1 Settembre 2024
 
XXII Domenica T. O.
 
Dt 4,1-2.6-8; Salmo Responsoriale Dal Salmo 14 (15): Gc 1,17-18.21b-22.27; Mc 7,1-8.14-15.21-23
 
Colletta
O Padre,
che sei vicino al tuo popolo ogni volta che ti invoca,
fa’ che la tua parola seminata in noi
purifichi i nostri cuori
e giovi alla salvezza del mondo.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Papa Francesco (2 Settembre 2024): In questa domenica riprendiamo la lettura del Vangelo di Marco. Nel brano odierno (cfr Mc 7,1-8.14-15.21-23), Gesù affronta un tema importante per tutti noi credenti: l’autenticità della nostra obbedienza alla Parola di Dio, contro ogni contaminazione mondana o formalismo legalistico.
Il racconto si apre con l’obiezione che gli scribi e i farisei rivolgono a Gesù, accusando i suoi discepoli di non seguire i precetti rituali secondo le tradizioni. In questo modo, gli interlocutori intendevano colpire l’attendibilità e l’autorevolezza di Gesù come Maestro perché dicevano: “Ma questo maestro lascia che i discepoli non compiano le prescrizioni della tradizione”. Ma Gesù replica forte e replica dicendo: «Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti, come sta scritto: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini”» (vv. 6-7). Così dice Gesù.
Parole chiare e forti! Ipocrita è, per così dire, uno degli aggettivi più forti che Gesù usa nel Vangelo e lo pronuncia rivolgendosi ai maestri della religione: dottori della legge, scribi… “Ipocrita”, dice Gesù.
Gesù infatti vuole scuotere gli scribi e i farisei dall’errore in cui sono caduti, e qual è questo errore? Quello di stravolgere la volontà di Dio, trascurando i suoi comandamenti per osservare le tradizioni umane. La reazione di Gesù è severa perché grande è la posta in gioco: si tratta della verità del rapporto tra l’uomo e Dio, dell’autenticità della vita religiosa. L’ipocrita è un bugiardo, non è autentico.
Anche oggi il Signore ci invita a fuggire il pericolo di dare più importanza alla forma che alla sostanza. Ci chiama a riconoscere, sempre di nuovo, quello che è il vero centro dell’esperienza di fede, cioè l’amore di Dio e l’amore del prossimo, purificandola dall’ipocrisia del legalismo e del ritualismo.
 
Prima Lettura: Il testo contiene due raccomandazioni: quella di accogliere e di mettere in pratica «le leggi e le norme» che Dio dona per la vita del suo popolo e quella di non aggiungere e nulla togliere riguardo a quei comandi del Signore per non incorrere nella maledizione divina. Raccomandazione molto diffusa per quei tempi (cf. Ap 22,18-19). L’autore esprime anche il sentimento di fierezza che gli Ebrei hanno sempre avvertito, per essere stati i depositari e i custodi della rivelazione mosaica. Mentre le altre tradizioni del Pentateuco «sottolineano la distanza che separa Dio dall’uomo [cf. Es 33,20], il Deuteronomio insiste sulla condiscendenza che rende Dio vicino al suo popolo: egli abita in mezzo ad esso [Dt 12,5]. Il medesimo spirito deuteronomista si trova espresso nel racconto della dedicazione del tempio [1Re 8,10-29]. Si ritrova questo pensiero in Ez 48,35. L’ultima parola sarà detta dal NT [Gv 1,14]» (Bibbia di Gerusalemme).
 
Seconda Lettura: Giacomo mirabilmente mette in luce la vera religiosità cristiana, quella che egli chiama «religione pura e senza macchia davanti a Dio nostro Padre». Tale religiosità pura e senza macchia consta di due elementi: l’apertura verso i deboli e gli indifesi (orfani e vedove, le categorie sociali più bistrattate); il distacco dal mondo ingannevole e passeggero, il che vuol dire «intestardirsi» a cercare «le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio»; a pensare «alle cose di lassù, non a quelle della terra» (Col 3,1-2).
 
Vangelo
Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini.
 
Per la comprensione del Vangelo è opportuno richiamare alla memoria le norme di purità che gli Ebrei ritenevano di dover osservare prima di prestare il culto liturgico a Dio. Essi distinguevano tra cose, persone, creature, azioni pure e impure . Chi veniva a contatto con ciò che era considerato impuro doveva purificarsi, prima di entrare in contatto con Dio. Per la Bibbia di Gerusalemme, «i rabbini facevano risalire la tradizione orale, attraverso gli “anziani”, a Mosè ...  A proposito dell’impurità delle mani, obiettata dai Farisei, Gesù prende in considerazione la questione più generale dell’impurità attribuita dalla legge a certi alimenti [Lev 11]
 e insegna a posporre l’impurità legale a quella morale, la sola che importa veramente ([cf. At 10,9-16; 10,28 ...]».
 
Dal Vangelo secondo Marco
Mc 7,1-8.14-15.21-23
 
In quel tempo, si riunirono attorno a Gesù i farisei e alcuni degli scribi, venuti da Gerusalemme.
Avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani impure, cioè non lavate – i farisei infatti e tutti i Giudei non mangiano se non si sono lavati accuratamente le mani, attenendosi alla tradizione degli antichi e, tornando dal mercato, non mangiano senza aver fatto le abluzioni, e osservano molte altre cose per tradizione, come lavature di bicchieri, di stoviglie, di oggetti di rame e di letti –, quei farisei e scribi lo interrogarono: «Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?».
Ed egli rispose loro: «Bene ha profetato Isaìa di voi, ipocriti, come sta scritto:
“Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me.
Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini”.
Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini».
Chiamata di nuovo la folla, diceva loro: «Ascoltatemi tutti e comprendete bene! Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro». E diceva [ai suoi discepoli]: «Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo».
 
Parola del Signore.
 
Discussione sulle tradizioni farisaiche - Ai tempi di Gesù, i Farisei e gli scribi erano considerati i fedeli custodi della tradizione scritta ed orale per cui la loro autorità era indiscussa. Ma la tradizione orale, il cui scopo era quello di esplicitare quella scritta e così alleggerirla, in verità la rendeva insopportabile, a volte, anche per le stesse guide spirituali tanto che spesso, con mille sotterfugi, arrivavano intenzionalmente a trasgredirla: «Quanto vi dicono, fatelo e osservatelo, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno. Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito» (Mt 23,3).
Il tema della discussione è quello del «lavarsi le mani» che non era un norma igienica, ma una prescrizione rituale della purificazione secondo la «tradizione degli antichi».
I tutori della legge consideravano Gesù e i suoi discepoli, a motivo del loro atteggiamento insubordinato, sovvertitori della legge e questo per la nazione intera poteva avere conseguenze inimmaginabili (Gv 11,48). La loro disubbidienza, poi, era sotto gli occhi di tutti; quindi, era urgente fermarli prima che fosse troppo tardi. Così si capisce perché la «casa madre», Gerusalemme, si premura di inviare a Genèsaret alcuni esperti della legge.
Sotto il rimprovero capzioso rivolto a Gesù, si può cogliere quella mentalità dura a morire la quale nasceva dalla considerazione che la legge, e sopra tutto la sua osservanza, bastava a giustificare il Giudeo: chi non osservava la legge era gente dannata (Gv 7,49), tagliata fuori dal progetto salvifico. Gesù, agli occhi dei Farisei, non soltanto sovvertiva la tradizione degli antichi, ma fuorviava il popolo introducendolo in sentieri che lo avrebbe portato molto lontano dalla salvezza. Accuse quindi molto pesanti che andavano al di là della banalità di lavarsi le mani prima di prendere cibo.
Gesù innanzi tutto si rifà agli insegnamenti dei Profeti in eterno conflitto con il potere deviante dei governanti e con il posticcio culto che la nazione rendeva a Dio. I re, sovente idolatri, sguazzavano nella melma della sensualità (Sir 47,19) e non si facevano scrupolo di ammazzare pur di possedere la donna oggetto delle loro brame (2Sam 11,1-27).
Il popolo da par suo era abilissimo nell’ emulare le sue guide: da una parte l’incenso e dall’altra una vita scellerata (Is 1,11-13); da una parte le preghiere nel tempio e dall’altra parte le mani lorde di sangue fraterno (Is 1,15); da una parte l’osservanza del Sabato e dall’altra la bramosia che tutto passasse in fretta perché si potesse riprendere a vendere rubando e truffando sul peso (Amos 8,5-6).
La risposta di Gesù è molto aspra, la sua è infatti una controaccusa: i toni sono forti perché Egli sta rimproverando gente molto abile nell’eludere i comandamenti di Dio contrapponendovi la tradizione umana (Mc 7,9) e molto brava da apparire «giusti all’esterno davanti agli uomini» (Mt 23,28).
Per cui Gesù senza mezzi termini li taccia di ipocrisia: il termine hipokrites descrive gli attori con il volto nascosto da una maschera.
In questa prima discussione Gesù non coinvolge il popolo, si rivolge solo ai Farisei e agli scribi perché tecnicamente capaci di comprendere il suo linguaggio. Poi chiama la folla e qui il discorso ha la forma di didascalia, cioè di insegnamento; un insegnamento rivolto a tutti, discepoli e no, e che da tutti doveva essere ritenuto. Gesù non è un rivoluzionario: la legge va osservata anche nei più piccoli particolari perché lui non è venuto per abolirla, ma per renderla perfetta (Mt 5,17-19).
È un invito a guardarsi dentro: la creazione di per sé è buona e c’è un solo tipo di impurità che allontana l’uomo da Dio ed è quella che scaturisce dal suo cuore, cioè dai pensieri e dalle intenzioni. È l’uomo, se non ha un cuore puro, a rendere impure anche le cose buone. E poi, ora, nella pienezza del tempo, non è la legge e la sua osservanza a giustificare l’uomo, ma la fede in Cristo (Rom 5,1s).
 
L’invidia - Roberto Tufariello (Invidia in Schede Bibliche): Nel Nuovo Testamento l’invidia è indicata col termine fthónos e talvolta con zêlos.
Gesù, nel corso della sua vita, è stato oggetto di invidia da parte dei sommi sacerdoti e dei farisei a causa del successo che otteneva tra le folle (Mt. 27,18; Gv. 11,45-57). Egli ha spiegato che l’origine di questa tendenza cattiva, come delle altre, è nel cuore dell’uomo; è lì quindi che bisogna vincerla: «Escono infatti dal cuore degli uomini le intenzioni cattive, fornicazioni, furti, omicidi, adulteri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive escono fuori e contaminano l’uomo» (Mc. 7,21-31).
Gesù ha accennato all’invidia anche in alcune parabole. Nella parabola degli operai della vigna si rimprovera 1’«occhio cattivo» di coloro che mormorano perché i chiamati dell’ultima ora ricevono la paga dell’intera giornata. Il padrone della vigna afferma che non c’è ragione di dolersi dei doni che la sua bontà vuole elargire, oltre il giusto salario, indipendentemente dai meriti dei lavoratori (Mt. 20,13-14). Ugualmente, il figlio fedele della nota parabola lucana non avrebbe motivo di infuriarsi per il trattamento di bontà e di generosità che viene fatto al fratello prodigo, pentito e tornato alla casa del padre (Lc. 15,29-32).
Nelle lettere di s. Paolo, l’invidia compare in vari elenchi di vizi; essa è tra i peccati che caratterizzano la vita dei pagani che colpevolmente non riconoscono Dio (Rom. 1,29); è una delle «opere della carne» che possono escludere dal regno di Dio e che non si accordano con la vita «secondo lo Spirito» (Gal. 5,21.26); è una delle «opere delle tenebre» che il cristiano deve respingere (cf. Rom. 13,13).
I credenti, prima di ricevere il battesimo, vivevano immersi nella malizia e nell’invidia, odiosi, nemici a vicenda» (Tito 3,3-4). Ma poi, dopo l’immersione battesimale, hanno rinunciato a ogni forma di malizia, compresa l’invidia, per vivere una vita nuova (1Pt. 2,1-2). Anche dopo il battesimo, uno può lasciarsi prendere dall’invidia (1Cor. 3,3; 2Cor. 12,20); ma se vuole, può superarla mediante la carità, la quale sa rallegrarsi del bene altrui (1Cor. 13,4-5).
In qualche testo, l’invidia viene indicata come un pericolo anche per i pastori del gregge di Cristo.
Essa è una delle caratteristiche dei falsi dottori, la cui azione pastorale è guidata dall’orgoglio e dall’avarizia (1Tim. 6,3-5).
Alcuni predicatori annunciano il vangelo esclusivamente per spirito di rivalità e di invidia verso Paolo o altri apostoli, allo scopo di rovinarne l’autorità presso i fedeli e di soppiantarla. S. Paolo ritiene che questa motivazione faziosa non faccia perdere al vangelo il suo valore; tuttavia non può che disapprovare i predicatori che si lasciano guidare da tali sentimenti: «Alcuni, è vero, predicano Cristo anche per invidia e spirito di contesa, ma altri con buoni sentimenti. Questi lo fanno con carità...; quelli invece predicano Cristo con spirito di rivalità, con intenzioni non pure, pensando di aggiungere dolore alle mie catene. Che importa? Purché in ogni maniera, sia nella ipocrisia che nella verità, Cristo venga annunciato, me ne rallegro e rallegrerò» (Fil. 1,15-18).
San Giacomo spiega che l’invidia ha un ruolo non piccolo nella genesi delle contese e delle lotte tra gli uomini (Giac. 4,1-2). Egli definisce «amaro» questo peccato, che è il frutto di una falsa sapienza, chiamata «carnale» e « diabolica» perché ha la sua origine nel padre della menzogna. A questa sapienza si contrappone quella «dall’alto», di origine divina, che porta frutti di pace, di mitezza, di misericordia: «Ma se avete nel vostro cuore dell’invidia amara e spirito di contesa, non gloriatevi e non mentite contro la verità. Questa non è sapienza che viene dall’alto: è terrena, carnale, diabolica; poiché dove c’è invidia e spirito di contesa, c’è disordine e ogni sorta di male. Ma la sapienza che viene dall’alto, anzitutto è pura; poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, senza parzialità, senza ipocrisia» (Giac. 3,14-17).
 
Alberto Magno (In ev. Marc VII): Non c’è niente che possa contaminare l’uomo entrando in lui dall’esterno … : qui si parla della contaminazione dell’anima ... che non avviene a causa del cibo, ma dell’inosservanza degli insegnamenti divini, come anche Adamo fu reso impuro non dal cibo, ma dalla disobbedienza, e rese noi tutti impuri.
 
Il santo del giorno - 1 Settembre 2024 - San Giosuè, Patriarca: Il giovane Giosuè fa il suo tirocinio al servizio di Mosè. Accumula esperienza e conoscenza, diventa un uomo pieno dello spirito di saggezza. Per questa sua sapienza e docilità merita di diventare il successore di Mosè, che guiderà il popolo nell’ingresso nella terra promessa. Il passaggio del Giordano più che un’azione bellica è una processione liturgica da lui guidata.
Al centro dell’evento vi è l’Arca trasportata dai sacerdoti. Non appena essi toccano l’acqua, questa si divide per lasciar passare il popolo all’asciutto. Anche la conquista di Gerico viene presentata come un’azione liturgica di cui sono protagonisti i sacerdoti. Per sei giorni essi aprono il corteo intorno alle mura della città. Il settimo giorno compiono il giro per ben 7 volte, e al termine dell’ultimo, al suono delle trombe, le mura crollano. I due episodi sono accomunati da una premessa teologica: la conquista della terra è un dono di Dio, Giosuè ne è lo strumento. (Avvenire)
 
O Signore, che ci hai saziati con il pane del cielo,
fa’ che questo nutrimento del tuo amore
rafforzi i nostri cuori
e ci spinga a servirti nei nostri fratelli.
Per Cristo nostro Signore.
 
 31 Agosto 2024
 
Sabato XXI Settimana T. O.
 
1Cor 1,26-31; Salmo responsoriale Dal Salmo 32 (33); Mt 25,14-30
 
Colletta
O Dio, che unisci in un solo volere le menti dei fedeli,
concedi al tuo popolo di amare ciò che comandi
e desiderare ciò che prometti,
perché tra le vicende del mondo
là siano fissi i nostri cuori dove è la vera gioia.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Signore, so che sei un uomo duro - Giovanni Paolo II (Omelia, 15 Novembre 1981): Nel Vangelo di oggi, abbiamo il tipico atteggiamento di colui che non mette a frutto i doni ricevuti: “Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso, per paura andai a nascondere il tuo talento sotterra” (Mt 25,24-25). Si può dire di lui che è “beato”, perché “ha temuto il Signore”? Certamente no! lo fanno capire le stesse parole di Cristo. Il Signore della parabola, infatti, biasima il comportamento di quel servo. È un servo “malvagio ed infingardo”, che non ha utilizzato affatto il suo denaro, non lo ha sfruttato, ma lo ha addirittura sprecato. Ed ecco, che cosa dice il Signore: “Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha dieci talenti. Perché a chiunque ha, sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha” (Mt 25,28-29). Questa parabola dei talenti ci insegna a distinguere il vero timore di Dio da quello falso. Il vero timore di Dio non è paura, ma piuttosto dono dello Spirito, per cui si teme di offenderlo, di rattristarlo e di non fare abbastanza per essere fedeli alla sua volontà; mentre il falso timore di Dio è fondato sulla sfiducia in lui e sul meschino calcolo umano. Vero timore di Dio ha colui che “cammina nelle vie del Signore” (Sal 127,1), così come si è manifestato nel comportamento del primo e del secondo servo, entrambi lodati dal Signore con le parole: “Bene, servo buono e fedele, sei stato fedele nel poco, ti darò potere sul molto” (Mt 25,21.23).
 
 I Lettura: I destinatari della lettera sono i cristiani della chiesa di Corinto, formata da credenti per lo più poveri e di poco peso sociale (cfr. 1Cor 1,26). La situazione è preoccupante: la comunità subornata da sedicenti apostoli si era divisa in fazioni. Inoltre, molti, vantandosi di una loro supposta superiorità intellettuale, disprezzavano ostentatamente chi non era “sapiente, potente, nobile”. E questo divideva ancora di più la comunità. Paolo, cercando di riportare l’unità e la pace nella comunità, ricorda ai “molti sapienti” che non sono gli orgogliosi e i saccenti ad apprezzare e a comprendere il piano salvifico di Dio attuato con la morte di Cristo in croce, bensì coloro che sono ripieni della sapienza spirituale che viene dall’alto. E perché possano comprendere questa strategia divina, Paolo li invita a ripensare proprio alla loro “vocazione”.
 
Vangelo
Sei stato fedele nel poco, prendi parte alla gioia del tuo padrone.
 
Molti credono che «la parabola dei talenti» faccia riferimento a Erode Archelao il quale era partito per Roma per ricevere il titolo di re della Giudea. Al di là di questa nota, l’insegnamento del racconto è molto chiaro.
Gesù è l’uomo che intraprende il viaggio, i servi i credenti, i talenti il «patrimonio del padrone dato da amministrare in proporzione diverse “a ciascuno secondo le sue capacità”» (Clara A. Cesarini). Non è degno del premio celeste chi non sente la responsabilità di far crescere il regno. L’inattività del servo malvagio, alla fine della vita, sarà giudicata con severità.
 
Dal Vangelo secondo Matteo
Mt 25,14-30
 
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola:
«Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì.
Subito colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone.
Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro.
Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, dicendo: “Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”.
Si presentò poi colui che aveva ricevuto due talenti e disse: “Signore, mi hai consegnato due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”.
Si presentò infine anche colui che aveva ricevuto un solo talento e disse: “Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo”.
Il padrone gli rispose: “Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse. Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”».

Parola del Signore.
 
Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti - Benedetto Prete (I Quattro Vangeli): versetti 28-29: Al primo servo fedele ed attivo è dato anche il talento del servitore infingardo. Questo gesto del padrone scopre maggiormente il vero senso del racconto. Il servo attivo ha una grande ricompensa ed è associato sempre di più agli interessi del padrone. Secondo la prospettiva della parabola risulta che il servitore di Cristo riceve maggiore autorità e responsabilità nel governo del regno (cf. Lc., 16, 12). A chiunque ha, sarà dato... a chi invece non ha, sarà tolto anche ciò che ha; il proverbio, espresso in forma paradossale, spiega la risoluzione del padrone di togliere il talento al servo infingardo per affidarlo a quello attivo (cf. 13, 12); queste parole possono anche svelare un aspetto dell’economia divina nelle anime: Dio moltiplica le sue grazie a coloro che le apprezzano e sfruttano; le ritira invece da quelli che se ne mostrano indegni. Al primo servo fedele ed attivo è dato anche il talento del servitore infingardo. Questo gesto del padrone scopre maggiormente il vero senso del racconto. Il servo attivo ha una grande ricompensa ed è associato sempre di più agli interessi del padrone. Secondo la prospettiva della parabola risulta che il servitore di Cristo riceve maggiore autorità e responsabilità nel governo del regno (cf. Lc., 16,12). A chiunque ha, sarà dato... a chi invece non ha, sarà tolto anche ciò che ha; il proverbio, espresso in forma paradossale, spiega la risoluzione del padrone di togliere il talento al servo infingardo per affidarlo a quello attivo (cf. 13, 12); queste parole possono anche svelare un aspetto dell’economia divina nelle anime: Dio moltiplica le sue grazie a coloro che le apprezzano e sfruttano; le ritira invece da quelli che se ne mostrano indegni.
versetto 30: Al primo servo fedele ed attivo è dato anche il talento del servitore infingardo. Questo gesto del padrone scopre maggiormente il vero senso del racconto. Il servo attivo ha una grande ricompensa ed è associato sempre di più agli interessi del padrone. Secondo la prospettiva della parabola risulta che il servitore di Cristo riceve maggiore autorità e responsabilità nel governo del regno (cf. Lc., 16,12). A chiunque ha, sarà dato... a chi invece non ha, sarà tolto anche ciò che ha; il proverbio, espresso in forma paradossale, spiega la risoluzione del padrone di togliere il talento al servo infingardo per affidarlo a quello attivo (cf. 13,12); queste parole possono anche svelare un aspetto dell’economia divina nelle anime: Dio moltiplica le sue grazie a coloro che le apprezzano e sfruttano; le ritira invece da quelli che se ne mostrano indegni.
 
E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti -  Liselotte Mattern: Tutto il Nuovo Testamento parla del giudizio di Dio. Il momento esatto della venuta del giudizio di Dio non lo si può calcolare. Il giudizio di Dio interessa vivi e morti, presuppone quindi l’idea della risurrezione. Dio è il giudice, o meglio Dio investe Cristo del ministero di giudice. L’uomo è posto davanti al giudice e deve render conto della propria vita: nessuna parola, nessun bicchiere d’acqua saranno dimenticati. A differenza del giudaismo, il risultato del giudizio non viene generalmente descritto. Il giudizio sui non-credenti, la condanna, interessa generalmente poco. Talvolta si trova anche la stringata menzione di “pianto e stridore di denti”. Nemmeno le circostanze del verdetto del giudizio di Dio sui cristiani vengono descritte. Importante è soltanto l’affermazione: Dio prende così sul serio il suo servitore, che il cristiano deve render conto a Dio di tutta la propria vita. Le asserzioni riguardanti il giudizio di Dio non permettono dunque, nel Nuovo Testamento, che si speculi sul futuro dimenticando il presente. Si tratta, piuttosto, di credere oggi, vale a dire di vivere come servitori del Signore. Si può tuttavia certo parlare di ricompensa che il Signore darà al cristiano - ma si tratta di una concezione del giudizio di Dio fondamentalmente diversa da quella del giudaismo rabbinico: nel giudaismo il pio cerca, con l’aiuto delle sue buone opere, di meritarsi il paradiso. Gesù invece demolisce ogni pretesa di merito. Quando il giudice del mondo compare e compie la divisione degli uomini fra la sua destra e la sua sinistra, quanti sono accettati non presenteranno a Dio le loro buone opere, ma chiederanno meravigliati quando abbiano servito Dio: hanno aiutato i bisognosi senza mirare alla ricompensa (Mt 25,31ss). Anche se il cristiano avesse fatto tutto - che cosa è alla fine se non un misero servo che ha fatto soltanto il proprio dovere (Lc 17,10) e dipende dalla grazia di Dio? 
 
È inutile continuare a minimizzare o a trovare pezze di appoggio per giustificare una vita infeconda, ipocrita, ammantata soltanto di una labile vernice di cristianesimo; è inutile perché la Parola è a tutto tondo: Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse. Molti hanno un buon mestiere: quello del voltagabbana, in Chiesa pii e devoti, fuori cani arrabbiati alla ricerca dell’osso da spolpare, e, se c’è bisogno, strapparlo, anche con la forza e la prepotenza, dai denti del vicino, del compagno, dell’amico, del coniuge. Si dice di essere cristiani quando è conveniente, e, spesso per facciata, come il maritarsi in Chiesa, o portare la prole al fonte battesimale, o accompagnare la figlia all’altare, magari commossi e con pancia e petto all’infuori. Ma quando c’è di fare soldi, di impinguare il conto corrente, o spassarsela in qualche isola sperduta con qualche bella fanciulla lasciando a casa figli, nipoti e coniuge, allora si diventa tutt’altro. La scusa del servo malvagio e pigro può trovare un appiglio: aveva paura di sbagliare e aveva paura del castigo conoscendo la severità del padrone. Ma oggi così è? Abbiamo paura dei castighi del padrone?
Tradotto in altre parole, molti cristiani, oggi, non credono più alla severità del padrone, d’altronde l’Inferno non esiste oppure è vuoto, e poi il padrone è buono e perdona tutto e tutti, e quindi, con grande faccia tosta, continuano a nascondere sotto terra i loro talenti. E così, oltre ad essere voltagabbana e infingardi, sono pure ingrati calpestando e sciupando i doni di Dio. Ma alla fine tutti ci presenteremo al tribunale di Dio [...], quindi ciascuno di noi renderà conto di se stesso a Dio (Rm 14,10-12).
 
Dopo molto tempo: “Considera che in ogni occasione il Signore non esige subito il rendiconto. Difatti nel caso della vigna la consegnò ai contadini e partì; anche in questo caso affidò il danaro e partì, perché tu impari la sua pazienza. Mi sembra che si esprima così per alludere anche alla risurrezione. Nella parabola dei talenti non si tratta di contadini né di vigna, ma tutti operano, perché non parla solo ai capi, né ai giudei, ma a tutti. Quelli che presentano i guadagni riconoscono con gratitudine ciò che è loro e ciò che è del padrone. L’uno dice: Signore, mi hai dato cinque talenti, e l’altro: due, per mostrare che avevano ricevuto da lui l’occasione di operare, gliene erano molto grati e attribuivano tutto a lui. (Giovanni Crisostomo, Omelie sul Vangelo di Matteo 78, 2)
 
Il Santo del giorno: 31 Agosto 2024: San Aidano di Lindsfarne, Vescovo: Di Aidano ci è giunta una descrizione a opera del monaco anglosassone Beda il Venerabile, che nacque 20 anni dopo la sua morte. È sconosciuto il luogo e la data di nascita di Aidano, ma si crede che fosse irlandese. Nel 635 fu nel monastero di Iona nell’omonima isola e centro missionario dell’epoca. In quell’anno il re di Northumbria, Oswald desideroso di diffondere il cristianesimo nel suo regno, si rivolse all’abate di Iona, dove era stato convertito e battezzato, affinché mandasse un missionario. Dopo il fallimento del vescovo Cormano, fu mandato lo stesso Aidano, che intanto era stato consacrato vescovo missionario. Accolto dal re Oswald gli concesse l’isola di Lindsfarne nel Mare del Nord per fondarvi un monastero e una sede episcopale. Aidano ebbe un aiuto costante da parte del re Oswald e quando questi morì nel 642, il successore Oswin, continuò ad appoggiarlo nella sua opera di apostolato missionario. Undici giorni dopo la morte del re Oswin assassinato, anche Aidano morì a Bambourgh il 31 agosto 651 e sepolto nel suo monastero. (Avvenire)
 
Porta a compimento in noi, o Signore,
l’opera risanatrice della tua misericordia
e fa’ che, interiormente rinnovati,
possiamo piacere a te in tutta la nostra vita.
Per Cristo nostro Signore.
 

30 Agosto 2024
 
Venerdì XXI Settimana T. O.
 
1Cor 1,17-25; Salmo responsoriale Dal Salmo 32 (33); Mt 25,1-13
 
Colletta
O Dio, che unisci in un solo volere le menti dei fedeli,
concedi al tuo popolo di amare ciò che comandi
e desiderare ciò che prometti,
perché tra le vicende del mondo
là siano fissi i nostri cuori dove è la vera gioia.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
La parabola delle dieci vergini: Papa Francesco (Udienza Generale, 24 Aprile 2013): Si tratta di dieci ragazze che aspettano l’arrivo dello Sposo, ma questi tarda ed esse si addormentano. All’annuncio improvviso che lo Sposo sta arrivando, tutte si preparano ad accoglierlo, ma mentre cinque di esse, sagge, hanno olio per alimentare le proprie lampade, le altre, stolte, restano con le lampade spente perché non ne hanno; e mentre lo cercano giunge lo Sposo e le vergini stolte trovano chiusa la porta che introduce alla festa nuziale. Bussano con insistenza, ma ormai è troppo tardi, lo Sposo risponde: non vi conosco. Lo Sposo è il Signore, e il tempo di attesa del suo arrivo è il tempo che Egli ci dona, a tutti noi, con misericordia e pazienza, prima della sua venuta finale; è un tempo di vigilanza; tempo in cui dobbiamo tenere accese le lampade della fede, della speranza e della carità, in cui tenere aperto il cuore al bene, alla bellezza e alla verità; tempo da vivere secondo Dio, poiché non conosciamo né il giorno, né l’ora del ritorno di Cristo. Quello che ci è chiesto è di essere preparati all’incontro - preparati ad un incontro, ad un bell’incontro, l’incontro con Gesù -, che significa saper vedere i segni della sua presenza, tenere viva la nostra fede, con la preghiera, con i Sacramenti, essere vigilanti per non addormentarci, per non dimenticarci di Dio. La vita dei cristiani addormentati è una vita triste, non è una vita felice. Il cristiano dev’essere felice, la gioia di Gesù. Non addormentarci!
 
I Lettura: Mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza: Da sempre gli uomini sono alla ricerca di sicurezze umane: miracoli che garantiscano la verità del messaggio; scienza o sapere sapienziale che soddisfi una intelligenza bramosa di conoscere. Per Paolo questa ricerca non è condannabile in se stessa, ma se diventa un’esigenza primaria che spinge a rifiutare il Vangelo, allora è inammissibile. Grande è poi, il mistero della croce: umanamente, «appare come il contrario dell’attesa, sia degli ebrei come dei greci: sconfitta anziché manifestazione gloriosa, stoltezza anziché sapienza. Ma, nella fede, la croce appare come qualcosa che colma e oltrepassa l’attesa: potenza e sapienza di Dio» (Bibbia di Gerusalemme). 
 
Vangelo
Ecco lo sposo! Andategli incontro!
 
Il cuore della parabola delle dieci vergini è la vigilanza: Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora. Ma al di là di questa indicazione, le vergini rappresentano le anime cristiane nell’attesa dello sposo, il Cristo. Anche se egli ritarda, la lampada della vigilanza deve restare pronta. Il dolce dormire è preludio di una rovinosa tragedia: alla fine della vita, al nostro continuo bussare, lo Sposo risponderà: «In verità io vi dico: non vi conosco». Non possiamo farci illusioni: «Dio non si lascia ingannare. Ciascuno raccoglierà quello che avrà seminato. Chi semina nella sua carne, dalla carne raccoglierà corruzione; chi semina nello Spirito, dallo Spirito raccoglierà vita eterna. E non stanchiamoci di fare il bene; se infatti non desistiamo, a suo tempo mieteremo.» (Gal 6,7-9).
 
Dal Vangelo secondo Matteo
Mt 25,1-13
 
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola:
«Il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini che presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo. Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; le stolte presero le loro lampade, ma non presero con sé l’olio; le sagge invece, insieme alle loro lampade, presero anche l’olio in piccoli vasi. Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e si addormentarono.
A mezzanotte si alzò un grido: “Ecco lo sposo! Andategli incontro!”. Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade. Le stolte dissero alle sagge: “Dateci un po’ del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono”. Le sagge risposero: “No, perché non venga a mancare a noi e a voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene”.
Ora, mentre quelle andavano a comprare l’olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa. Più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: “Signore, signore, aprici!”. Ma egli rispose: “In verità io vi dico: non vi conosco”.
Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora».
Parola del Signore.
 
Poiché lo sposo tardava... - Presso gli Ebrei le nozze venivano celebrate di notte. Il buio della notte era rischiarato da torce e da lampade ad olio portate dagli invitati. La sposa, nella casa del padre, in compagnia di giovani non maritate, attendeva la venuta dello sposo. Nel racconto di Gesù lo sposo arrivò in ritardo, per cui l’olio delle lampade incominciò a scarseggiare. Solo coloro che avevano portato olio in abbondanza furono in grado di rifornire le lampade e di accogliere lo sposo.
Le dieci vergini sono presentate con un aggettivo, cinque sono dette stolte, insensate, moraì; e cinque sagge, accorte, frónimoi.
L’aggettivo moròs, nella terminologia biblica, non indica soltanto lo sciocco, ma anche l’empio che è così insensato da opporsi alla legge di Dio e giunge fino a negare l’esistenza di Dio. Ecco perché nella sacra Scrittura, il «concetto di stolto acquista il significato di empio, bestemmiatore [passi tipici sono: Sal 14,1 e 53,2; però anche Sal 74,18.22; Gb 2,10; Is 32,5s; cf. Sir 50,26]. Lo stolto si ribella a Dio, distrugge in pari tempo la comunità umana: fa mancare il necessario agli affamati [Is 32,6], accumula ricchezze ingiuste [Ger 17,11] e calunnia il suo prossimo [Sal 39,9]. Anche nella letteratura sapienziale posteriore, dove il concetto è meno duro, rimane il senso della colpevolezza» (J. Goetzmann). Se accettiamo anche questa sfumatura, allora le cinque vergini stolte della parabola non sono soltanto delle sempliciotte, o ragazzotte sprovvedute, ma veri e propri oppositori della legge divina; sono coloro che non entrano nel Regno di Dio a motivo della loro empietà e così l’accusa contro i farisei si fa più pesante: essi sono religiosi nelle parole, ma empi perché di fatto ribelli alla volontà divina, «dicono e non fanno» (Mt 23,3), e tanto stolti da respingere la proposta di salvezza che Dio fa loro nella persona del suo Figlio unigenito.
La parabola nel mettere in evidenza l’incertezza del tempo della venuta gloriosa del Cristo, vuole instillare nei cuori degli uomini la necessità della vigilanza, senza fidarsi di calcoli in base ai segni dei tempi: «Quanto a quel giorno e a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli del cielo e né il Figlio, ma solo il Padre» (Mt 24,36).
Questa venuta improvvisa deve indurre gli uomini ad assumere un serio atteggiamento di vigilanza e un comportamento saggio al quale nessuno può sottrarsi se non vuole essere escluso dal regno di Dio. Poi, alla vigilanza e al comportamento saggio va aggiunto il timore: «Comportatevi con timore nel tempo in cui vivete quaggiù come stranieri. Voi sapete che non a prezzo di cose effimere, come argento e oro, foste liberati dalla vostra vuota condotta ereditata dai padri, ma con il sangue prezioso di Cristo, agnello senza difetti e senza macchia» (1Pt 1,17-19). Se Cristo Gesù, «nato dal Padre prima di tutti i secoli: Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero» (Credo), per salvarci si è annichilito nel mistero dell’Incarnazione, se è morto su una croce come un volgare malfattore, «è segno che la nostra anima è assai preziosa e dobbiamo perciò affaticarci “con timore e tremore per la nostra salvezza”, per non distruggere in noi l’opera della grazia di Dio. Tutto infatti viene dalla “grazia”: la redenzione di Cristo è opera di grazia e anche l’accettazione della redenzione da parte nostra è opera di grazia, poiché è Dio stesso colui “che opera in noi il volere e l’agire” secondo i suoi disegni di benevolenza e di amore» (Settimio Cipriani).
Le vergini, le stolte e le sagge, non sopportando il tedio dell’attesa vengono colte dal sonno al quale cedono ben volentieri. Questo particolare suggerisce che il progetto di Dio, «ricondurre al Cristo, unico capo, tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra» (Ef 1,10), andrà a buon fine, lo voglia o non lo voglia l’uomo e sarà svelato all’intelligenza degli uomini quando Dio vorrà, anche senza il loro apporto. Gesù aveva suggerito la stessa cosa nella parabola del seme che spunta da solo anche mentre il contadino dorme (Mc 4,26): c’è, quindi, nella crescita e nella diffusione del Regno di Dio una componente che non dipende dall’uomo. Il regno di Dio porta in sé un principio di sviluppo, una forza segreta che lo condurrà al pieno compimento.
 
Marcel Didier (Vegliare in Dizionario di Teologia Biblica): Vegliare, in senso proprio, significa rinunziare al sonno della notte; lo si può fare per prolungare il proprio lavoro (Sap 6,15) o per evitare di essere sorpresi dal nemico (Sal 127,1s). Di qui un senso metaforico: vegliare significa essere vigilante, lottare contro il torpore e la negligenza per giungere alla meta prefissa (Prov 8, 34).
Per il credente la meta è d’essere pronto ad accogliere il Signore, quando verrà il suo giorno; per questo egli veglia ed è vigilante, per vivere nella notte senza essere della notte.
I. TENERSI PRONTI PER IL RITORNO DEL SIGNORE 1. Nei vangeli sinottici l’esortazione alla vigilanza è la raccomandazione principale che Gesù rivolge ai suoi discepoli a conclusione del discorso sui fini ultimi e sull’avvento del figlio dell’uomo (Mc 13,33-37). «Vegliate dunque, perché non sapete in qual giorno il vostro Signore verrà» (Mt 24,42). Per esprimere che il suo ritorno è imprevedibile, Gesù si serve di diversi paragoni e parabole che stanno all’origine dell’uso del verbo vegliare (astenersi dal dormire). La venuta del figlio dell’uomo sarà imprevista come quella di un ladro notturno (Mt 24,43s), come quella del padrone che rientra durante la notte senza avere preavvisato i suoi servi (Mc 13,35 s). Come il padre di famiglia prudente, oppure il buon servo, il cristiano non deve lasciarsi vincere dal sonno, deve vegliare, cioè stare in guardia e tenersi pronto per accogliere il Signore. La vigilanza caratterizza quindi l’atteggiamento del discepolo che spe­
ra ed attende il ritorno di Gesù; consiste innanzitutto nell’essere sempre all’erta, e per ciò stesso esige il distacco dai piaceri e dai beni terreni (Lc 21,34 ss). Poiché l’ora della parusia è imprevedibile, bisogna prendere le proprie disposizioni per il caso che si faccia attendere: è l’insegnamento della parabola delle vergini (Mt 25,1-13).
2. Nelle prime lettere paoline, dominate dalla prospettiva escatologica, si trova l’eco dell’esortazione evangelica alla vigilanza, specialmente in 1Tess 5,1-7. «Noi non siamo della notte, né delle tenebre; non dormiamo quindi come gli altri, ma vegliamo, siamo sobri» (5,5s). Il cristiano, essendosi convertito a Dio, è «figlio della luce», quindi deve rimanere sveglio e resistere alle tenebre, simbolo del male, altrimenti corre il rischio di essere sorpreso dalla parusia. Questo atteggiamento vigilante esige la sobrietà, cioè la rinuncia agli eccessi «notturni» ed a tutto ciò che può distrarre dall’attesa del Signore: esige nello stesso tempo che si indossi l’armatura spirituale: «rivestiamoci della fede e della carità come di corazza, e della speranza della salvezza come di elmo» (5,8). In una lettera posteriore S. Paolo, temendo che i cristiani abbandonino il loro fervore primitivo, li invita a risvegliarsi, ad uscire dal loro sonno ed a prepararsi per ricevere la salvezza definitiva (Rom 13,11-14).
3. Nell’Apocalisse il messaggio che il giudice della fine dei tempi rivolge alla comunità di Sardi è una esortazione pressante alla vigilanza (3,1ss), Questa Chiesa dimentica che Cristo deve ritornare; se non si risveglia, egli la sorprenderà come un ladro. Viceversa, beato «colui che veglia e conserva le sue vesti» (16,15); egli potrà partecipare al corteo trionfale del Signore.
 
Forse non sarà sufficiente per noi e per voi: “Così le vergini si alzarono e prepararono le loro lampade. Ma le stolte dissero alle sagge: Dateci del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono (Mt 25,8). La loro verginità spirituale si stava esaurendo e spegnendo, poiché non avevano opere di devozione religiosa e di compassione. Ma le sagge risposero: No, che non abbia a mancare per noi e per voi, andate piuttosto dai venditori e compratevene. Infatti nel giorno della risurrezione e del giudizio, per quanto uno possa essere ricco di opere sante, temerà sempre di non averne a sufficienza.” (Epifanio Latino, Interpretazione dei Vangeli 36).
 
Il Santo del giorno - 30 Agosto 2024 - Beato Alfredo Ildefonso Schuster, Vescovo: Nacque a Roma il 18 gennaio 1880, divenne monaco esemplare e, il 19 marzo 1904, venne ordinato sacerdote nella basilica di San Giovanni in Laterano. Gli furono affidati incarichi gravosi, che manifestavano però la stima e la fiducia nei suoi confronti. A soli 28 anni era maestro dei novizi, poi procuratore generale della Congregazione cassinese, poi priore claustrale e infine abate ordinario di San Paolo fuori le mura. L’amore per lo studio, che fanno di lui un vero figlio di san Benedetto, non verrà meno a causa dei suoi impegni che sempre più occuperanno il suo tempo e il suo ministero. Grande infatti fu la sua passione per l’archeologia, l’arte sacra, la storia monastica e liturgica. Il 15 luglio 1929 fu creato cardinale da papa Pio XI e il 21 luglio fu consacrato arcivescovo di Milano nella suggestiva cornice della Cappella Sistina. Ebbe inizio così il suo ministero di vescovo nella Chiesa ambrosiana fino al 30 agosto 1954, data della sua morte, avvenuta presso il seminario di Venegono, da lui fatto costruire come un’abbazia in cima ad un colle. Fu proclamato beato da Giovanni Paolo II il 12 maggio 1996. (Avvenire)
 
Porta a compimento in noi, o Signore,
l’opera risanatrice della tua misericordia
e fa’ che, interiormente rinnovati,
possiamo piacere a te in tutta la nostra vita.
Per Cristo nostro Signore.
 
 
 29 Agosto 2024
 
Martirio di San Giovanni Battista
 
Ger 1,17-19; Salmo Responsoriale Dal Salmo 70 (71); Mc 6,17-29
 
Colletta
O Dio, che a Cristo tuo Figlio hai dato come precursore,
nella nascita e nella morte, san Giovanni Battista,
concedi anche a noi di lottare con coraggio
per la testimonianza della tua parola,
come egli morì martire per la verità e la giustizia.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.

La vita non è un bene assoluto: Evangelium viate 47: ... la vita del corpo nella sua condizione terrena non è un assoluto per il credente, tanto che gli può essere richiesto di abbandonarla per un bene superiore; come dice Gesù, «chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà» (Mc 8,35). Diverse sono, a questo proposito, le testimonianze del Nuovo Testamento. Gesù non esita a sacrificare sé stesso e, liberamente, fa della sua vita una offerta al Padre (cfr. Gv 10,17) e ai suoi (cfr. Gv 10,15). Anche la morte di Giovanni il Battista, precursore del Salvatore, attesta che l’esistenza terrena non è il bene assoluto: è più importante la fedeltà alla parola del Signore anche se essa può mettere in gioco la vita (cfr. Mc 6,17-29). E Stefano, mentre viene privato della vita nel tempo, perché testimone fedele della risurrezione del Signore, segue le orme del Maestro e va incontro ai suoi lapidatori con le parole del perdono (cfr. At 7,59-60), aprendo la strada all’innumerevole schiera di martiri, venerati dalla Chiesa fin dall’inizio.
 
I Lettura: I  nemici sono numerosi e i prepotenti tramano per uccidere il giusto. Questo fa tremare di paura il profeta Geremia. Egli “si sente un semplice uomo, e vorrebbe essere come uno fra i tanti, come un bambino che non sa parlare. Timido per natura, egli è molto lontano dall’offrirsi volontario come Isaia; ma l’imperativo divino è al di sopra di tutti i suoi sentimenti naturali. «Io sono con te per proteggerti». Che esperienza preziosa di intimità e di presenza del divino nell’umano” (Epifanio Callego).
 
Vangelo
«Voglio che tu mi dia adesso, su un vassoio, la testa di Giovanni il Battista».
 
La morte cruenta di Giovanni Battista, uomo giusto e santo, fedele al suo mandato e messo a morte per la sua libertà di parola, fa presentire l’arresto e la condanna ingiusta di Gesù. Giovanni muore per la malvagità di una donna e la debolezza di un sovrano, ma la sua morte non è uno dei tanti fatti di cronaca che da sempre fanno parte della storia umana, è invece una Parola che Dio rivolge a tutti gli uomini: morire per la Verità è farsi discepolo del Cristo, ed è offrire la propria vita per la salvezza degli uomini: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando.” (Gv 15,12-14).
 
Dal Vangelo secondo Marco
Mc 6,17-29
 
In quel tempo, Erode aveva mandato ad arrestare Giovanni e lo aveva messo in prigione a causa di Erodìade, moglie di suo fratello Filippo, perché l’aveva sposata. Giovanni infatti diceva a Erode: «Non ti è lecito tenere con te la moglie di tuo fratello». Per questo Erodìade lo odiava e voleva farlo uccidere, ma non poteva, perché Erode temeva Giovanni, sapendolo uomo giusto e santo, e vigilava su di lui; nell’ascoltarlo restava molto perplesso, tuttavia lo ascoltava volentieri.
Venne però il giorno propizio, quando Erode, per il suo compleanno, fece un banchetto per i più alti funzionari della sua corte, gli ufficiali dell’esercito e i notabili della Galilea. Entrata la figlia della stessa Erodìade, danzò e piacque a Erode e ai commensali. Allora il re disse alla fanciulla: «Chiedimi quello che vuoi e io te lo darò».
E le giurò più volte: «Qualsiasi cosa mi chiederai, te la darò, fosse anche la metà del mio regno». Ella uscì e disse alla madre: «Che cosa devo chiedere?». Quella rispose: «La testa di Giovanni il Battista». E subito, entrata di corsa dal re, fece la richiesta, dicendo: «Voglio che tu mi dia adesso, su un vassoio, la testa di Giovanni il Battista». Il re, fattosi molto triste, a motivo del giuramento e dei commensali non volle opporle un rifiuto.
E subito il re mandò una guardia e ordinò che gli fosse portata la testa di Giovanni. La guardia andò, lo decapitò in prigione e ne portò la testa su un vassoio, la diede alla fanciulla e la fanciulla la diede a sua madre. I discepoli di Giovanni, saputo il fatto, vennero, ne presero il cadavere e lo posero in un sepolcro.

Parola del Signore.
 
La Chiesa non è opera d’un grande profeta, ma di Dio - José Maria González-Ruiz (Commento della Bibbia Liturgica): Lo storico giudaico Giuseppe Flavio narra, nel libro diciottesimo della sua «Archeologia giudaica», che Erode Antipa, per timore dei disordini politici che avrebbe potuto causare il movimento suscitato dal Battista, lo imprigionò nella fortezza di Macheronte, nel sud della Perea, dove lo fece decapitare. Il racconto del secondo vangelo riferisce evidentemente l’aspetto più soggettivo dell’avvenimento che Giuseppe Flavio racconta oggettivamente. Ecco dunque quello che diceva il popolo: quest’uomo di Dio è stato vittima della vendetta d’una donna irritata. Ha dovuto pagare con la morte il coraggio d’aver parlato chiaro ai grandi di questo mondo.
Del resto, il racconto è ricco delle inesattezze che sono caratteristiche delle storie trasmesse di bocca in bocca. La seconda moglie di Antipa, Erodiade, non aveva sposato Filippo, come dice Marco, ma un altro fratello del re, chiamato Erode, che per il resto non ebbe nulla a che vedere con questa storia. È anche possibile che questo Erode avesse il soprannome di Filippo; e, in questo caso, il nostro testo non sarebbe in contraddizione con quello che sappiamo da altre fonti.
Una cosa è sicura: la donna che vediamo ballare e che si chiama Salomè - come riferisce con maggior precisione Giuseppe Flavio, mentre i vangeli ne tacciono il nome - era figlia del primo matrimonio di Erodiade e divenne moglie di Filippo, fratello di Antipa, che regnò nel nord della Palestina fino all’anno 34. L’incertezza dei dati cronologici che abbiamo non consente di stabilire se essa era già sposata al momento della scena descritta. Nel nostro testo, è chiamata «ragazza», e pare che, al tempo della festa qui ricordata, avesse vent’anni.
Antipa aveva spinto Erodiade a lasciare suo fratello Erode e l’aveva sposata dopo essersi liberato della sua prima moglie, figlia del principe arabo Areta. Questo matrimonio era dunque il risultato d’un adulterio, anche se coperto dalle formalità giuridiche. In più, andava contro le prescrizioni della legge giudaica (Lv 18,16) secondo le quali il matrimonio fra cognati era invalido.
Perché l’evangelista ha inserito nel suo scritto questo vivace racconto popolare? In primo luogo, per mettere in rilievo l’atteggiamento ridicolo di quel discusso monarca, schiavo, da una parte, delle sue passioni, e dall’altra, interessato alla figura austera del Battista. In fin dei conti, quell’Erode era più coerente con se stesso che non i farisei benpensanti i quali collaboravano con lui, simulando un’estrema dignità morale.
In secondo luogo possiamo pensare che l’evangelista, inserendo questo racconto nel contesto teologico della proclamazione del regno di Dio (4,1-6.29), abbia voluto presentare lo scioglimento del gruppo del Battista per indicare che la comunità creata da Gesù era totalmente nuova, pur conservando la veneranda memoria del grande profeta scomparso.
 
Giovanni Battista - Alice Baum: Secondo il Nuovo Testamento è il precursore di Gesù. Consacrato a Dio sin dall’infanzia, fu destinato ad annunciare l’irruzione della signoria di Dio. La sua comparsa pubblica fu preceduta da una lunga permanenza “nel deserto”. Sono possibili relazioni con Qumran. Verso il 28 d.C. (Lc 3,1ss) è raggiunto dalla chiamata di Dio. Predica un battesimo per la remissione dei peccati ed esorta insistentemente alla conversione radicale, perché il giudizio di Dio è imminente. L’affluenza della gente è massiccia, molti si convertono e si fanno battezzare. Giovanni però è rifiutato nelle cerchie dei farisei e dei sacerdoti. Quando stigmatizza pubblicamente l’adulterio del re Erode, viene da questi arrestato e poi decapitato. Anche Giovanni, che dal popolo era considerato un profeta e che Gesù chiama il “più grande fra i nati di donna” dovette sperimentare la lotta interiore per la fede (Mt 11,2-6). Alcuni dei suoi discepoli seguirono Gesù, altri si fecero battezzare più tardi “nel nome di Gesù” (At 19,5). Un gruppo di discepoli di Giovanni, che vedevano nel Battista il messia, sopravvisse come setta fino al II sec. I brani neotestamentari sull’opera di Giovanni e sul suo rapporto con Gesù vanno compresi sullo sfondo della controversia della comunità cristiana con questi discepoli di Giovanni Se i discepoli del Battista potevano richiamarsi al fatto che Gesù si era fatto battezzare da Giovanni - secondo loro - e sottomettendosi in tal modo a lui, la chiesa replicava che lo stesso Giovanni non considerava se stesso messia, ma sviando da sé, indirizzava verso il più grande che doveva venire (Mc 1,7-8 par.), e che egli stesso proclamò espressamente Gesù come questo “più grande” (Mt 13,14; Gv 1,19.34).
 
Il martirio di san Giovanni Battista -  Messaggio e attualità - Enzo Lodi (I Santi del Calendario Liturgico): Le orazioni della Messa sono un richiamo alla grandezza di questo che «è il più grande fra i nati di donna» (cfr. prefazio) e che è chiamato pure «giusto e santo» (cfr. seconda antifona alle lodi).
a) Anzitutto nella colletta si sottolinea che «Dio ha dato al Cristo suo Figlio come precursore nella nascita e nella morte san Giovanni Battista». Questa tematica del martirio profetico è sviluppata nell”omelia di san Beda, nell’ufficio di lettura, quando scrive: «Mentre predicando e battezzando offriva la testimonianza a lui che stava per nascere, che avrebbe predicato, che avrebbe battezzato, soffrendo per primo indicò che quegli pure avrebbe sofferto... Riteneva cosa desiderabile, dopo aver reso manifesto il nome di Cristo, ricevere, assieme con la palma della vita eterna, la morte che per l’ordine immutabile della natura pendeva inevitabile sul suo capo». L’intercessione della colletta invoca «anche per noi da Dio, di impegnarci generosamente nella testimonianza del suo Vangelo, come egli immolò la sua vita per la giustizia e la verità». Queste due virtù sono dunque le insegne del grande testimone, come canta lo stesso Beda nell’inno dei vespri (quarta strofa): «Con il presagio del suo sangue, il Battista martire ha segnato la morte innocente di Cristo, con la quale è stata restituita la vita al mondo».
b) Nell’orazione sulle offerte, viene posto in rilievo l’annuncio della predicazione del Battista, chiedendo «a Dio che camminiamo sempre nella via della santità, che san Giovanni Battista proclamò con voce profetica nel
deserto e confermo col suo sangue». L’antifona del Magnificat, ai vespri, ricorda l’umiltà di colui che ha affermato di non essere il Cristo, ma soltanto di essere stato inviato davanti a lui, perché «egli doveva diminuire davanti al Cristo che doveva crescere». La santità del profeta di Cristo, che nel deserto richiamava la voce di Isaia quasi per annunciare che tutto si stava per compiere con la venuta del Messia, è dunque un atto di verità totale, nella sua umiltà di precursore destinato a scomparire come una lucerna ardente e luminosa davanti alla verità splendente del sole (cfr. responsorio breve alle lodi).
c) L’orazione dopo la comunione sembra generica, perché chiede che nella venerazione del mistero celebrato possiamo «raccogliere con gioia il frutto di salvezza».
Ma di fatto il tema della gioia evoca il tema dell’antifona al Benedictus nelle lodi, cioè dell’amico dello sposo che ama ascoltarlo e gode per la voce dello sposo, perché in tale ascolto la sua gioia è piena. Anche per noi l’Eucaristia può essere un’esperienza di comunione intima e nuziale, dove attingiamo la gioia profonda di essere salvati.
d) Nel prefazio si riassumono i quattro eventi che hanno caratterizzato la missione del Precursore, profeta del giudice universale, che il quarto Vangelo ha fatto testimone del Messia. Anzitutto il concepimento e la nascita, come un preannunzio profetico immediato della gioia della redenzione. Poi il privilegio unico di indicare, solo fra tutti i profeti, l’Agnello del nostro riscatto. Inoltre il battesimo di Cristo nelle acque del Giordano, che diventa il protoevento simbolico dello stesso sacramento del battesimo, di cui Cristo è autore. Infine il sigillo della sua testimonianza a Cristo con l’effusione del sangue.
L’attualità per noi di tale martirio può essere colta nel collegamento inscindibile, posto da Gesù stesso nel Vangelo (Mc 10,38; Lc 12,50), fra il battesimo e la sua morte sacrificale per noi. Ora «il più grande dei profeti, il martire potente e il cultore dell’eremo, che non ha conosciuto la macchia del candido pudore», come canta la prima strofa dell’inno delle lodi (di Paolo Diacono), ci invita a vivere il nostro battesimo come un’offerta permanente di vita, fino al sacrificio di noi stessi.
 
Cipriano di Cartagine (Lettere, 12 [ai presbiteri e diaconi]): Si abbia grande cura e grandi attenzioni anche per i corpi di tutti coloro che, sebbene non torturati, in carcere giungono al glorioso passo della morte. Il loro valore infatti e il loro onore non sono troppo piccoli, perché anche essi non vengano annoverati fra i beati martiri. Per quanto fu in loro, sostennero tutto ciò che erano pronti e preparati a sostenere. Chi sotto gli occhi di Dio si è offerto ai tormenti e alla morte, ha sofferto tutto ciò che intendeva soffrire. Non furono essi che vennero meno ai tormenti, ma i tormenti vennero meno a loro. Chi mi confesserà davanti agli uomini, io lo confesserò davanti al Padre mio [Mt 10,32], dice il Signore: essi lo hanno confessato. Chi persevererà sino alla fine questi si salverà [Mt 10,22]; dice ancora il Signore: hanno perseverato, e hanno conservati integri e immacolati sino alla fine i loro meriti e il loro valore. Sta scritto ancora: Sii fedele sino alla morte, e ti darò la corona della vita [Ap 2,10]: sono giunti fino alla morte fedeli, saldi e inespugnabili. Quando alla nostra volontà e alla nostra confessione di fede si aggiunge anche la morte in carcere e tra i ceppi, allora la gloria del martirio è perfetta. Perciò prendete nota del giorno in cui essi ci lasciano, perché ci sia dato di celebrare il loro ricordo tra le memorie dei martiri.
 
Il Santo del Giorno - 29 Agosto 2024 - Martirio di Giovanni Battista. Il coraggio di affrontare la prepotenza del mondo: Giovanni Battista è l’icona del coraggio dei cristiani, che non temono la prepotenza del mondo, forti dell’annuncio del Regno di Dio portato prima dai profeti e poi da Cristo. Eppure anche i battezzati non possono non riconoscersi in Erode Antipa, che ascoltava Giovanni ma restava sempre perplesso. A vincere le resistenze è il martirio del cugino di Gesù, ultimo dei profeti e primo degli apostoli. La storia è nota: il re si sentì minacciato dal Battista, che lo accusò di aver compiuto un atto illecito sposando Erodiade, moglie di suo fratello. Erode lo imprigionò a Macheronte ma in qualche modo continuava a sentirne il fascino. A eliminare il “pericolo” ci pensò la stessa Erodiade che, alla festa di compleanno del sovrano, spinse la figlia, che aveva ammaliato Erode con la sua danza, a chiedere la testa di Giovanni, ottenendola. «Dammi qui, su un vassoio, la testa di Giovanni il Battista», fu la richiesta. «Il re si rattristò - annota il Vangelo di Matteo -, ma a motivo del giuramento e dei commensali lo mandò a decapitare». (Avvenire)

O Dio, che ci hai riuniti alla tua mensa
nel glorioso ricordo
del martirio di san Giovanni Battista,
donaci di venerare con fede viva
il mistero che abbiamo celebrato
e di raccoglierne con gioia il frutto di salvezza.
Per Cristo nostro Signore.