1 Luglio 2024
 
Lunedì della XIII Settimana T. O.
 
Am 2,6-10.13-16; Salmo Responsoriale 49 (50); Mt 8,18-22
 
Colletta
O Dio, che ci hai reso figli della luce
con il tuo Spirito di adozione,
fa’ che non ricadiamo nelle tenebre dell’errore,
ma restiamo sempre luminosi
nello splendore della verità.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Annunciare il Vangelo - Christifideles Laici 33: I fedeli laici, proprio perché membri della Chiesa, hanno la vocazione e la missione di essere annunciatori del Vangelo: per quest’opera sono abilitati e impegnati dai sacramenti dell’iniziazione cristiana e dai doni dello Spirito Santo.
Leggiamo in un testo limpido e denso del Concilio Vaticano II: «In quanto partecipi dell’ufficio di Cristo sacerdote, profeta e re, i laici hanno la loro parte attiva nella vita e nell’azione della Chiesa (...). Nutriti dell’attiva partecipazione alla vita liturgica della propria comunità, partecipano con sollecitudine alle opere apostoliche della medesima; conducono alla Chiesa gli uomini che forse ne vivono lontani; cooperano con dedizione nel comunicare la parola di Dio, specialmente mediante l’insegnamento del catechismo; mettendo a disposizione la loro competenza rendono più efficace la cura delle anime ed anche l’amministrazione dei beni della Chiesa».
Ora è nell’evangelizzazione che si concentra e si dispiega l’intera missione della Chiesa, il cui cammino storico si snoda sotto la grazia e il comando di Gesù Cristo: «Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura» (Mc 16,15); «Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28, 20). «Evangelizzare - scrive Paolo VI - è la grazia e la vocazione propria della Chiesa, la sua identità più profonda».
Dall’evangelizzazione la Chiesa viene costruita e plasmata come comunità di fede: più precisamente, come comunità di una fede confessata nell’adesione alla Parola di Dio, celebrata nei sacramenti, vissuta nella carità, quale anima dell’esistenza morale cristiana. Infatti, la «buona novella» tende a suscitare nel cuore e nella vita dell’uomo la conversione e l’adesione personale a Gesù Cristo Salvatore e Signore; dispone al Battesimo e all’Eucaristia e si consolida nel proposito e nella realizzazione della vita nuova secondo lo Spirito.
Certamente l’imperativo di Gesù: «Andate e predicate il Vangelo» mantiene sempre vivo il suo valore ed è carico di un’urgenza intramontabile. Tuttavia la situazione attuale, non solo del mondo ma anche di tante parti della Chiesa, esige assolutamente che la parola di Cristo riceva un’obbedienza più pronta e generosa. Ogni discepolo è chiamato in prima persona; nessun discepolo può sottrarsi nel dare la sua propria risposta: «Guai a me, se non predicassi il Vangelo!» (1Cor 9,16).
 
I Lettura - Così dice il Signore … - Epifanio Callego (Commento della Bibbia Liturgica): Questo giudizio contro le nazioni sarà solo un preludio o una premessa a un’argomentazione «a fortiori». Se Dio giudica e castiga in questo modo le altre nazioni per i loro peccati, tipificati in quella costante «per tre misfatti ... e per quattro non revocherò il mio decreto», che include tutti i peccati di ogni popolo e che segna il carattere irrevocabile della decisione divina, Israele, il suo popolo, non poteva restare impunito.
Essi attendono il «giorno di Yahveh» con l’illusione di chi sta per vedere tutti i suoi nemici umiliati davanti a lui. Amos rafforza l’idea dell’imminenza del giorno di Yahveh, ma giusto e punitivo per essi come per le altre nazioni. Per questo, «Israele ... non lo perdonerò» E, come aveva tipificato i peccati degli altri popoli in tre più di uno, così fa ora con Israele. I tre peccati che egli enumera sono semplici esempi di ingiustizie sociali che includono tutte le ingiustizie, i disordini e gli abusi di quella corrotta alta società. Il quarto, il più radicale, è la prostituzione sacra: «su vesti prese come pegno si stendono esso ogni altare».
Un peccato così grave d’Israele è il contrappunto sulla bilancia delle misericordie divine attraverso tutta la  storia, da quando li tirò fuori dall’Egitto fino a quando li fece stabilire nella terra degli amorrei, primitivi abitanti di Canaan, che egli stesso distrusse. È una storia di ordini umani, che hanno pesato troppo; e la sentenza già stata pronunziata: «Io vi affonderò nella terra».
Il castigo di Yahveh sarà implacabile, come dimostrano espressive immagini usate dal profeta: «l’uomo agile .. e l’uomo forte ... il prode ... l’arciere ... il corridore ... il più coraggioso fra i prodi», tutti fuggiranno senza poter salvare propria vita. L’oracolo è raccapricciante, la logica è perfetta, l’impatto è così forte e così ben preparato, che può non produrre una reazione. Purtroppo la reazio non fu quella di tornare a Yahveh, bensì quella di irritarsi contro il profeta. È la reazione del vile, che trova semplice affrontare gli altri che affrontare se stesso e la propria libertà.
 
Vangelo

Seguimi
 
Le due sentenze di Gesù rivolte a coloro che lo vogliono seguire mettono in evidenza il tema della sequela e le esigenze del discepolato. La prima sentenza suggerisce che farsi discepolo non è semplicemente seguire un messaggio e accettare una dottrina ma è condividere in tutto il destino del Figlio dell’Uomo, è lasciare la propria sicurezza per una vita incerta, è perdere la vita per causa di Cristo (Mt 10,39). La seconda sentenza pone la rinuncia ai legami di famiglia come una delle condizioni per il discepolato: non si può procrastinare o aspettare finché si sia assolto a tutti i doveri familiari, non si sarebbe mai in grado di seguire la propria vocazione. Il tempo è adesso: “Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me” (Mt 10,37).
 
Dal Vangelo secondo Matteo
8,18-22
 
In quel tempo, vedendo la folla attorno a sé, Gesù ordinò di passare all’altra riva.
Allora uno scriba si avvicinò e gli disse: «Maestro, ti seguirò dovunque tu vada». Gli rispose Gesù: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo».
E un altro dei suoi discepoli gli disse: «Signore, permettimi di andare prima a seppellire mio padre». Ma Gesù gli rispose: «Seguimi, e lascia che i morti seppelliscano i loro morti».

Parola del Signore.
 
Benedetto Prete (I Quattro Vangeli) 20 Le volpi hanno delle tane...; Cristo non respinge la generosa offerta, ma ricorda allo scriba le rinunzie che deve abbracciare chi vuol essere suo discepolo. Le volpi che s’aggirano nella regione in cerca di preda hanno una tana, gli uccelli che intrecciano voli nel cielo per avvistare il loro mangime hanno un nido, il Figlio dell’uomo invece non ha una fissa dimora, ma si reca dovunque per annunziare la buona novella. Chi si mette, come discepolo, alla sequela del Figlio dell’uomo deve essere disposto ad abbracciare una vita itinerante come quella del Maestro. Figlio dell’uomo: espressione aramaica che ricorre 33 volte in Matteo. Gesù si è servito di questa designazione per mettere in rilievo la sua natura umana e per indicare in modo velato il proprio messianismo. La designazione si rifà ad un testo messianico di Daniele, 7, 13 (uno come figlio d’uomo) nel quale il figlio dell’uomo è simbolo di un glorioso regno che verrà. (Per questo aspetto glorioso del regno che verrà, cf. Mt., 26, 64). Cristo, usando questa espressione, afferma di essere il Messia, evita di suscitare fallaci entusiasmi nella folla ed induce a riflettere gli ascoltatori sull’aspetto umile e nascosto del suo messianismo.
21 Ed un altro dei... discepoli; l’evangelista passa ad un altro esempio, senza aver narrato quale effetto abbia avuto la replica di Cristo nell’animo dello scriba. Matteo in questo caso ha interesse a riferire il bel detto di Gesù più che ragguagliare il lettore intorno alle circostanze storiche. L’evangelista presenta un discepolo (il testo greco può essere tradotto: un’altra [persona], uno dei discepoli, gli disse...) il quale, disposto a seguire Gesù, chiede al Maestro il rinvio della partenza, per compiere il dovere filiale di seppellire il padre defunto.
22 Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; la risposta di Gesù ha una formulazione che tende al paradosso; essa va illuminata con il principio stabilito da Gesù in Mt., 10, 37. Cristo non è senza pietà, né senza cuore; egli vuole semplicemente stabilire la gerarchia dei valori: anche i più sacri doveri umani sono subordinati alle esigenze divine, com’è quella dell’apostolato. Il detto, studiato nel contesto, trova la sua esatta spiegazione. Il Maestro sta per attraversare il lago con la barca; in questa circostanza un discepolo gli chiede di restare per seppellire il proprio padre; Gesù lo avverte che, data l’imminenza del viaggio, le necessità dell’apostolato non vanno posposte ai doveri della pietà verso i propri cari. I morti seppelliscano i morti; il termine morti ripetuto ha una diversa accezione: nel primo caso ha senso metaforico, indica cioè coloro che non vivono, né sentono i supremi interessi di Dio e dell’anima, nel secondo ha un senso proprio. Chi non vive per il regno rimanga a seppellire i propri morti.

E un altro dei suoi discepoli gli disse: «Signore, permettimi di andare prima a seppellire mio padre». Ma Gesù gli rispose: «Seguimi, e lascia che i morti seppelliscano i loro morti» - Richard Gutzwiller (Meditazioni su Matteo): Un altro ancora si offre come discepolo. Questi non è trattenuto dalle comodità terrene, ma dai legami familiari. La sua richiesta ci appare un naturale dovere di pietà. Vuol soltanto attendere fino alla morte del vecchio padre. Ma Cristo avanza la richiesta divina, davanti alla quale deve ammutolire ogni richiesta umana. Allorché Dio ha chiamato un uomo, questi deve guardare soltanto a lui, senza più riguardi per nessuno. Il Dio vivente è talmente grande, che tutto il resto, paragonato a lui, è morto, non conta più.
Anche qui la misura è data dalla considerazione dell’eternità. Nella vita eterna non c’è matrimonio. Neque nubent, neque nubentur. I rapporti puramente umani d’amor terreno, quindi, cadono. Per questo devono cadere subito per colui che si dedica completamente al discepolato di Cristo. Egli non appartiene più alla piccola famiglia, perché è assunto in servizio nella grande famiglia di Dio dei redenti. Come Cristo lascia Nazareth, per «essere in quello ch’è del Padre», così il discepolo deve rinunziare alla Nazareth della vita familiare, per trovare nel Dio vivente la familiarità con Dio.
In tal modo il discepolato non è una parte, staccata a intima, della vita umana, bensì un’unità, una richiesta totale e quindi una totale dedizione. Questa è l’unica rimasta possibile al richiamo di Dio.
 
Seguimi … - Jacques Guillet: Vocazione dei discepoli e vocazione di cristiana: Se Gesù, per suo conto, non sente la chiamata di Dio, in compenso moltiplica le chiamate a seguirlo; la vocazione è il mezzo mediante il quale egli raggruppa attorno a sé i Dodici (Mc 3,13), ma fa sentire anche ad altri un’analoga chiamata (Mc 10,21; Lc 9,59-62); e tutta la sua predicazione ha qualcosa che comporta una vocazione; una chiamata a seguirlo in una via nuova di cui egli possiede il segreto: «Chi vuol venire dietro di me...» (Mt 16,24; cfr. Gv 7,17). E se «molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti», si è perché l’invito al regno è una chiamata personale, alla quale taluni rimangono sordi (Mt 22,1-14). La Chiesa nascente ha subito inteso la condizione cristiana come una vocazione. La prima predicazione di Pietro a Gerusalemme è un appello ad Israele, simile a quello dei profeti, e cerca di suscitare un passo personale: «Salvatevi da questa generazione perversa!» (Atti 2,40). Per Paolo c’è un parallelismo reale tra lui, «apostolo per vocazione», e i cristiani di Roma o di Corinto «santi per vocazione» (Rom 1,1.7; 1Cor 1,1s). Per rimettere i Corinzi nella verità, egli li riporta alla loro chiamata, perché essa costituisce la comunità di Corinto così com’è: «Considerate la vostra chiamata, non ci sono molti sapienti secondo la carne» (1Cor 1,26). Per dar loro una regola di condotta in questo mondo la cui figura passa, li impegna a rimanere ciascuno «nella condizione in cui l’ha trovato la sua chiamata» (7,24). La vita cristiana è una vocazione perché è una vita nello Spirito, perché lo Spirito è un nuovo universo, perché «si unisce al nostro spirito» (Rom 8,16) per farci sentire la parola del Padre e risveglia in noi la risposta filiale. Poiché la vocazione cristiana è nata dallo Spirito, e poiché lo Spirito è uno solo che anima tutto il Corpo di Cristo, in seno a quest’unica vocazione c’è «diversità di doni... di ministeri... di operazioni...», ma in questa varietà di carismi non c’è infine che un solo corpo ed un solo Spirito (1Cor 12,4-13). Poiché la Chiesa, la comunità dei chiamati, è essa stessa la Ekklesìa, «la chiamata» , come è la Eklektè, «l’eletta» (2 Gv 1), tutti coloro che in essa sentono la chiamata di Dio rispondono, ognuno al suo posto, all’unica vocazione della Chiesa che sente la voce dello sposo e gli risponde: «Vieni, o Signore Gesù!» (Apoc 22,20).
 
Porre sempre Dio al primo posto, anche prima della stessa famiglia - Cirillo di Alessandria, Frammento 98: Quando non precede l’onore da tributare a Dio è giusto onorare i genitori; quando invece c’è tra loro contrasto bisogna tenersi stretti all’uno, e non si deve tener conto dell’altro, soprattutto se l’onore verso i genitori impedisce di essere graditi a Dio. Infatti in primo luogo bisogna glorificare Dio, affinché non ci si trovi a presentare a Dio, come fece Caino, un bene di secondo ordine.
Analogamente anche la legge antica impediva ai sacerdoti di avvicinarsi ai morti, ordinava di attenersi al proprio culto e di non essere attaccati alla carne, ma questo lo ordinava in forma coperta e simbolica. Cristo invece insegna apertamente a colui che vuole dedicarsi a Dio di non fare conto di nessuna parentela, per non essere impediti di essere insieme con Gesù.
Infatti egli stesso, a vantaggio di coloro che lo seguono, ha trascurato la madre e i fratelli dicendo: Chi è mia madre, e chi i miei fratelli; ed è mia madre.
 
Il Santo del Giorno - 1 Luglio 2024 - San Justino Orona Madrigal (Atoyac, Messico, 14 aprile 1877 - Rancho de Las Cruces, Messico, 1° luglio 1928): Justino Orona Madrigal nacque a Atoyac, in Messico, il 14 aprile 1877 e fu parroco di Cuquío, nell’arcidiocesi di Guadalajara e fondatore della congregazione delle Sorelle Clarisse del Sacro Cuore. La sua vita fu segnata da dolori ma sempre restò cortese e generoso. Una volta scrisse: «Coloro che perseguono il cammino del dolore con fedeltà, sicuramente possono salire al cielo».
Quando la persecuzione contro la Chiesa divenne più pesante rimase tra i fedeli dicendo: «Resterò tra i miei vivo o morto». Una notte, dopo aver deciso con il suo vicario e compagno di martirio, padre Atilano Cruz, una speciale pastorale da tenersi in mezzo ad innumerevoli pericoli, entrambi si ritirarono in una fattoria vicino a Cuquío per riposare. All’alba del 1° luglio 1928 le forze federali irruppero nella fattoria e colpirono la porta della stanza in cui i due religiosi dormivano. Justino aprì e salutò il giustiziere esclamando «Viva Cristo Re!».
Per tutta risposta gli spararono. (Avvenire)
 
Il santo sacrificio che abbiamo offerto e ricevuto, o Signore,
sia per noi principio di vita nuova,
perché, uniti a te nell’amore,
portiamo frutti che rimangano per sempre.
Per Cristo nostro Signore.
 
 30 Giugno 2024
 
XIII Domenica T. O.
 
Sap 1,13-15; 2,23-24; Salmo Responsoriale Dal Salmo 29 (30); 2Cor 8,7.9.13-15; Mc 5,21.43
 
Colletta
O Padre, che nel tuo Figlio povero e crocifisso 
ci fai ricchi del dono della tua stessa vita, 
rinvigorisci la nostra fede,
perché nell’incontro con lui
sperimentiamo ogni giorno la sua vivificante potenza. 
Egli è Dio, e vive e regna con te.
 
Morte come conseguenza del peccato - Catechismo della Chiesa Cattolica 1008 La morte è conseguenza del peccato. Interprete autentico delle affermazioni della Sacra Scrittura e della Tradizione, il Magistero della Chiesa insegna che la morte è entrata nel mondo a causa del peccato dell’uomo. Sebbene l’uomo possedesse una natura mortale, Dio lo destinava a non morire. La morte fu dunque contraria ai disegni di Dio Creatore ed essa entrò nel mondo come conseguenza del peccato. «La morte corporale, dalla quale l’uomo sarebbe stato esentato se non avesse peccato», è pertanto «l’ultimo nemico» (1Cor 15,26) dell’uomo a dover essere vinto.  
Morte e risurrezione - 992 La risurrezione dei morti è stata rivelata da Dio al suo popolo progressivamente. La speranza nella risurrezione corporea dei morti si è imposta come una conseguenza intrinseca della fede in un Dio Creatore di tutto intero l’uomo, anima e corpo. Il Creatore del cielo e della terra è anche colui che mantiene fedelmente la sua Alleanza con Abramo e con la sua discendenza. È in questa duplice prospettiva che comincerà ad esprimersi la fede nella risurrezione. Nelle loro prove i martiri Maccabei confessano: 
«Il Re del mondo, dopo che saremo morti per le sue leggi, ci risusciterà a vita nuova ed eterna» (2 Mac 7,9). «È bello morire a causa degli uomini, per attendere da Dio l’adempimento delle speranze di essere da lui di nuovo risuscitati» (2 Mac 7,14).
996 Fin dagli inizi, la fede cristiana nella risurrezione ha incontrato incomprensioni ed opposizioni. «In nessun altro argomento la fede cristiana incontra tanta opposizione come a proposito della risurrezione della carne».
Si accetta abbastanza facilmente che, dopo la morte, la vita della persona umana continui in un modo spirituale. Ma come credere che questo corpo, la cui mortalità è tanto evidente, possa risorgere per la vita eterna?  
 
I Lettura: In terra di esilio, Israele rischia di assorbire e fare proprio il pensiero agnostico e materialistico dei pagani. Se ciò avvenisse svanirebbe per sempre la sua fede nell’unico Dio. L’autore del libro della Sapienza cerca di sostenere e ravvivare la fede del popolo eletto, richiamando alla sua memoria la potenza e la misericordia di Dio che si sono manifestate soprattutto nel creare «l’uomo per l’immortalità».
 
II Lettura: Ai Corinzi, che tentennavano ad aderire alla colletta promossa da Paolo per sostenere la Chiesa di Gerusalemme, l’Apostolo ricorda l’ideale dell’uguaglianza che deriva dall’amore fraterno e dalla mutua condivisione. In questo modo, avrebbero imitato Cristo, il quale da ricco che era, si è fatto povero, perché gli uomini diventassero ricchi per mezzo della sua povertà.
 
Vangelo
Fanciulla, io ti dico: Àlzati!
 
La donna affetta di emorragia guarisce per la sua fede. Gesù, «con la sua strana domanda: “Chi mi ha toccato”, enfatizza il fatto, mettendo pure in imbarazzo la donna, ma lo fa per esaltare pubblicamente la sua fede e indicarla come requisito necessario per la guarigione» (Bruno Barisan).
 
Dal Vangelo secondo Marco
Mc 5,21-43
 
In quel tempo, essendo Gesù passato di nuovo in barca all’altra riva, gli si radunò attorno molta folla ed egli stava lungo il mare. E venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giàiro, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva». Andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno.
Ora una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando, udito parlare di Gesù, venne tra la folla e da dietro toccò il suo mantello. Diceva infatti: «Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata». E subito le si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male.
E subito Gesù, essendosi reso conto della forza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: «Chi ha toccato le mie vesti?». I suoi discepoli gli dissero: «Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: “Chi mi ha toccato?”». Egli guardava attorno, per vedere colei che aveva fatto questo. E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. Ed egli le disse: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male».
Stava ancora parlando, quando dalla casa del capo della sinagoga vennero a dire: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?». Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: «Non temere, soltanto abbi fede!». E non permise a nessuno di seguirlo, fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo.
Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava forte. Entrato, disse loro: «Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme». E lo deridevano. Ma egli, cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della bambina e quelli che erano con lui ed entrò dove era la bambina. Prese la mano della bambina e le disse: «Talità kum», che significa: «Fanciulla, io ti dico: àlzati!».
E subito la fanciulla si alzò e camminava; aveva infatti dodici anni. Essi furono presi da grande stupore. E raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e disse di darle da mangiare.
 
Parola del Signore.
 
La bambina non è morta, ma dorme - Il caso si presentava ormai senza soluzioni: dalla casa del capo della sinagoga erano venuti alcuni a dire che la fanciulla era morta. Non aveva quindi più senso continuare a importunare il Maestro di Nazaret.
Gesù, il figlio di Maria (Mc 6,3), come se non avesse inteso nulla, esorta Giairo, il padre della fanciulla morta, a desistere dal suo timore e a continuare ad avere fede in lui. Poi, con Pietro, Giacomo e Giovanni, che saranno le «colonne della Chiesa» (Gal 2,9), si avvia verso la casa di Giairo.
La scelta dei tre discepoli non è lasciata al caso: più avanti sempre Pietro, Giacomo e Giovanni, e soltanto loro, saranno chiamati ad essere gli unici testimoni privilegiati della trasfigurazione (Mc 9,2) e della preghiera nel giardino del Getsemani (Mc 14,33). Gesù, così come dettava la legge mosaica (Dt 19,15), vuole dei testimoni qualificati che in seguito avessero potuto testimoniare la realtà del miracolo che stava per operare.
La casa di Giairo è sprofondata nel dolore: gli strepiti, i pianti dei parenti e delle prèfiche, accrescono la confusione e il chiasso.
Forse per riportare un po’ di calma, Gesù entrando dice ai piagnoni: «Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme».
Le parole di Gesù non devono far credere che si tratta di morte apparente, la fanciulla è veramente morta. Gesù non è ancora entrato nella camera dove era stato composto il cadavere della fanciulla, ma per il fatto che aveva già deciso di restituire alla vita la figlia di Giairo, il presente stato della fanciulla è soltanto temporaneo e paragonabile ad un sonno.
Riecheggiano le parole che Gesù dirà quando gli portano la notizia della morte di Lazzaro: «Lazzaro, il nostro amico, s’è addormentato; ma io vado a svegliarlo» (Gv 11,11).
Questo linguaggio eufemistico è stato adottato dalla Chiesa che lo ha esteso a tutti coloro che «si addormentano nel Signore» (At 7,60; 13,36; 1Cor 7,39; 11,30), in attesa della risurrezione finale (1Ts 4,13-16; 1Cor 15,20-21.51-52).
Per i brontoloni le parole di Gesù sembrano essere fuori posto: come se Egli avesse voluto irridere il dolore dei genitori, dei parenti e degli amici convenuti in quel luogo di dolore.
La reazione però segnala anche un’ottusa ostilità nei confronti di Gesù e sopra tutto mette in evidenza la mancanza di fede nella sua potenza. È la sorte di tutti i profeti (Lc 4,24). Tanta cecità, pur addolorandolo intimamente, non lo ferma, per cui dopo aver messo alla porta gli increduli piagnoni, prende con sé il padre e la madre della fanciulla e quelli che erano con lui, ed entra dove era la bambina.
Gesù presa la mano della fanciulla, il gesto abituale delle guarigioni (Mc 1,13.41; 9,27), pronuncia le parole ‘Talità kum’. Sono parole aramaiche, la lingua che parlava Gesù, e Marco si affretta a dare la traduzione forse per evitare che venissero scambiate per qualche formula magica. La guarigione è immediata e istantanea.
La risurrezione della fanciulla è collocata all’apice di una sequenza di miracoli dall’impatto dirompente: la tempesta sedata (Mc 4,35-41), la liberazione dell’indemoniato geraseno (Mc 5,1-20). La vittoria di Gesù sugli elementi della natura impazziti (Sal 88,10), poi sul potere del maligno, e qui infine sulla morte stessa, mettono in luce la potenza del Figlio di Dio. La raccomandazione di dare da mangiare alla fanciulla svela la tenerezza di Gesù verso gli ammalati e i sofferenti. Allo stupore segue il perentorio ordine da parte di Gesù di non divulgare il miracolo. Il comando, che è in linea con tutti i testi relativi al segreto messianico (Mc 1,25.33-44; 3,12; ecc.), vuole rinviare alla Croce e alla Risurrezione perché soltanto questi eventi possono rivelare la vera identità del Cristo e i doni che Egli è venuto a portare agli uomini (Ef 4,7).
Oggi, Gesù, pur sedendo alla destra del Padre (Rom 8,34; Ef 1,20), continua ad essere presente nella sua Chiesa: per questa Presenza, i credenti fruiscono della potenza salvifica del Cristo celata misteriosamente nei sacramenti fino a che arrivino «all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo» (Ef 4,13).
 
La morte - Emanuela Ghini: L’evento della morte, considerato realisticamente dalla rivelazione biblica come il totale venir meno della vita, non è visto in sé, ma sempre in stretta relazione con Iahvé, il Dio vivo: la morte la cui forza di estinzione è rappresentata dallo Sheól, si oppone alla vita come situazione di distacco da Dio nei confronti della pienezza dell’unica «fonte della vita».
Dall’assoluto monoteismo di Israele, legato al Dio unico, deriva la proibizione di ogni culto dei morti, peraltro sepolti con cura e pietà.
L’alleanza, che stabilisce un rapporto non personale ma nazionale fra Israele e Iahvé, fa sì che il problema della morte non assuma carattere drammatico, nella certezza della continuità del popolo, nonostante il venir meno dei singoli. Nel contesto vivo e in rapida evoluzione dell’alleanza, la morte è un problema poco essenziale: sia che si riconosca ai morti una sopravvivenza d’ombra nello Sheol, sia che si attribuisca loro un sonno eterno nel sepolcro di famiglia, il tema della morte non mette in crisi la fede di Israele. Da qui la rassegnazione con cui la morte è generalmente considerata e la pace con cui è accolta in tarda vecchiaia. Solo la morte precoce pone all’uomo la domanda che trova risposta nella potenza distruttiva del peccato delle origini. Ma poiché al peccato Dio ha sovvenuto con l’alleanza, la morte è superabile attraverso l’obbedienza alle «dieci parole» perché l’obbedienza, come assenso alla consacrazione operata dalla alleanza, è vita.
Israele ha lentamente intravvisto un superamento della morte sia nella conversione sollecitata dai profeti, sia nel personale rapporto con Iahvé che risolve anche, come per i salmisti e i sapienti, il problema della retribuzione. È l’apocalittica però che supera definitivamente la morte, annunciando la risurrezione dei giusti e dei peccatori nel regno escatologico.
Nel NT è soprattutto l’apostolo Paolo che, riprendendo la meditazione di Gen. 3, attribuisce la morte al peccato di Adamo. Col peccato e la legge, la morte è la principale potenza cosmica che domina sul mondo schiavo di Satana. Con l’avvento di Cristo, la morte è distrutta. Giovanni vede la morte di Cristo come passaggio da questo mondo al Padre, per un disegno di salvezza; Paolo, come atto di obbedienza che annulla il peccato e la morte nella risurrezione. La morte di Cristo per amore degli uomini è così creazione e nascita.
Per il cristiano, morto con Cristo, la fine della vita è ingresso nella vita stessa di Dio. Ciò esige l’adesione della fede, che già in sé è vita e comunica l’immortalità, mentre la sua mancanza è morte e conduce alla morte seconda della perdizione.
Morendo con Cristo il cristiano rinasce, per l’opera dello Spirito, alla vita nuova che lo rende partecipe dello stesso dinamismo trinitario, compiendo così la trasformazione definitiva nella viva immagine di Dio che, già iniziata nell’economia della figura, sarà completa alla parusia, quando i morti risorgeranno fruendo della vita stessa di Dio.
 
L’ordine di guarire - Prudenzio, Inni 9,31-42: Voglio che tornino sani i corpi ulcerosi, la putredine delle viscere (cf. Mt 8,3), disse, ed ecco si compì quanto era stato ordinato; le offerte votive per la guarigione purificano la cute turgida (cf. Mt 8,2-3). Tu ungi gli occhi ormai sepolti nelle tenebre perenni con limo salutare e nettare della tua bocca santa; immediatamente questa medicina ridona luce agli occhi aperti (cf. Gv 9, 1-7).
Sgridi il vento impetuoso, giacché con le burrasche agita il mare dalle profondità, e colpisce la nave in viaggio; quello obbedisce ai comandi, l’onda si stende placida (cf. Mt 8,24-26). Furtivamente una donna tocca l’orlo della veste santa subito le torna la salute: le torna il rossore sul viso, si interrompe quell’eterno flusso di sangue (cf. Mt 9,20-22; Mc 5,25-34; Lc 8,43-48).
 
Il Santo del giorno - 30 Giugno 2024 - Santi Primi Martiri della Chiesa di Roma - La Chiesa celebra oggi molti cristiani che, come attesta Papa Clemente, furono trucidati nei giardini vaticani da Nerone dopo l’incendio di Roma (luglio 64). Anche lo storico romano Tacito nei suoi Annali dice: “alcuni ricoperti di pelle di belve furono lasciati sbranare dai cani, altri furono crocifissi, ad altri fu appiccato il fuoco al termine del giorno in modo che servissero di illuminazione notturna”. (Messale Romano)
 
Il santo sacrificio che abbiamo offerto e ricevuto, o Signore,
sia per noi principio di vita nuova,
perché, uniti a te nell’amore,
portiamo frutti che rimangano per sempre.
Per Cristo nostro Signore.
 
 
 29 Giugno 2024
 
Santi Pietro e Paolo, Apostoli
 
At 12,1-11; Salmo Responsoriale Dal Salmo 33 (34); 2Tm 4,6-8.17-18; Mt 16,13-19
 
Colletta
O Dio, che ci doni la grande gioia
di celebrare in questo giorno
la solennità dei santi Pietro e Paolo,
fa’ che la tua Chiesa
segua sempre l’insegnamento degli apostoli,
dai quali ha ricevuto il primo annuncio della fede.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
... e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa - Catechismo della Chiesa Cattolica 552: Nel collegio dei Dodici Simon Pietro occupa il primo posto. Gesù a lui ha affidato una missione unica. Grazie ad una rivelazione concessagli dal Padre, Pietro aveva confessato: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. Nostro Signore allora gli aveva detto: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa” (Mt 16,18). Cristo, “Pietra viva” (1Pt 2,4), assicura alla sua Chiesa fondata su Pietro la vittoria sulle potenze di morte. Pietro, a causa della fede da lui confessata, resterà la roccia incrollabile della Chiesa. Avrà la missione di custodire la fede nella sua integrità e di confermare i suoi fratelli.
553: Gesù ha conferito a Pietro un potere specifico: “A te darò le chiavi del Regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli” (Mt 16,19). Il “potere delle chiavi” designa l’autorità per governare la casa di Dio, che è la Chiesa. Gesù, “il Buon Pastore” (Gv 10,11) ha confermato questo incarico dopo la Risurrezione: “Pasci le mie pecorelle” (Gv 21,15-17). Il potere di “legare e sciogliere” indica l’autorità di assolvere dai peccati, di pronunciare giudizi in materia di dottrina, e prendere decisioni disciplinari nella Chiesa. Gesù ha conferito tale autorità alla Chiesa attraverso il ministero degli Apostoli e particolarmente di Pietro, il solo cui ha esplicitamente affidato le chiavi del Regno.
 
I Lettura: Erode Agrippa, figlio di Erode il Grande, perseguita la Chiesa. Fa giustiziare Giacomo, fratello di Giovanni, e solo per compiacere il popolo fa arrestare Pietro, il quale, alla vigilia del suo processo viene liberato miracolosamente da un angelo. L’intento di Luca è quello di esaltare la provvidenza divina che mai abbandona i giusti. Un racconto che vuole alimentare e sostenere la fede dei primi cristiani sottoposti a persecuzioni e a prove di ogni genere.
 
II Lettura: L’apostolo Paolo è ormai alla fine del suo lungo e doloroso cammino: pur avendo la profonda consapevolezza che sta «per essere versato in offerta», non ha paura della morte. Il premio che l’Apostolo si attende è la «corona di giustizia che il Signore, giusto» gli consegnerà nel giorno della parusia. Il premio è detto «corona della giustizia, perché sarà dato solo a chi l’avrà meritato mediante la santità e la giustizia. Il passo contiene pertanto la dottrina cattolica del merito, per cui Dio si impegna con obbligo di giustizia [giusto Giudice v. 8] a premiare coloro che hanno corrisposto alla sua grazia: il merito, perciò, non è solo una pretesa dell’uomo davanti a Dio, ma l’incoronazione che Dio stesso fa dei suoi doni di grazia e di amore liberamente accettati dalla sua creatura» (Settimio Cipriani). La stessa corona di giustizia sarà donata a tutti coloro che, come Paolo, avranno atteso con amore la manifestazione di Cristo.
 
Vangelo
Tu sei Pietro, a te darò le chiavi del regno dei cieli.
 
Il primato di Pietro è un potere per il bene della Chiesa, e poiché deve durare sino alla fine dei tempi, sarà trasmesso a coloro che gli succederanno nel corso dei secoli. Inferi, alla lettera «Ade» (in ebraico sheol), designa il soggiorno dei morti (Cf. Num 16,33). Le potenze degli inferi, «evocano le potenze del Male che, dopo aver trascinato gli uomini nella morte del peccato, li incatena definitivamente nella morte eterna. Seguendo il suo Signore, morto, “disceso agli inferi” [1Pt 3,19] e risuscitato [At 2,27.31], la Chiesa avrà la missione di strappare gli eletti all’impero della morte, temporale ed eterna, per farli entrare nel regno dei cieli [Cf. Col 1,3; 1Cor 15,26; Ap 6,8; 20,13]» (Bibbia di Gerusalemme).

Dal Vangelo secondo Matteo
Mt 16,13-19
 
In quel tempo, Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo, domandò ai suoi discepoli: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?». Risposero: «Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elìa, altri Geremìa o qualcuno dei profeti».
Disse loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente».
E Gesù gli disse: «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli».
 
Parola del Signore.
 
Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente - Ma voi, chi dite che io sia? Per Giovanni Papini «Gesù non interroga per sapere, ma perché i suoi fedeli, finalmente sappiano anch’essi [...] il suo vero nome». Ed è Simone, primo tra i Dodici e primo tra i cristiani, a esprimere in termini umani la realtà soprannaturale del figlio di Maria: «Tu sei il Cristo, il figlio del Dio vivente». Un’espressione che spesso si trova nell’Antico Testamento (Cf. Gs 3,10; Sal 42,3; 84,3; Os 2,1) ed esprime la presenza operante di Dio.
La risposta di Pietro pone almeno una domanda: egli intendeva professare la divinità di Gesù oppure si riferiva soltanto alla sua messianicità? Se si propende per quest’ultima soluzione, si restituisce alla espressione il semplice senso messianico che essa ha nell’Antico Testamento. Sulla base della risposta del Cristo, né carne né sangue te lo hanno rivelato, si può invece pensare che Pietro abbia voluto professare la divinità del suo Maestro: un’illuminazione che veniva dall’alto e non era frutto di investigazione umana.
La risposta di Gesù a questa professione di fede ha una portata di notevolissima importanza. In primo luogo, egli proclama: «E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa».
Il termine semitico che traduce Chiesa, ekklêsia, significa assemblea. La «Chiesa» nell’Antico Testamento è la comunità del popolo eletto (Cf. Dt 4,10; At 7,38). Nei vangeli non appare che due volte e designa la nuova comunità che Gesù stava per fondare e che egli presenta come una realtà non solo stabile, ma indistruttibile: «[...] le potenze degli inferi non prevarranno su di essa». La locuzione, invece, è frequente nelle lettere paoline. Per la Bibbia di Gerusalemme, Gesù usando «il termine “Chiesa” parallelamente all’espressione “regno dei cieli” (Mt 4,17), sottolinea che questa comunità escatologica comincerà già sulla terra mediante una società organizzata di cui stabilisce il capo».
La Chiesa è edificata su Simone, che a motivo di questo ruolo riceve qui il nome di Pietro. Il mutamento del nome sta a indicare la nuova missione di Simon Pietro: egli sarà la roccia, quindi elemento di coesione, di unità e di stabilità.
A questo punto, Gesù indica i poteri conferiti a Simon Pietro: «A te darò le chiavi del regno dei cieli, tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli». Il senso di questa immagine, nota alla sacra Scrittura e all’antico Oriente, suggerisce l’incarico affidato a un unico personaggio di sorvegliare ed amministrare la casa. Nel mandato di Simon Pietro, il potere di legare e di sciogliere implica il perdono dei peccati, ma la sua comprensione non va limitata a questo significato: esso, infatti, comprende tutta un’attività di decisione e di legislazione, nella dottrina come nella condotta pratica, che coincide con l’amministrazione della Chiesa in generale.
Sempre per la Bibbia di Gerusalemme, l’esegesi cattolica «ritiene che queste promesse eterne valgano non soltanto per la persona di Pietro, ma anche per i suoi successori; sebbene tale conseguenza non sia esplicitamente indicata nel testo, è tuttavia legittima in ragione dell’intenzione manifesta che ha Gesù di provvedere all’avvenire della sua Chiesa con una istituzione che la morte di Pietro non può rendere effimera».
Luca (22,31s) e Giovanni (21,15s) sottolineano che il primato di Pietro, sempre per mandato divino, deve essere esercitato particolarmente nell’ordine della fede e che tale primato lo rende capo, non solo della Chiesa futura, ma già degli altri Apostoli. Infine, c’è da sottolineare che la professione petrina avviene nella regione di Cesarea di Filippo. Possiamo dire che non è «ricordato a caso il quadro geografico: la confessione del Messia e l’investitura di Pietro avvengono fuori dalla Palestina, in un territorio pagano. Le future direzioni della salvezza sono ormai chiare» (Ortensio Da Spinetoli).
 
Santi Pietro e Paolo, Apostoli - Papa Francesco (29 Giugno 2023): edificherò la mia Chiesa» (Mt 16,18). Pietro è un nome che ha più significati: può voler dire roccia, pietra o semplicemente sasso. Ed effettivamente, se guardiamo alla vita di Pietro, troviamo un po’ tutti e tre questi aspetti del suo nome.
Pietro è una roccia: in molti momenti è forte e saldo, genuino e generoso. Lascia tutto per seguire Gesù (cfr Lc 5,11), lo riconosce Cristo, Figlio del Dio vivente (Mt 16,16), si tuffa in mare per andare veloce incontro al Risorto (cfr Gv 21,7). Poi, con franchezza e coraggio, annuncia Gesù nel Tempio, prima e dopo essere stato arrestato e flagellato (cfr At 3,12-26; 5,25-42). La tradizione ci parla anche della sua fermezza di fronte al martirio, che avvenne proprio qui (cfr Clemente Romano, Lettera ai Corinzi, V,4).
Pietro però è anche una pietra: è una roccia e anche una pietra, adatta per offrire appoggio agli altri: una pietra che, fondata su Cristo, fa da sostegno ai fratelli per la costruzione della Chiesa (cfr 1 Pt 2,4-8; Ef 2,19-22). Anche questo troviamo nella sua vita: risponde alla chiamata di Gesù assieme ad Andrea, suo fratello, Giacomo e Giovanni (cfr Mt 4,18-22); conferma la volontà degli Apostoli di seguire il Signore (cfr Gv 6,68); si prende cura di chi soffre (cfr At 3,6), promuove e incoraggia il comune annuncio del Vangelo (cfr At 15,7-11). È “pietra”, è punto di riferimento affidabile per tutta la comunità.
Pietro è roccia, è pietra e anche sasso: emerge spesso la sua piccolezza. A volte non capisce quello che Gesù sta facendo (cfr Mc 8,32-33; Gv 13,6-9); davanti al suo arresto si lascia prendere dalla paura e lo rinnega, poi si pente e piange amaramente (cfr Lc 22,54-62), ma non trova il coraggio di stare sotto la croce. Si rinchiude con gli altri nel cenacolo, per timore di essere catturato (cfr Gv 20,19). Ad Antiochia si mostra imbarazzato a stare con i pagani convertiti – e Paolo lo richiama alla coerenza su questo (cfr Gal 2,11-14) –; infine, secondo la tradizione del Quo vadis, tenta di fuggire di fronte al martirio, ma incontra Gesù sulla strada e ritrova il coraggio di tornare indietro.
In Pietro c’è tutto questo: la forza della roccia, l’affidabilità della pietra e la piccolezza di un semplice sasso.
Non è un superuomo: è un uomo come noi, come ognuno di noi, che dice “sì” a Gesù con generosità nella sua imperfezione. Ma proprio così in Lui – come in Paolo e in tutti i santi – appare che è Dio a renderci forti con la sua grazia, a unirci con la sua carità e a perdonarci con la sua misericordia. Ed è con questa umanità vera che lo Spirito forma la Chiesa. Pietro e Paolo sono state persone vere, e noi, oggi più che mai, abbiamo bisogno di persone vere.
 
L’unità della Chiesa - Cipriano di Cartagine, De Eccl. unitate, 4-5: Il Signore dice a Pietro: “Io ti dico: tu sei Pietro, e sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa. Io ti darò le chiavi del regno dei cieli: ciò che tu legherai sulla terra, sarà legato anche in cielo, e cio che tu scioglierai sulla terra, sarà sciolto anche in cielo” (Mt 16,18s). Su uno solo egli edifica la Chiesa, quantunque a tutti gli apostoli, dopo la sua risurrezione, abbia donato uguali poteri dicendo: “Come il Padre ha mandato me, così io mando voi. Ricevete lo Spirito Santo! A chi rimetterete i peccati, saranno rimessi, e a chi li riterrete, saranno ritenuti” (Gv 20,21-23). Tuttavia, per manifestare l’unità, costituì una cattedra sola, e dispose con la sua parola autoritativa che il principio di questa unità derivasse da uno solo. Quello che era Pietro, certo, lo erano anche gli altri apostoli: egualmente partecipi all’onore e al potere; ma l’esordio procede dall’unità, affinché la fede di Cristo si dimostri unica. E a quest’unica Chiesa di Cristo allude lo Spirito Santo nel Cantico dei Cantici quando, nella persona del Signore, dice: “Unica è la colomba mia, la perfetta mia, unica di sua madre, la prediletta della sua genitrice” (Ct 6,9). Chi non conserva quest’unità della Chiesa, crede forse di conservare la fede? Chi si oppone e resiste alla Chiesa, confida forse di essere nella Chiesa? Eppure è anche il beato apostolo Paolo che lo insegna, e svela il sacro mistero dell’unità dicendo: “Un solo corpo e un solo spirito, una sola speranza della vostra vocazione un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo, un solo Dio” (Ef 4,4-6).
 
Il Santo del Giorno - 29 Giugno 2024 - Pietro e Paolo. Quell’amicizia tra “imperfetti” che porta in dono Dio al mondo - Due volti, due storie, due vite, ma un battito del cuore condiviso, una radice di santità comune e una missione unica: mostrare al mondo la profezia del Vangelo e cambiare la storia. I santi Pietro e Paolo, autentici pilastri della vita della Chiesa nel tempo, non si potrebbero pensare uno senza l’altro. Non si può immaginare l’uno senza l’altro: i santi Pietro e Paolo sono il volto storico di una Chiesa aperta al mondo, legata al mandato del Risorto, missionaria nella storia. Essi, però, non sono solo esempio concreto e pionieri dell’opera evangelizzatrice della Chiesa, sono anche i testimoni di una fede condivisa tra “amici” e compagni di cammino. Sono la voce e l’espressione di quella relazione fondamentale tra Dio e l’uomo, che vive e s’incarna nella relazione tra coloro che sono chiamati ad annunciarlo al mondo. Portatori “imperfetti”, che sbagliano ma sanno fare della proprie debolezze una breccia dalla quale lasciare entrare Dio nelle loro vite. Secondo i racconti evangelici Pietro era fratello di Andrea e aveva incontrato Gesù sul lago di Galilea, rimanendo con lui fino alla fine. La sua autorevolezza è chiara nei Vangeli, così come la sua debolezza, che lo porta a rinnegare Gesù per poi offrire però la propria vita per il Risorto. Paolo, originario di Tarso, invece, era un persecutore dei cristiani quando sulla via per Damasco incontrò Cristo. Dopo la conversione divenne araldo dell’universalità del messaggio di Cristo. Sia Pietro che Paolo morirono martiri a Roma tra il 64 e il 67. (Matteo Liut)
 
Nutriti da questo sacramento, ti preghiamo, o Signore:
fa’ che viviamo nella tua Chiesa
perseveranti nello spezzare il pane
e nell’insegnamento degli apostoli,
per formare, saldi nel tuo amore,
un cuore solo e un’anima sola.
Per Cristo nostro Signore.
 
28 Giugno 2024
 
Sant’Ireneo, Vescovo e Martire
 
2Re 25,1-12; Salmo Responsoriale Dal Salmo 136 (137); Mt 8,1-4

Colletta
O Dio, che al santo vescovo Ireneo
hai dato la grazia di confermare la tua Chiesa
nella verità e nella pace,
fa’ che per sua intercessione, rinnovati nella fede e nell’amore,
cerchiamo sempre ciò che promuove l’unità e la concordia.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Benedetto XVI (Udienza Generale 28 Marzo 2007): Le notizie biografiche su [sant’Ireneo di Lione] provengono dalla sua stessa testimonianza, tramandata a noi da Eusebio nel quinto libro della Storia Ecclesiastica. Ireneo nacque con tutta probabilità a Smirne (oggi Izmir, in Turchia) verso il 135-140, dove ancor giovane fu alla scuola del Vescovo Policarpo, discepolo a sua volta dell’apostolo Giovanni. Non sappiamo quando si trasferì dall’Asia Minore in Gallia, ma lo spostamento dovette coincidere con i primi sviluppi della comunità cristiana di Lione: qui, nel 177, troviamo Ireneo annoverato nel collegio dei presbiteri. Proprio in quell’anno egli fu mandato a Roma, latore di una lettera della comunità di Lione al Papa Eleuterio. La missione romana sottrasse Ireneo alla persecuzione di Marco Aurelio, nella quale caddero almeno quarantotto martiri, tra cui lo stesso Vescovo di Lione, il novantenne Potino, morto di maltrattamenti in carcere. Così, al suo ritorno, Ireneo fu eletto Vescovo della città. Il nuovo Pastore si dedicò totalmente al ministero episcopale, che si concluse verso il 202-203, forse con il martirio.
Ireneo è innanzitutto un uomo di fede e un Pastore. Del buon Pastore ha il senso della misura, la ricchezza della dottrina, l’ardore missionario. Come scrittore, persegue un duplice scopo: difendere la vera dottrina dagli assalti degli eretici, ed esporre con chiarezza le verità della fede. A questi fini corrispondono esattamente le due opere che di lui ci rimangono: i cinque libri Contro le eresie, e l’Esposizione della predicazione apostolica (che si può anche chiamare il più antico «catechismo della dottrina cristiana»). In definitiva, Ireneo è il campione della lotta contro le eresie. La Chiesa del II secolo era minacciata dalla cosiddetta gnosi, una dottrina la quale affermava che la fede insegnata nella Chiesa sarebbe solo un simbolismo per i semplici, che non sono in grado di capire cose difficili; invece, gli iniziati, gli intellettuali – gnostici, si chiamavano – avrebbero capito quanto sta dietro questi simboli, e così avrebbero formato un cristianesimo elitario, intellettualista. Ovviamente questo cristianesimo intellettualista si frammentava sempre più in diverse correnti con pensieri spesso strani e stravaganti, ma attraenti per molti. Un elemento comune di queste diverse correnti era il dualismo, cioè si negava la fede nell’unico Dio Padre di tutti, Creatore e Salvatore dell’uomo e del mondo. Per spiegare il male nel mondo, essi affermavano l’esistenza, accanto al Dio buono, di un principio negativo. Questo principio negativo avrebbe prodotto le cose materiali, la materia.  
Radicandosi saldamente nella dottrina biblica della creazione, Ireneo confuta il dualismo e il pessimismo gnostico che svalutavano le realtà corporee. Egli rivendicava decisamente l’originaria santità della materia, del corpo, della carne, non meno che dello spirito. Ma la sua opera va ben oltre la confutazione dell’eresia: si può dire infatti che egli si presenta come il primo grande teologo della Chiesa, che ha creato la teologia sistematica; egli stesso parla del sistema della teologia, cioè dell’interna coerenza di tutta la fede. Al centro della sua dottrina sta la questione della «Regola della fede» e della sua trasmissione. Per Ireneo la «Regola della fede» coincide in pratica con il Credo degli Apostoli, e ci dà la chiave per interpretare il Vangelo. Il Simbolo apostolico, che è una sorta di sintesi del Vangelo, ci aiuta a capire che cosa vuol dire, come dobbiamo leggere il Vangelo stesso.
 
I Lettura: Antonio González-Lamadrid (Commento della Bibbia Liturgica): Prima, il regno del nord (722), e ora, quello del Sud (587) scompaiono; e, con la scomparsa della monarchia, il popolo eletto perdette definitivamente la sua vita come stato indipendente, se si eccettua la breve parentesi degli asmonei. Alla dominazione babilonese successe quella persiana, alla persiana quella greca e a quella greca, la romana.
La distruzione di Gerusalemme fu una dura prova per il popolo eletto. Crollarono la dinastia davidica e il tempio insieme con le istituzioni politiche e religiose, sulle quali si appoggiava la vita del popolo. È la fine di una tappa, e i segni dei tempi sono ora rivolti verso una tappa nuova; ma, fra l’una e l’altra, vi sono gli anni dell’esilio che porta con sé i dolori e le sofferenze proprie di ogni periodo di gestazione.
Le personalità incaricate di gestire quali protagonisti la transizione sono tre profeti: Geremia, Ezechiele e il secondo Isaia. In tutti e tre la parola più caratteristica è l’aggettivo «nuovo»: nuova alleanza, nuovo esodo, nuovo Mosè, nuova terra, nuovo tempio, ecc. Fra questi tre il più importante è probabilmente Geremia. Tenero e sentimentale per temperamento, Geremia fu costretto a profetizzare la distruzione della città santa e del suo popolo che tanto amava. Ma, mentre predicava la distruzione, il profeta di Anatot con la sua persona. con la sua vita e la sua stessa presenza, dava vita a una nuova era.
Caso unico nell’ AT, Geremia rimase coscientemente e deliberatamente celibe (Ger 16). Per il suo discorso contro il tempio (Ger 7; 26), gli fu proibito di entrare nel santuario; e, per il tono delle sue prediche, quasi sempre minaccioso, fu abbandonato persino dai suoi compaesani di Anatot, che arrivarono al punto di studiare un piano per disfarsi di lui (Ger 18,18-23). Tutte queste circostanze crearono intorno a Geremia un clima di solitudine, che risultò provvidenziale al fine di sperimentare un tipo di religione interiore, molto necessario in questo momento, in cui erano venuti meno le istituzioni e gli appoggi esteriori.
Geremia è il primo che comincia a parlare di una alleanza non scritta su tavole di pietra, ma nel fondo del cuore.
Con la sua vita e la sua presenza trasformate in messaggio, Geremia è una delle pietre fondamentali che formano l’arco della transizione fra la tappa antica e la nuova.
Cronologicamente Geremia è anteriore all’esilio, ma lasua vita religiosa appartiene già al tempo dell’esilio
 
Vangelo
Se vuoi, tu puoi purificarmi.
 
Il lebbroso manifesta la sua fede in Gesù e lo sottolineano il titolo e i due verbi che accompagnano la sua implorazione: Signore, se vuoi, tu puoi purificarmi. Gesù risponde positivamente confermando la fede delle lebbroso: Lo voglio. Per evitare facili entusiasmi, Gesù intima il silenzio. Un’altra nota di rilievo è l’infrazione che Gesù compie nel toccare il lebbroso, infatti la Legge proibiva al lebbroso di avvicinarsi agli uomini e agli uomini vietava di accostarsi ai malati di lebbra, il gesto di Gesù è un gesto di carità ma anche di profonda solidarietà. Gesù compie quanto era prescritto dalla Legge rimandando il lebbroso sanato ai sacerdoti i quali dovevano accertare l’avvenuta guarigione per riammettere l’uomo nella vita pubblica e religiosa. Ai tempi di Gesù si credeva che nel tempo della salvezza non ci sarebbe stata più la lebbra. Le guarigioni dalla lebbra compiute da Gesù indicano perciò che il tempo della salvezza è giunto.
 
Dal Vangelo secondo Matteo
Mt 8,1-4
 
Quando Gesù scese dal monte, molta folla lo seguì.
Ed ecco, si avvicinò un lebbroso, si prostrò davanti a lui e disse: «Signore, se vuoi, puoi purificarmi».
Tese la mano e lo toccò dicendo: «Lo voglio: sii purificato!». E subito la sua lebbra fu guarita.
Poi Gesù gli disse: «Guàrdati bene dal dirlo a qualcuno; va’ invece a mostrarti al sacerdote e presenta l’offerta prescritta da Mosè come testimonianza per loro».
 
Parola del Signore.
 
Il discorso di Gesù era andato bene, tanto è vero che molta folla si pone al suo seguito. Il lebbroso forse era mescolato tra la folla anche se la Legge lo proibiva e probabilmente incoraggiato dalle parole di Gesù, con intraprendenza, si avvicina a Gesù. Sa cosa gli può capitare, potrebbe essere anche lapidato a motivo di questa sconsideratezza, ma ormai la vita in lui era al lumicino, spegnerla del tutto non era poi subire un danno tanto grave. Nella supplica del lebbroso vi sono due verbi che meritano essere messi in evidenza: se tu vuoi, come dire se il tuo cuore è incline alla carità, allora tu vuoi; e se tu vuoi puoi guarirmi, perché le tue parole rivelano che tu ami i sofferenti, i piccoli, gli ammalati, e la misericordia di Dio è così grande nel tuo cuore da operare in te come forza divina per compiere miracoli. Forse le cose non stanno così, ma sta di fatto che il lebbroso si affida alla pietà di Gesù, e alla sua onnipotenza. Da sempre la malattia, per chi crede, è la via regale che conduce l’uomo a entrare in profondità nel mistero di Dio. E Gesù, toccando il lebbroso, lo conferma nella sua “professione di fede”: io lo voglio e posso guarirti. Gesù vuole toccare il nostro cuore malato, sudicio, perché diventi linda dimora di Dio; vuole toccare la nostra mente impura perché purificata da ogni malvagità si applichi unicamente a pensieri nobili e veritieri: “quello che è vero, quello che è nobile, quello che è giusto, quello che è puro, quello che è amabile, quello che è onorato, ciò che è virtù e ciò che merita lode, questo sia oggetto dei vostri pensieri” (Fil 4,8). Ma come ci suggerisce il Vangelo il miracolo avviene sì nell’intimità di un incontro, ma deve essere confermato dai sacerdoti, solo nella Chiesa l’uomo gusta l’onnipotenza di Dio, solo nella Chiesa l’uomo incontra Dio e solo nella Chiesa viene purificato dalla lebbra del peccato
 
Pierre Grelot: Nella stessa categoria della lebbra propriamente detta (nega, parola che significa anzitutto «piaga, colpo»), la Bibbia raggruppa sotto nomi diversi parecchie affezioni cutanee particolarmente contagiose, e persino la muffa delle vesti e dei muri (Lev 13,47...; 14,33 ...).
1. La lebbra, impurità e castigo divino. - Per la legge, la lebbra è un’impurità contagiosa; perciò il lebbroso è escluso dalla comunità sino alla sua guarigione ed alla sua purificazione rituale, che esige un sacrificio per il peccato (Lev 13-14). Questa lebbra è la «piaga» per eccellenza con cui Dio colpisce (vaga) i peccatori. Israele ne è minacciato (Deut 28,27.35). Gli Egiziani ne sono colpiti (Es 9,9 ss), e cosìpure Maria (Num 12, 10-15) ed Ozia (2 Cron 26,19-23). Essa è quindi, per principio, un segno del peccato. Tuttavia, se il servo sofferente è colpito (vaga; Vg: leprosum) da Dio, per modo che ci si scosta da lui come da un lebbroso, si è perché, quantunque innocente, egli porta i peccati degli uomini che saranno guariti in virtù delle sue piaghe (Is 53, 3-12; cfr. Sa] 73, 14).
2. La guarigione dei lebbrosi. - Può essere naturale, ma anche avvenire per miracolo, come quella di Naaman nelle acque del Giordano (2 Re 5), segno della benevolenza divina e della potenza profetica. Gesù, quando guarisce i lebbrosi (Mt 8,1-4 par.; Lc 17,11-19), trionfa della piaga per eccellenza; ne guarisce gli uomini di cui prende su di sé le malattie (Mt 8,17). Purificando i lebbrosi e reinserendoli nella comunità, egli abolisce con un atto miracoloso la separazione tra il puro e l’impuro. Se prescrive ancora le offerte legali, lo fa a titolo di testimonianza: i sacerdoti constateranno in tal modo il suo rispetto della legge e nello stesso tempo il suo potere miracoloso.
Unita alle altre guarigioni, quella dei lebbrosi è quindi un segno che egli è proprio «Colui che deve venire» (Mt 11,5 par.). Anche i Dodici, mandati da lui in missione, ricevono l’ordine ed il potere di mostrare con questo segno che il regno di Dio è giunto (Mt 10,8).
 
Gesù ha guarito la lebbra dell’anima - Anonimo, Opera incompleta su Matteo, omelia 21: E stendendo la sua mano lo toccò. Nella Legge era stato detto che chi tocca se un lebbroso, sarebbe stato infetto fino a sera: Ma egli toccò il lebbroso non come servo ma come padrone della Legge. Infatti la Legge è sottoposta al legislatore, non il legislatore alla Legge. Che dunque? Ha abolito la Legge? No, fu abolita l’interpretazione letterale della Legge, non il suo proposito e le ha aggiunto dignità. Se la Legge avesse potuto permettere che la lebbra non infettasse chi la toccasse, non avrebbe mai ordinato agli uomini di non toccare la lebbra. Aveva dato tale ordine poiché non poteva fare in modo che la lebbra non rendesse infetto chi la toccasse. Egli che, toccando la lebbra, da essa non fu contagiato, non agì contro la Legge, ma fece più di quanto essa ordinasse: non solo non fu contaminato dalla lebbra ma la guarì. Né si può credere che venga contaminato dalla lebbra chi l’ha sanata. La Legge, infatti, vieta di toccare la lebbra non per non guarire i lebbrosi, ma per evitare che toccandola ne veniamo contagiati. Costui che dal contatto non viene infettato ma per giunta l’ha guarita ha fatto più di quanto avesse voluto la Legge. Ha toccato la lebbra, e ha abolito l’interpretazione letterale della Legge affinché fosse evitata non la lebbra del corpo ma quella dell’anima.
 
Il Santo del Giorno - 28 Giugno 2024 - Sant’Ireneo di Lione - Difese la vera bellezza e la ricchezza della fede: Il senso della misura, ma anche la ricchezza della dottrina, l’ardore missionario e la volontà di difendere la vera fede, cercando di esporre con chiarezza la verità del Vangelo: questi tratti della figura di sant’Ireneo di Lione, così come indicati da Benedetto XVI nell’udienza del 28 marzo 2007, appaiono come la descrizione dei compiti di ogni battezzato. Ogni fedele, infatti, è chiamato a conoscere a proporre la mondo la bellezza e la profondità di ciò in cui crede: il messaggio del Risorto. Così fece Ireneo, che era forse originario di Smirne ed era stato discepolo di san Policarpo, prima di diventare nel 177 vescovo di Lione in Gallia. Fu chiamato a succedere a san Potino, vescovo novantenne ucciso durante la persecuzione. Fino alla morte, nel 202 circa, Ireneo fu una guida saggia, un pastore autorevole e un difensore della retta fede, messa a rischio dalle eresie.
 
La partecipazione a questi santi misteri, o Padre,
accresca in noi la fede
che sant’Ireneo testimoniò fino alla morte,
perché diventiamo anche noi
veri discepoli di Cristo tuo Figlio.
Egli vive e regna nei secoli dei secoli.