fino alla carità. San Girolamo (o Gerolamo), sacerdote e dottore della Chiesa, allora ci ricorda in realtà che, qualsiasi mezzo scegliamo per portare la Parola di Dio, la preoccupazione dev’essere quella di arrivare a tutti, di toccare le vite di tutti. Era nato in Dalmazia nel 347 e aveva studiato a Roma, spostandosi poi a Treviri. Si trovò in seguito ad Aquileia, dove aveva coltivato anche l’ideale della vita comunitaria. Battezzato nel 366, dal 375 fu eremita in Oriente: visse per qualche tempo nel deserto, per poi trasferirsi ad Antiochia e Costantinopoli. Dopo un periodo a Roma, dove fondò una comunità di vita religiosa femminile, nel 385 s’imbarcò alla volta della Terra Santa: a Betlemme fondò un monastero maschile e uno femminile. Fino alla morte, nel 420, si dedicò alla traduzione della Bibbia. (Matteo Liut)  
 
Sulle offerte
Concedi a noi, o Signore,
che sull’esempio di san Girolamo
abbiamo meditato la tua parola,
di accostarci con fede viva al tuo altare,
per offrirti il sacrificio di salvezza.
Per Cristo nostro Signore.
 
 
 29 Settembre 2024
 
XXVI Domenica T. O.
 
Nm 11,25-29; Salmo responsoriale Dal Salmo 18 (19); Gc 5,1-6; Mc 9,38-43.45.47-48
 
Colletta
O Dio,
che in ogni tempo
hai parlato al tuo popolo per bocca dei profeti,
effondi il tuo Spirito,
perché ogni uomo sia ricco del tuo dono,
e a tutti i popoli della terra
siano annunciate le meraviglie del tuo amore.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.

Giovanni Paolo II (Udienza Generale 28 Luglio 1999): Le immagini con cui la Sacra Scrittura ci presenta l’inferno devono essere rettamente interpretate. Esse indicano la completa frustrazione e vacuità di una vita senza Dio. L’inferno sta ad indicare più che un luogo, la situazione in cui viene a trovarsi chi liberamente e definitivamente si allontana da Dio, sorgente di vita e di gioia. Così riassume i dati della fede su questo tema il Catechismo della Chiesa Cattolica: «Morire in peccato mortale senza esserne pentiti e senza accogliere l’amore misericordioso di Dio, significa rimanere separati per sempre da lui per una nostra libera scelta. Ed è questo stato di definitiva auto-esclusione dalla comunione con Dio e con i beati che viene designato con la parola ‘inferno’» (CEC 1033).
La ‘dannazione’ non va perciò attribuita all’iniziativa di Dio, poiché nel suo amore misericordioso egli non può volere che la salvezza degli esseri da lui creati. In realtà è la creatura che si chiude al suo amore. La ‘dannazione’ consiste proprio nella definitiva lontananza da Dio liberamente scelta dall’uomo e confermata con la morte che sigilla per sempre quell’opzione. La sentenza di Dio ratifica questo stato.
La fede cristiana insegna che, nel rischio del ‘sì’ e del ‘no’ che contraddistingue la libertà creaturale, qualcuno ha già detto no. Si tratta delle creature spirituali che si sono ribellate all’amore di Dio e vengono chiamate demoni (cfr Concilio Lateranense IV: DS 800-801). Per noi esseri umani questa loro vicenda suona come ammonimento: è richiamo continuo ad evitare la tragedia in cui sfocia il peccato e a modellare la nostra esistenza su quella di Gesù che si è svolta nel segno del ‘sì’ a Dio.
La dannazione rimane una reale possibilità, ma non ci è dato di conoscere, senza speciale rivelazione divina, se e quali esseri umani vi siano effettivamente coinvolti. Il pensiero dell’inferno – tanto meno l’utilizzazione impropria delle immagini bibliche - non deve creare psicosi o angoscia, ma rappresenta un necessario e salutare monito alla libertà, all’interno dell’annuncio che Gesù Risorto ha vinto Satana, donandoci lo Spirito di Dio, che ci fa invocare “Abbà, Padre” (Rm 8,15 Gal 4,6).
 
I Lettura: Ogni dono perfetto viene dall’alto e discende dal Padre della luce (Gc 1,17): «il dono dei miracoli, poi i doni di far guarigioni, i doni di assistenza, di governare, delle lingue» (1Cor 12,28). La disputa di Giosuè denuncia la gretta mentalità di tutti coloro, come l’apostolo Giovanni, che pretendono di ingabbiare lo Spirito Santo o di possedere in esclusiva il potere carismatico del Cristo.
 
II Lettura: L’impietosa denuncia di Giacomo mette in risalto quanto fossero odiati i ricchi, ma in modo particolare coloro la cui ricchezza trasudava del sangue dei poveri. La condanna dei ricchi malvagi era già presente nella predicazione dei profeti. Abacuc con estrema schiettezza dirà a Israele: «La ricchezza rende malvagi ... Guai a chi accumula ciò che non è suo» (Ab 2,5-6). Di queste parole troviamo una risonanza nei «guai ai ricchi» registrati nel vangelo di Luca (6,24). Anche Paolo ha parole molto dure in questo senso. Comunque, non è una condanna delle ricchezze in sé, ma dell’uso cattivo che tende a calpestare i diritti altrui. Per cui va bene il monito di Paolo suggerito a Timoteo: «Ai ricchi in questo mondo raccomanda di non essere orgogliosi, di non riporre la speranza sull’incertezza delle ricchezze, ma in Dio, che tutto ci dà con abbondanza perché ne possiamo godere; di fare del bene, di arricchirsi di opere buone, di essere pronti a dare, di essere generosi, mettendosi così da parte un buon capitale per il futuro, per acquistarsi la vita vera» (1Tm 6,17). Un consiglio che conserva sempre il suo grande valore morale e ascetico.
 
Vangelo
Chi non è contro di noi è per noi. Se la tua mano ti è motivo di scandalo, tagliala.
 
Giovanni nel pretendere l’esclusivo potere di cacciare i demoni si rivela settario, molto lontano da una mentalità di servizio. La comunità cristiana, «deve essere aperta a tutti, anche quanti sono al di là della cerchia visibile dei suoi, e deve saper distinguere: un conto è essere pro o contro il Maestro [Mt 12,30], un conto è non appartenere esplicitamente ai suoi discepoli» (F. Lambiasi).
 
Dal vangelo secondo Marco
Mc 9,38-43.45.47-48
 
In quel tempo, Giovanni disse a Gesù: «Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva». Ma Gesù disse: «Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi.
Chiunque infatti vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa.
Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, è molto meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare. Se la tua mano ti è motivo di scandalo, tagliala: è meglio per te entrare nella vita con una mano sola, anziché con le due mani andare nella Geènna, nel fuoco inestinguibile. E se il tuo piede ti è motivo di scandalo, taglialo: è meglio per te entrare nella vita con un piede solo, anziché con i due piedi essere gettato nella Geènna. E se il tuo occhio ti è motivo di scandalo, gettalo via: è meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geènna, dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue».
 
Parola del Signore.
 
Chi non è contro di noi, è per noi - I Vangeli, in molte occasioni, non temono di mettere in evidenza i limiti caratteriali e le povertà intellettuali e spirituali degli Apostoli. Così, la richiesta da parte del discepolo che «Gesù amava» di mettere a regime lo Spirito Santo denuncia apertamente una mentalità gretta, tribale, non plasmata ancora dallo Spirito.
Giovanni è l’apostolo che aveva chiesto a Gesù, per sé e per suo fratello Giacomo, i primi posti nel Regno celeste (Mc 10,35-40). E sempre loro due chiederanno a Gesù di incenerire i Samaritani il cui unico torto era stato quello di non aver voluto accogliere il Maestro (Lc 9,54). Tutto questo, oltre a far capire con quale pasta Gesù costruì la sua Chiesa, al dire di molti autori, è un’ulteriore prova della veridicità dei racconti evangelici.
Quella di Giovanni, in pratica, è la richiesta di ottenere il monopolio della potenza del nome di Gesù. La risposta del Maestro sgombra il campo da ogni dubbio: di questa potenza i discepoli non sono i padroni; essa è data da Dio e solo Dio ne dispone i tempi e i modi e l’avvenuto miracolo attesta che chi l’ha operato ha agito con corretta intenzione: «non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito dopo possa parlare male di me».
Gli esorcisti occupavano un posto molto importante anche in Israele in quanto a satana veniva addebitata ogni sorta di sciagure: l’uomo sedotto da satana scivolando nel peccato andava incontro ad ogni tipo di sofferenze, disgrazie e anche malattie fisiche, che palesavano in questo modo il giusto castigo di Dio. Gesù generalmente non contraddice questo modo di pensare, ma in qualche caso esclude una relazione diretta e precisa tra colpa e malattia (cf. Lc 13,2; Gv 5,14; 9,3).
La replica di Gesù - Chi non è contro di noi, è per noi - è una lezione di alto tono magistrale: dinanzi a Dio e di fronte al bene assoluto della salvezza, non vi sono distinzioni tra uomo e uomo, tra «tu sei dei nostri» e «tu non lo sei». L’unica distinzione che il Vangelo fa è riportata nel capitolo 25 di Matteo (vv. 31-45): avevo fame, avevo sete, ero ammalato, forestiero, nudo, malato e mi avete dato accoglienza e assistenza (oppure non me l’avete data). Solo su questa distinzione verterà il giudizio di Dio.
I piccoli non sono tanto i bambini, ma i credenti dalla fede vacillante, i cristiani deboli esposti allo scandalo. I credenti, al dire di sant’Alberto Magno, qui sono «detti piccoli per la loro fede limitata e perché possono essere facilmente scandalizzati, sono cioè deboli nella fede e pronti al peccato, provocati anche dai cattivi esempi dei sacerdoti».
E Gesù su questo punto non ammette deroghe. Il giudizio è severissimo, un giudizio espresso con parole di fuoco. Qui viene sfumata l’immagine edulcorata del Gesù buono a tutti i costi, pronto a perdonare tutto a tutti.
Da qui l’urgenza a recidere, con profonda determinazione, tutto quello che può provocare scandalo a se stessi e ai fratelli. I moniti di Gesù certamente non vanno presi alla lettera. Avremmo un paese zeppo di ciechi e di sciancati. In verità, è l’urgenza della conversione per entrare nel Regno di Dio.
La porta per entrare nel Regno è stretta (Mt 7,13-14) per cui per entrarvi non è necessario mutilarsi, ma semplicemente scorticarsi. La salvezza non è un gioco da ragazzi, non è da prendere sotto gamba; è invece qualcosa di molto serio. Per il Vangelo la vita terrena, nel suo naturale finire, si apre soltanto a due soluzioni: o il Regno, cioè l’eterna beatitudine; o la Geenna, l’Inferno «ove sarà pianto e stridore di denti» (Mt 8,12), cioè l’eterna dannazione (Mt 18,18; 25,41; Gd 1,7).
La sibillina espressione - il loro verme e il fuoco non si estingue - è presa di peso dal libro del profeta Isaia (66,24) dove il verme è simbolo del rimorso.
Acutamente fa osservare san Giovanni Crisostomo che qui la coscienza viene chiamata verme che «morde l’anima che non opera il bene». Quindi  ognuno «diviene accusatore di se stesso al ricordo di come si è comportato nell’esistenza mortale, e così il verme non muore» (Catena Aurea).
Ricordata in altri testi veterotestamentari (cf. Sir 7,17; Gdt 16,17), l’espressione sta ad indicare il giusto castigo dell’empio. Gesù se ne serve «per descrivere metaforicamente le pene dei dannati, che saranno tormentati senza possibilità di riscatto. Strettamente non sembra che vi sia inclusa anche l’idea di eternità. Ma tenendo conto di tutto l’insegnamento del Nuovo Testamento al riguardo, non sembra che si possa escludere» (A. Sisti).
Peccato che il testo evangelico omette il prosieguo: «Perché ciascuno sarà salato con il fuoco».
A volere gettare alle ortiche secoli di esegesi, di pronunciamenti del magistero della Chiesa e di riflessioni alla fine non resta che dire una cosa sola: come esiste la possibilità che l’uomo alla fine della vita possa aprire gli occhi sul volto di Dio (1Cor 13,12), così esiste la possibilità che possa perdersi eternamente. Egli può andare consapevolmente incontro a una dannazione intrisa di indicibili patimenti (la pena del senso) e tra questi il dolore inenarrabile della perdita di Dio (la pena del danno). Il non contemplare Dio, il non vedere il suo volto, questa è la pena indicibile che accompagnerà eternamente il dannato.
La replica di Gesù non è una minaccia, ma «una luce che mi indica la via, e io devo giungere a comprendere e accogliere la sua volontà: “Sì, Signore, se per arrivare a Te mi chiedi di entrare nella vita monco ... zoppo ... con un occhio solo, mi troverai pronto”. Questa è la vita cristiana radicata nella serietà purissima della Croce» (G. Pollano).
 
Lo scandalo - Emanuele Ghini (Scandalo Schede Bibliche Pastorali): 1. Lo scandalo per Israele. Il termine skàndalon eredita dall’ebraico una grande ricchezza di significati; esso deriva da skandàlètron e traduce nei LXX due diverse radici ebraiche: jqs (nqs), che significa prendere in trappola (Sal. 124), e ksl, che significa inciampare, vacillare (Is. 8,15), da cui deriva il sostantivo mik’ sòl, occasione di caduta, ostacolo (Lev. 19,14; Is. 57), usato anche in senso metaforico (1Sam. 25,31; Ez. 3,20).
Si è detto che skàndalon, da causa di rovina materiale, passa progressivamente a indicare rovina in senso religioso, quindi caduta e peccato.
Lo scandalo per Israele si configura come attentato all’alleanza, rifiuto del rapporto d’amicizia che Dio ha stabilito con l’uomo mediante essa. In questo senso possono costituire una seduzione, un laccio per Israele i popoli abitanti la terra promessa (Es. 23,33; 34,12), se Iahvé non li caccia davanti al suo popolo (Gios. 23,13). Causa ricorrente di scandalo, cioè di occasione di peccato, è infatti l’idolatria delle nazioni vicine al popolo eletto (Dt. 7,16). Gli idoli stessi sono detti scandalo (Os. 4,17; Giud. 8,27).
Ma anche Iahvé può porsi come pietra d’inciampo per il suo popolo prevaricatore (Is. 8,14), e costituire per esso, per la sua salvezza, un momentaneo ostacolo (Ger. 6,21). Israele deve scegliere tra l’economia di Dio e quella umana; scegliere quest’ultima è incorrere nella ribellione, che rende Dio causa di rovina per i suoi figli.
Anche il singolo israelita può essere «scandalo» per il popolo eletto, se tenta di strapparlo al rapporto dell’alleanza e quindi dal seguito di Iahvé. Dio punisce chi tenta di indurre Israele alla perversione (1Re 14,16). Elia predice ad Acab la sua tragica fine solo perché ha provocato lo sdegno di Iahvé, ma anche perché ha fatto peccare Israele (1Re 21,22).
Lo scandalo ha un aspetto individuale e un aspetto sociale. Esso è legato all’empietà; per l’empio infatti tutto può essere occasione di caduta e motivo di scandalo: non solo la lingua (Eccli. 23,28), ma anche la legge (Eccli. 32,15). Dio solo può far scomparire lo scandalo (Sof. 1, 3).
2. Potenza demoniaca dello scandalo nel NT. Come nell’Antico Testamento, anche nel Nuovo Testamento lo scandalo è definito in rapporto a Dio.
Nel Nuovo Testamento skàndalon e skandalìzon hanno la stessa pregnanza di significato che nell’Antico Testamento e nel giudaismo, ma subiscono l’influenza del clima nuovo portato da Cristo. Gesù, la più assoluta sfida alla fede, richiama lo scandalo, ostacolo alla fede.
Nei sinottici i due significati principali di skàndalon hanno per centro Satana (il male) o Gesù (la fede). Un gruppo di testi è centrato sul male. È Matteo l’evangelista che mette in luce l’aspetto demoniaco dello scandalo. L’opera di Gesù, l’unto di Spirito santo che si oppone a Satana (Mc. 3,22.29), segna la sconfitta del principe delle tenebre; le espulsioni dei demoni lo manifestano.
Con immagini dell’apocalittica giudaica, Matteo evoca il dramma escatologico. Mt. 13,41 cita Sof. 1,3: gli scandali si riferiscono non solo agli uomini che con il loro esempio causano la rovina di altri, ma alle forze demoniache che lavorano alla corruzione dell’umanità. Esse raggiungono negli ultimi tempi il massimo di potenza nefasta. La vittoria definitiva sarà però dei figli dell’uomo.
Mt. 24,10 richiama Dan. 11,41: lo scandalo è qui la grande apostasia operata dalle potenze sataniche che hanno il compito di seminare il male nel mondo. Per il loro influsso molti si vendono a Satana e lo riconoscono per il Dio dell’universo.
Questi testi mostrano, già in luce escatologica, la grandezza del seduttore che distrugge la fede e induce alla caduta. Anche Mt. 18,7 va letto in prospettiva apocalittica; il testo non riguarda una semplice tentazione, ma mostra lo spaventoso pericolo dello scandalo che precede la venuta del messia e che esclude dalla salvezza. Ma anche gli scandali stanno sotto la necessità divina (anànk) e fanno parte del disegno di Dio, anzi, annunciano presente il suo venire, costringono alla scelta decisiva per o contro Dio. Pietro, che ha ricevuto autorità sulle potenze infernali (Mt. 16,16-19) diviene, a sua insaputa, un loro strumento. Lo scandalo si rivela come contrasto tra l’uomo e Dio, e se ne ricupera qui il senso anticotestamentario: gli idoli erano abominevoli per Iahvé; allo stesso modo è esecrabile lo scandalo. La decisione per o contro Dio passa per un punto solo, la croce; Pietro diviene scandalo per Gesù perché misconosce la via della croce. L’abbandono, da parte di Gesù, del piano di salvezza voluto dal Padre, comporterebbe l’abbandono del mondo alle forze demoniache. La proposta di Pietro è satanica (Mt. 16,21-23). Allo stesso modo i pastori possono divenire motivo di scandalo per il gregge quando la prudenza umana impedisce in essi l’ascolto dello Spirito (Gv. 10,11 s.).
 
Temere solo per il castigo è riprovevole - Agostino, Enarrat. in Ps., 127, 7: “Laggiù non morrà il loro verme né si spegnerà il fuoco che li divora” (Mc 9,43). Ascoltando queste minacce, che toccheranno certamente agli empi, alcuni, presi da timore, si astengono dal peccato. Hanno paura e per questa paura non commettono peccati. Son persone che temono [il castigo] ma non ancora amano la giustizia. Tuttavia quel timore che li spinge ad astenersi dal peccato crea in loro un’inclinazione costante per la giustizia, e ciò che prima era difficile comincia a piacere e si assapora la dolcezza di Dio. A tal punto l’uomo inizia a vivere nella giustizia non per timore delle pene ma per amore dell’eternità.
 
Il Santo del Giorno - Michele, Gabriele e Raffaele. Le voci e i volti «amici» di un Dio che sembra lontano ma ci è accanto - Nel buio delle nostre solitudini, delle nostre fatiche quotidiane, degli ostacoli che l’esistenza ci pone giorno dopo giorno, il nostro cuore ha bisogno di sentire che l’universo ci è accanto. I cristiani sanno, in realtà, che lo stesso Creatore dell’universo cammina assieme a noi, perché ha condiviso con l’umanità anche la morte, sconfiggendola. E gli angeli e gli arcangeli come Michele, Gabriele e Raffaele sono lì a ricordarci che la nostra forza sta nell’amore di Dio. Essi, infatti, sono coloro che mediano, che portano come messaggeri le parole di Dio fino alle nostre orecchie e ci mostrano il volto del Signore. La devozione popolare da sempre si rivolge a loro perché si facciano anche portatori delle nostre parole fino al cuore di Dio, proteggendoci così dai marosi della vita. E l’identità dei tre arcangeli celebrati oggi ci parla di un Signore che ci è amico e compagno di strada, ricordandoci che Egli è unico (Michele l’avversario del maligno), che ha un progetto di salvezza da offrire a tutto il mondo (Gabriele il messaggero) e ci sostiene a ogni nostro passo, anche il più incerto e doloroso (Raffaele il soccorritore). Il culto ha radici antiche che affondano nella tradizione veterotestamentaria e trovano alimento anche nel Nuovo Testamento (Gabriele è l’angelo che annuncia a Maria la nascita di Gesù). La loro identità porta un messaggio di speranza: Dio ci parla, sta a noi saperlo ascoltare davvero. (Matteo Liut)
 
Questo sacramento di vita eterna
ci rinnovi, o Padre, nell’anima e nel corpo,
perché, annunciando la morte del tuo Figlio,
partecipiamo alla sua passione
per diventare eredi con lui nella gloria.
Egli vive e regna nei secoli dei secoli.
 

 28 Settembre 2024
 
Sabato XXV Settimana T. O
 
 Qo 11,9-12,8; Salmo Responsoriale Dal Salmo 89 (90); Lc 9,43b-45

Colletta
O Dio, che nell’amore verso di te e verso il prossimo
hai posto il fondamento di tutta la legge,
fa’ che osservando i tuoi comandamenti
possiamo giungere alla vita eterna.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.

La consapevolezza di Gesù - Catechismo degli Adulti 226: Da tempo Gesù si rendeva conto del rischio mortale. Ripetutamente aveva affermato che quanti si convertono al Regno vanno incontro a persecuzioni: a maggior ragione la stessa sorte sarebbe toccata a lui; tanto più che anche Giovanni Battista era stato ucciso, per ordine di Erode. Nei Vangeli troviamo numerose predizioni di Gesù riguardo a un suo futuro di sofferenza: alcune sono allusive; tre sono piuttosto dettagliate, rese probabilmente più esplicite dai discepoli alla luce degli eventi compiuti. Gesù dunque è consapevole del pericolo; ma gli va incontro con decisione: «Mentre erano in viaggio per salire a Gerusalemme, Gesù camminava davanti a loro ed essi erano stupiti; coloro che venivano dietro erano pieni di timore» (Mc 10,32). Il pericolo non indebolisce la sua fedeltà a Dio e non rallenta i suoi passi. L’ostilità contro Gesù fu alimentata da quanti, senza comprenderne le opere e l’insegnamento, lo considerarono un sovvertitore della religione e un pericoloso agitatore di folle. Gesù era consapevole della morte che lo attendeva, ma andò incontro ad essa con coraggio, per essere fedele a Dio.
 
I Lettura:  La giovinezza va vissuta intensamente, ricordandosi però di restare dentro i confini stabiliti dalla Legge di Dio. Non goderla sarebbe una follia, perché presto arriverà la vecchiaia, e con essa i piagnoni che già si aggirano per la strada. Il filo d’argento spezzato, la lucerna d’oro infranta, l’anfora rotta, la carrucola caduta nel pozzo, sono immagini che ricordano all’uomo la morte, il momento supremo in cui il soffio vitale torna a Dio, che lo ha dato. Nostalgia, ricordi infranti, ma questa è la vita dell’uomo: c’è un tempo per nascere, un tempo per godere, un tempo per morire, e tutto, alla fine, ritorna a Dio.
 
Vangelo
Il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato. Avevano timore di interrogarlo su questo argomento.
 
Gli Evangelisti presentano la missione di Gesù alla luce del progetto di salvezza di Dio. Un progetto che necessariamente deve passare attraverso la croce e la morte del Figlio di Dio. Un discorso che risulta ostico agli stessi Apostoli. È da sottolineare il verbo consegnare. Esso indica il progetto che Dio ha pensato per gli uomini: «per la loro salvezza Dio “consegna” Gesù nelle loro mani. Gesù, infatti, non è stato tradito ... solo da Giuda o dagli Anziani, ma è stato “consegnato” a morte da Dio stesso. Gesù non è stato ucciso [nel senso teologico] dai contemporanei [anche se storicamente essi hanno preso parte al consumarsi di questa morte], ma dalle “mani” di ogni uomo [= dai suoi peccati] alle quali Dio ha consegnato Gesù» (Don Primo Gironi).
 
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 9,43b-45
 
In quel giorno, mentre tutti erano ammirati di tutte le cose che faceva, Gesù disse ai suoi discepoli: «Mettetevi bene in mente queste parole: il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini».
Essi però non capivano queste parole: restavano per loro così misteriose che non ne coglievano il senso, e avevano timore di interrogarlo su questo argomento.
Parola del Signore.
 
Benedetto Prete (I Quattro Vangeli): 43 b Mentre tutti erano pieni di ammirazione per tutto ciò...; formula che introduce la seconda profezia della passione. Nel riferire questa predizione l’evangelista si distacca sensibilmente da Marco, che è il suo principale informatore: Si faccia attenzione alle espressioni ben marcate «mentre tutti», «per tutto ciò» che l’autore usa con frequenza. Luca pone la profezia della passione in un contesto differente da quello di Marco, poiché parla di ammirazione suscitata dall’attività di Gesù; egli quindi dà maggior rilievo al contesto psicologico che a quello storico, segnalato da Marco; nel secondo vangelo sono indicati il luogo (Galilea) e le persone (soltanto i discepoli); cf. Mc., 9, 30-31.
44 Voi mettete bene in mente...; letteral.: nelle orecchie; questo richiamo all’attenzione, che soltanto Luca ricorda, non va riferito al vers. precedente (come se i discepoli dovessero prestare molta attenzione alle espressioni di meraviglia del popolo oppure alle opere che Gesù aveva compiuto e che tutti ammiravano), bensì al seguente che contiene la predizione delle sofferenze del Maestro. Questa ci sembra la soluzione migliore, anche se non è condivisa da tutti gli studiosi. Luca intende porre in risalto questa importante profezia che sembra essere in contrasto con ciò che i fatti possono far pensare di Gesù. Il suo pensiero va parafrasato nel modo seguente: non vi lasciate ingannare dalla viva ammirazione che tutti hanno per il Maestro, perché lo attende una morte umiliante e dolorosa. Sarà dato nelle mani degli uomini; il testo della profezia è notevolmente più conciso di quello dei passi paralleli; con molta probabilità tale concisione dipende dal fatto che l’autore non amava ripetersi aggiungendo ulteriori particolari (uccisione e risurrezione; cf. Lc., 9, 22). L’espressione «sarà dato nelle mani degli uomini» che non ricorre nel testo della prima profezia (cf. Lc., 9, 22) è piena di senso, poiché nel linguaggio biblico il detto «cadere nelle mani degli uomini» significa la sorte dolorosa e crudele di una persona abbandonata da Dio e lasciata al potere degli uomini, cioè alla violenza ed all’arbitrio di essi.
45 Ma essi non comprendevano questo annunzio; contrariamente alla sua abitudine l’evangelista qui osserva che i discepoli non capirono «questa parola», secondo la traduzione letterale del testo greco, cioè la profezia della passione. A Luca interessa segnalare che la incomprensione dei discepoli era voluta misteriosamente da Dio e rientrava in un piano provvidenziale (rimaneva velato alle loro menti, perché non ne avvertissero il senso). Il rilievo ha un accento giovanneo, poiché richiama il modo misterioso in cui si esprime il quarto evangelista. I discepoli, nel momento attuale, non erano maturi, né sufficientemente illuminati per valutare l’importanza della passione nell’economia della salvezza; per ora bastava ad essi l’aver avuto il preannunzio delle sofferenze che dovrà subire il loro Maestro, poiché nel momento voluto da Dio i discepoli, richiamandosi queste parole, ne comprenderanno il pieno senso e ne apprezzeranno il valore profetico (cf. Lc., 24, 32, 44-45). Ed essi temevano di interrogarlo; l’annunzio della passione appariva loro cosi carico di mistero che i discepoli non osarono chiederne la spiegazione.
 
Gesù sa che ormai la sua vita pubblica volge al termine e la sua morte cruenta è a un passo: Gesù sa che i suoi nemici, i farisei e i sadducei, e l’inferno intero (Lc 4,13) stanno affilando le armi per l’ultimo, decisivo assalto.
Gesù è consapevole di tutto questo, non è affatto turbato, ma si premura di istruire i suoi discepoli, coloro che avrebbero dovuto continuare la sua opera di salvezza nel mondo (2Ts 2,4). Non vuole che la sua morte orrenda, maledetta dalla Legge (Gal 3,13; cfr. Dt 21,23), colga gli Apostoli impreparati. Non vuole che la sua morte frantumi la loro debole fede. Non vuole che la sua morte, a motivo della loro estrema debolezza, possa gettarli tra gli artigli di satana (cfr. Lc 22,31). Vuole che la sua morte sia invece un messaggio di speranza, una porta spalancata sulla vita. Ecco perché vuol stare solo con i suoi discepoli: li vuole istruire fin nei più minuti dettagli perché comprendano, perché accettino la volontà del Padre. «Il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini...», è un’espressione biblica «che indica una prova tremenda, in cui il malcapitato può aspettarsi qualunque crudeltà e non può neppure far appello alla pietà o alla misericordia come farebbe con Dio [cfr. Mc 14,41; 2Sam 24,14; Sir 2,18]» (Adalberto Sisti Marco). Lo uccideranno, è il secondo annuncio che Gesù fa della sua imminente morte, ma i discepoli non comprendevano ancora, le parole di Gesù restavano per loro così misteriose che non ne coglievano il senso. Non capivano le parole perché erano aggrappati a un messianismo rivoluzionario, non comprendevano perché per loro era impensabile che la potenza di Gesù si svelasse nella debolezza della morte. Avevano  paura di chiedergli spiegazioni, di interrogarlo su questo argomento. Temevano che Gesù fugasse per sempre quelle esili certezze alle quali si erano abbarbicati nella speranza di aver capito male, di aver forse frainteso. In verità, non riuscivano ad entrare dentro gli ingranaggi del progetto salvifico: non riuscivano a capire perché la salvezza dell’uomo doveva passare necessariamente attraverso la morte del Verbo di Dio. E forse dentro questi ingranaggi non ci siamo entrati nemmeno noi.
 
Il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini - Franco Giulio Brambilla: A partire dal senso che Gesù ha attribuito alla sua morte, i Vangeli sinottici, Paolo e il Vangelo di Giovanni non faranno altro che rileggere questo significato ricuperando le grandi immagini dell’Antico Testamento: la morte di Gesù è la “redenzione”, il “sacrificio”, il “riscatto”. La morte sulla croce manifesta un’eccedenza che rivela una Verità più profonda di ciò che appare. Sono tre gli aspetti che definiscono il senso profondo della morte in croce: essa rivela definitivamente chi è Gesù, chi è Dio e il destino dell’uomo.
Anzitutto, la morte di croce dice chi è Gesù: egli si rivela come colui che e completamente rivolto verso il Padre (cfr. Gv 1,18). L’abbandono fiducioso a Dio sulla croce dice che Cristo si definisce per la sua relazione al Padre: egli è il Figlio. Soprattutto nel momento in cui sembra messa in discussione la sua pretesa, la sua missione, la connessione tra il suo messaggio e la sua persona, egli non si fa valere neppure col pretesto di essere il profeta ultimo, ma si affida in radicale abbandono al Padre suo, assumendo la violenza e il rifiuto peccaminoso degli uomini. Il rifiuto di Dio si colloca così nel cuore della sua manifestazione. Ciò, però, non sconvolge il disegno di Dio, ma Dio assume, perdona, salva dal di dentro la stessa negazione degli uomini. Dio non scambia il peccato degli uomini con l’innocenza di Cristo. Dio, il Padre, assume questo rifiuto, lo porta su di sé; mandando il Figlio, viene egli stesso come il Padre suo, e lo stabilisce come luogo del perdono e della riconciliazione.
In secondo luogo, la morte di croce manifesta e comunica chi è DIO. La verità di Dio è la verità stessa della carità di Dio. La dedizione insuperabile e senza condizioni con cui Gesù si affida al Padre rivela che Dio è colui che è rivolto all’uomo, a cui comunica la sua vita stessa, donandogli il suo bene più prezioso: il Figlio suo (Rm 8,32). La struggente attesa di Israele di vedere il volto di Dio, di entrare nell’intimità della sua alleanza, nella Croce è svelata sul volto sfigurato di Gesù morente, proprio nel momento e nell’evento che è il frutto del suo più radicale rifiuto.
Infine, la donazione di Dio a Gesù e in Gesù agli uomini è il “luogo” del perdono, della riconciliazione, che supera dal di dentro lo stesso rifiuto di Dio e tutte le forme che lo rappresentano, la non comunione, l’abbandono, il tradimento, l’inimicizia, la violenza e, alla fine, la stessa morte. Gesù muore per tutti, nel duplice senso di “a causa” e di “a vantaggio” del peccato degli uomini, perché portandolo in sé lo riconcilia nel luogo stesso della sua negazione. Forse solo qui può trovare risposta la domanda: perché la Passione e la Croce di Gesù? Perché una morte così? La sofferenza, il dolore, la Croce, sono il prodotto del rifiuto di Dio, la conseguenza della sua negazione da parte della libertà umana. E il Padre in Cristo vi passa attraverso (e lo Spirito li tiene uniti nella massima separazione), supera il peccato dal di dentro, ricupera la libertà nel suo punto più intimo. Dio non salva automaticamente, non guarisce magicamente. Egli ricupera la libertà facendola ritornare a ritroso, ed è noto quanto sia oneroso ricostruire una libertà ferita. Fin nel cuore dell’uomo, fin nelle profondità di tutta l’umanità, dal primo uomo fino alla fine dei tempi.
 
Essi però non capivano queste parole: «Questa ignoranza dei discepoli non nasce tanto dalla limitatezza del loro intelletto, quanto dall’amore che essi nutrivano per il Salvatore, questi uomini ancora carnali e ignari del mistero della croce, non avevano la forza di accettare che colui che essi avevano riconosciuto essere vero Dio tra poco sarebbe morto. Ed essendo abituati a sentirlo parlare per parabole, poiché inorridivano alla sola idea della sua morte, tentavano di dare un significato figurato anche a quanto egli diceva apertamente a proposito della sua cattura e della sua passione» (Beda il Venerabile).
 
Il Santo del Giorno - 28 Settembre 2024 - Amalia Abad Casasempere, madre di famiglia, martire: Amalia Abad Casasempere fedele laica, nacque l’11 dicembre 1897 ad Alcoy, nei pressi di Alicante in Spagna. Fu battezzata il medesimo giorno, cresimata il 6 ottobre 1906 e ricevette la prima comunione il 22 maggio 1907 nella chiesa parrocchiale del paese. Il 6 settembre 1924 convolò a nozze con il capitano dell’esercito Luis Maestre Vidal, dal quale ebbe tre figlie, di cui una andò poi missionaria in Africa. Il focolare domestico era impregnato di una profonda religiosità. Amalia collaborò con numerose Associazioni apostoliche, specialmente con l’Azione Cattolica. Rimase vedova nel 1927, dopo soli tre anni di matrimonio.
Allo scoppio della guerra civile e della persecuzione religiosa accolse in casa sua due religiose e si dedicò anche alla visita dei cattolici incarcerati, incoraggiandoli nel mantenere viva la loro fede ed aiutandoli anche materialmente. Imprigionata infine anch’essa, fu sottoposta a diverse vessazioni ed ebbe a soffrire parecchio la fame. Fu infine martirizzata presso Benillup il 28 settembre 1936.
Papa Giovanni Paolo II l’11 marzo 2001 elevò agli onori degli altari ben 233 vittime della medesima persecuzione, tra le quali la Beata Amalia Abad Casasempere, che viene commemorata dal Martyrologium Romanum nell’anniversario del suo martirio. (Autore: Fabio Arduino)
 
Guida e sostieni, o Signore, con il tuo continuo aiuto
il popolo che hai nutrito con i tuoi sacramenti,
perché la redenzione operata da questi misteri
trasformi tutta la nostra vita.
Per Cristo nostro Signore.