21 Novembre 2024
 
PRESENTAZIONE DELLA BEATA VERGINE MARIA
 
Ap 5,1-10; Salmo Responsoriale Dal Salmo 149; Lc 19,41-44
 
Colletta
Nella gloriosa memoria della santissima Vergine Maria
concedi anche a noi, o Signore, per sua intercessione,
di partecipare alla pienezza della tua grazia.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.

 L’Agnello immolato: Benedetto XVI (Udienza Generale, 12 settembre 2012): ... dopo l’appello insistente di Cristo che, nella prima parte dell’Apocalisse, ben sette volte ha detto: «Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alla Chiesa» (cfr. Ap 2,7.11,17.29; 3,6.13.22), l’assemblea viene invitata a salire in Cielo per guardare la realtà con gli occhi di Dio; e qui ritroviamo tre simboli, punti di riferimento da cui partire per leggere la storia: il trono di Dio, l’Agnello e il libro (cfr. Ap 4,1-5.14). Primo simbolo è il trono, sul quale sta seduto un personaggio che Giovanni non descrive, perché supera qualsiasi rappresentazione umana; può solo accennare al senso di bellezza e gioia che prova trovandosi davanti a Lui. Questo personaggio misterioso è Dio, Dio onnipotente che non è rimasto chiuso nel suo Cielo, ma si è fatto vicino all’uomo, entrando in alleanza con lui; Dio che fa sentire nella storia, in modo misterioso ma reale, la sua voce simboleggiata dai lampi e dai tuoni. Vi sono vari elementi che appaiono attorno al trono di Dio, come i ventiquattro anziani e i quattro esseri viventi, che rendono lode incessantemente all’unico Signore della storia. Primo simbolo, quindi, il trono. Secondo simbolo è il libro, che contiene il piano di Dio sugli avvenimenti e sugli uomini; è chiuso ermeticamente da sette sigilli e nessuno è in grado di leggerlo. Di fronte a questa incapacità dell’uomo di scrutare il progetto di Dio, Giovanni sente una profonda tristezza che lo porta al pianto. Ma c’è un rimedio allo smarrimento dell’uomo di fronte al mistero della storia: qualcuno è in grado di aprire il libro e di illuminarlo. E qui appare il terzo simbolo: Cristo, l’Agnello immolato nel Sacrificio della Croce, ma che è in piedi, segno della sua Risurrezione. Ed è proprio l’Agnello, il Cristo morto e risorto, che progressivamente apre i sigilli e svela il piano di Dio, il senso profondo della storia. Che cosa dicono questi simboli? Essi ci ricordano qual è la strada per saper leggere i fatti della storia e della nostra stessa vita. Alzando lo sguardo al Cielo di Dio, nel rapporto costante con Cristo, aprendo a Lui il nostro cuore e la nostra mente nella preghiera personale e comunitaria, noi impariamo a vedere le cose in modo nuovo e a coglierne il senso più vero. La preghiera è come una finestra aperta che ci permette di tenere lo sguardo rivolto verso Dio, non solo per ricordarci la meta verso cui siamo diretti, ma anche per lasciare che la volontà di Dio illumini il nostro cammino terreno e ci aiuti a viverlo con intensità e impegno.

Prima Lettura: Dopo la grandiosa visione del trono di Dio (cfr. Ap 4,1-11), ecco la visione dell’Agnello morto e risorto. Le due visioni sono strettamente collegate e complementari. Il profeta vede un Agnello come immolato, è il Crocifisso, e nel contempo in piedi, è il Risorto, con sette corna che significano la pienezza della forza e con sette occhi che si identificano con i sette spiriti di Dio mandati su tutta la terra e significano la divina onniscienza. Qui si celebra la redenzione operata dall’Agnello, ha riscattato per Dio, con il suo sangue, uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione. L’agnello prende da Colui che sedeva sul trono il libro sigillato, le cui pagine contengono piano salvifico di Dio sul mondo, che, prima della venuta di Cristo era sconosciuto. Ora è giunto il tempo, l’agnello realizza questo piano e lo rende noto.

Vangelo
Se avessi compreso quello che porta alla pace!

Questo oracolo completamente intessuto di reminiscenze bibliche lo si trova soltanto nel Vangelo di Luca. Richiama la rovina di Gerusalemme del 587 (o 586?) a.C. e molto più quella del 70 d.C., “di cui peraltro non descrive nessuno dei tratti caratteristici. Da questo testo non si può dunque concludere che essa fosse già avvenuta [cf. Lc 17,22+, Lc 21,20+]” (Bibbia di Gerusalemme). La colpa del popolo d’Israele è di non aver compreso di essere stato “visitato” da Dio nella “pienezza dei tempi”, attraverso il suo unigenito Figlio. Rifiutando Gesù che porta la pace, Gerusalemme, la città santa, non potrà trovare pace e sarà vittima di spaventose devastazioni che porteranno al popolo lutti, sofferenze e dolori.

Dal Vangelo secondo Luca
Lc 19,41-44
  
In quel tempo, Gesù, quando fu vicino a Gerusalemme, alla vista della città pianse su di essa dicendo:
In quel tempo, Gesù, quando fu vicino a Gerusalemme, alla vista della città pianse su di essa dicendo:
«Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, quello che porta alla pace! Ma ora è stato nascosto ai tuoi occhi.
Per te verranno giorni in cui i tuoi nemici ti circonderanno di trincee, ti assedieranno e ti stringeranno da ogni parte; distruggeranno te e i tuoi figli dentro di te e non lasceranno in te pietra su pietra, perché non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata».
 
Parola del Signore.
 
Bruno Maggioni (Il racconto di Luca): Gesù piange su Gerusalemme: il verbo greco klaio dice un pianto vero, che si vede e si sente, fatto di lacrime.
La città è cieca e non ha afferrato la grande occasione: la «via per la pace» le è rimasta nascosta. Non un nascondimento permanente, ma per un tempo determinato (il verbo è all’aoristo).
La forma passiva non attribuisce a Dio la colpa della cecità. Significa piuttosto che si tratta di una cecità inevitabile, di fronte alla quale Gesù non uò nulla. Ha fatto miracoli, ma è impotente di fronte a coloro che decidono di rifiutarlo. Il suo pianto esprime impotenza, sconfitta e delusione, ma anche amore e preoccupazione. Egli sa che verrà il castigo che gli darà ragione. Ma come tutti i veri profeti, preferirebbe che non si avverasse.
Non è lieto che venga punita la città che lo rifiuta. Ne prova solo dolore, e piange.
Rifiutare Gesù è rifiutare la «visita» di Dio, la grande occasione che occorre afferrare. Questa occasione è indicata come «la via della pace» (19,42), tutto il contrario di quello che poi accadrà. Rifiutare Gesù è rifiutare la pace, parola che nella Bibbia assume sempre un significato globale, comprendent tutto ciò di cui l’uomo ha bisogno.
Non è spiegato esplicitamente perché la città lo rifiuta. Ma Gesù lo ha già detto in più occasioni. La città aspettava una visita folgorante, invece il Signore è arrivato umilmente.
 
Gesù, quando fu vicino a Gerusalemme, alla vista della città pianse su di essa - Giovanni Nicolini: Per cogliere qualche scintilla luminosa dalla meraviglia di questo piccolo episodio che il solo Luca ricorda, ho pensato al pianto di Dio. Penso al suo venire nella carne e nella condizione dell’umanità, pienamente: Gesù! E penso a come tutto l’umano, visitato da Dio nella persona di Gesù in questo e per questo venga illuminato e svelato. Penso alla partecipazione assoluta di Dio al pianto della storia. Penso come il nostro piangere sia infinitamente meno profondo, meno consapevole, meno doloroso. Penso a come non si possa trovare nessun uomo e nessuna donna al mondo più “umano” del Figlio di Dio. Penso a come ogni pianto sia visitato, sia in certo modo “giudicato”, e sia “assunto” da Dio nel mistero del suo Figlio in mezzo a noi, tra noi e in noi. Questo pianto lo coinvolge direttamente e assolutamente perché è dovuto al non avere Gerusalemme “compreso quello che porta alla pace” [ver. 42]. Alla lettera, l’espressione sarebbe “le cose verso la pace”. Questo “movimento “ verso la pace ci dice che il cammino in essa e verso essa è infinito, perché Lui stesso, Gesù, è la pace! E la pace non è una “situazione”, ma piuttosto un’ “azione”. La pace è “fare la pace” - o riceverla! - incessantemente. Farla crescere in noi, tra noi e con tutti. La pace è la pienezza della carità. Siamo ben lontani da una pace intesa miseramente - anche se è già molto! - come “non guerra”. Ebbene, il Vangelo di Gesù, il Vangelo che è Gesù, è la pace. “Comprendere” la pace è accogliere e camminare nella via del Vangelo. Non riconoscere “il tempo in cui sei stata visitata” - alla lettera “il tempo della tua visita”, “tempus visitationis tuae” - diventa il “giudizio” divino sulla storia umana. La “conversione” è sempre, per ciascuno e per tutti, riconoscere che Gesù è “la visita” di Dio alla nostra povera condizione, che attende la salvezza. Ma Gesù è venuto a Gerusalemme per offrire la sua vita: così si apre la via della pace. La sua Pasqua entra nell’abisso della storia umana e ne condivide pienamente il dramma. Per questo Egli è anche la via della risurrezione e della vita nuova.
 
Se avessi compreso quello che porta alla pace!: Paolo VI (Tratto dal Discorso all’ONU, 4 Ottobre 1965): ... non più la guerra, non più la guerra! La pace, la pace deve guidare le sorti dei Popoli e dell’intera umanità!  ... E voi sapete che la pace non si costruisce soltanto con la politica e con l’equilibrio delle forze e degli interessi, ma con lo spirito, con le idee, con le opere della pace. Voi già lavorate in questo senso. Ma voi siete ancora in principio: arriverà mai il mondo a cambiare la mentalità particolaristica e bellicosa, che finora ha tessuto tanta parte della sua storia? È difficile prevedere; ma è facile affermare che alla nuova storia, quella pacifica, quella veramente e pienamente umana, quella che Dio ha promesso agli uomini di buona volontà, bisogna risolutamente incamminarsi; e le vie sono già segnate davanti a voi; e la prima è quella del disarmo. Se volete essere fratelli, lasciate cadere le armi dalle vostre mani. Non si può amare con armi offensive in pugno. Le armi, quelle terribili specialmente, che la scienza moderna vi ha date, ancor prima che produrre vittime e rovine, generano cattivi sogni, alimentano sentimenti cattivi, creano incubi, diffidenze e propositi tristi, esigono enormi spese, arrestano progetti di solidarietà e di utile lavoro, falsano la psicologia dei popoli. Finché l’uomo rimane l’essere debole e volubile e anche cattivo, quale spesso si dimostra, le armi della difesa saranno necessarie, purtroppo; ma voi, coraggiosi e valenti quali siete, state studiando come garantire la sicurezza della vita internazionale senza ricorso alle armi: questo è nobilissimo scopo, questo i Popoli attendono da voi, questo si deve ottenere! Cresca la fiducia unanime in questa Istituzione, cresca la sua autorità; e lo scopo, è sperabile, sarà raggiunto. Ve ne saranno riconoscenti le popolazioni, sollevate dalle pesanti spese degli armamenti, e liberate dall’incubo della guerra sempre imminente, il quale deforma la loro psicologia. Noi godiamo di sapere che molti di voi hanno considerato con favore il Nostro invito, lanciato a tutti gli Stati per la causa della pace, a Bombay, nello scorso dicembre, di devolvere a beneficio dei Paesi in via di sviluppo una parte almeno delle economie, che si possono realizzare con la riduzione degli armamenti. Noi rinnoviamo qui tale invito, fidando nel vostro sentimento di umanità e di generosità.
 
Antonio da Padova: Sermones (X domenica dopo Pentecoste): In quel giorno periranno tutti i loro pensieri, simboleggiati dalle pietre ... Quando il perverso, a pensiero perverso ne aggiunge un altro più perverso, appresta come una pietra sopra un’altra pietra. Ma tale costruzione di pensieri viene abbattuta quando l’anima è trascinata al castigo; e questo avviene perché essa non seppe riconoscere il tempo nel quale era stata visitata (Lc. 19,44). Infatti Dio visita l’anima perversa a volte con un comando, a volte con una sofferenza, a volte con un miracolo. Ma siccome essa è superba e sprezzante, e non arrossisce dei propri mali, viene alla fine consegnata ai nemici, ai demoni, coi quali rimarrà legata, unita con loro nella dannazione dell’eterno giudizio.
 
Il Santo del Giorno - 21 Novembre 2024 - Presentazione della Beata Vergine Maria. Solo immersi nella vita di Dio saremo frammento d’infinito amore: Il nostro cuore è destinato a prendere dimora lì dove abita Dio. E così che l’intera nostra esistenza s’immerge nella vita divina e ne diviene un segno concreto, giorno per giorno, nei piccoli grandi gesti della quotidianità. E ci sono persone in questo mondo, che hanno il compito proprio di ricordarci questa nostra “appartenenza” a Dio. E non si tratta di una “proprietà” ma del riconoscimento di un’identità: prima capiremo che siamo un raggio d’Infinito nella storia, prima diventeremo santi, ovvero frammento visibile di quell’Infinito. Ecco il senso della ricorrenza liturgica di oggi. Il ricordo della presentazione al tempio di Maria, come spiega anche il Messale Romano, è una tradizione attestata dal protovangelo di Giacomo e non si trova quindi tra i racconti evangelici. La celebrazione liturgica, comunque, risale al VI secolo in Oriente e al XIV secolo in Occidente: papa Gregorio XI la introdusse ad Avignone mentre Sisto V nel 1585 la rese obbligatoria per tutta la Chiesa. Si tratta di una celebrazione che porta con sé un messaggio fondamentale: la vocazione di ogni essere umano trova compimento solo nel momento in cui ci si pone sotto la luce di Dio. E l’intera esistenza di Maria si svolse in questo orizzonte, testimoniando così la strada che porta all’autentica santità, a una vita pienamente realizzata in grado di portare luce a tutto il mondo.
 
O Signore, Dio nostro,
che ci hai resi partecipi del cibo spirituale,
fa’ che, imitando assiduamente la beata Vergine Maria,
ci dedichiamo sempre al servizio della Chiesa
e sperimentiamo la gioia di esserti fedeli.
Per Cristo nostro Signore.
 
 
 

 20 Novembre 2024
 
MERCOLEDÌ DELLA XXXIII SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO PARI)
 
Ap 4,1-11; Salmo Responsoriale dal Salmo 150; Lc 19,11-28
 
Colletta
Il tuo aiuto, Signore Dio nostro,
ci renda sempre lieti nel tuo servizio,
perché solo nella dedizione a te, fonte di ogni bene,
possiamo avere felicità piena e duratura.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Dio si fida di noi: Papa Francesco (Angelus, 16 Novembre 2014): [È chiaro il significato della parabola]. L’uomo della parabola rappresenta Gesù, i servitori siamo noi e i talenti sono il patrimonio che il Signore affida a noi. Qual è il patrimonio? La sua Parola, l’Eucaristia, la fede nel Padre celeste, il suo perdono … insomma, tante cose, i suoi beni più preziosi. Questo è il patrimonio che Lui ci affida. Non solo da custodire, ma da far crescere! Mentre nell’uso comune il termine “talento” indica una spiccata qualità individuale – ad esempio talento nella musica, nello sport, eccetera –, nella parabola i talenti rappresentano i beni del Signore, che Lui ci affida perché li facciamo fruttare. La buca scavata nel terreno dal «servo malvagio e pigro» (v. 26) indica la paura del rischio che blocca la creatività e la fecondità dell’amore. Perché la paura dei rischi dell’amore ci blocca. Gesù non ci chiede di  conservare la sua grazia in cassaforte! Non ci chiede questo Gesù, ma vuole che la usiamo a vantaggio degli altri. Tutti i beni che noi abbiamo ricevuto sono per darli agli altri, e così crescono. È come se ci dicesse: “Eccoti la mia misericordia, la mia tenerezza, il mio perdono: prendili e fanne largo uso”. E noi che cosa ne abbiamo fatto? Chi abbiamo “contagiato” con la nostra fede? Quante persone abbiamo incoraggiato con la nostra speranza? Quanto amore abbiamo condiviso col nostro prossimo? Sono domande che ci farà bene farci. Qualunque ambiente, anche il più lontano e impraticabile, può diventare luogo dove far fruttificare i talenti. Non ci sono situazioni o luoghi preclusi alla presenza e alla testimonianza cristiana. La testimonianza che Gesù ci chiede non è chiusa, è aperta, dipende da noi.
Questa parabola ci sprona a non nascondere la nostra fede e la nostra appartenenza a Cristo, a non seppellire la Parola del Vangelo, ma a farla circolare nella nostra vita, nelle relazioni, nelle situazioni concrete, come forza che mette in crisi, che purifica, che rinnova. Così pure il perdono, che il Signore ci dona specialmente nel Sacramento della Riconciliazione: non teniamolo chiuso in noi stessi, ma lasciamo che sprigioni la sua forza, che faccia cadere muri che il nostro egoismo ha innalzato, che ci faccia fare il primo passo nei rapporti bloccati, riprendere il dialogo dove non c’è più comunicazione… E così via. Fare che questi talenti, questi regali, questi doni che il Signore ci ha dato, vengano per gli altri, crescano, diano frutto, con la nostra testimonianza.
Credo che oggi sarebbe un bel gesto che ognuno di voi prendesse il Vangelo a casa, il Vangelo di San Matteo, capitolo 25, versetti dal 14 al 30, Matteo 25, 14-30, e leggere questo, e meditare un po’: “I talenti, le ricchezze, tutto quello che Dio mi ha dato di spirituale, di bontà, la Parola di Dio, come faccio che crescano negli altri? O soltanto li custodisco in cassaforte?”.
E inoltre Il Signore non dà a tutti le stesse cose e nello stesso modo: ci conosce personalmente e ci affida quello che è giusto per noi; ma in tutti, in tutti c’è qualcosa di uguale: la stessa, immensa fiducia. Dio si fida di noi, Dio ha speranza in noi! E questo è lo stesso per tutti. Non deludiamolo! Non lasciamoci ingannare dalla paura, ma ricambiamo fiducia con fiducia! La Vergine Maria incarna questo atteggiamento nel modo più bello e più pieno. Ella ha ricevuto e accolto il dono più sublime, Gesù in persona, e a sua volta lo ha offerto all’umanità con cuore generoso. A Lei chiediamo di aiutarci ad essere “servi buoni e fedeli”, per partecipare “alla gioia del nostro Signore”.
 
I Lettura: Il trono di Dio, creatore dell’intera creazione, è circondato da un arcobaleno simile nell’aspetto a smeraldo. L’arcobaleno, è il segno della pace: Questo è il segno dell’alleanza... Pongo il mio arco sulle nubi, perché sia il segno dell’alleanza tra me e la terra... non ci saranno più le acque per il diluvio, per distruggere ogni carne. L’arco sarà sulle nubi, e io lo guarderò per ricordare l’alleanza eterna tra Dio e ogni essere che vive in ogni carne che è sulla terra  (Gen 9,12ss). Utilizzando l’immagine dell’arcobaleno, Giovanni vuol dirci che la parola di Dio, che sostiene il mondo, è una parola fedele, vicina all’uomo. Il diluvio e le forze della distruzione non avranno mai più l’ultima parola.
 
Vangelo
Perché non hai consegnato il mio denaro a una banca?
 
La parabola corrisponde a quella dei talenti, che Matteo colloca nel discorso escatologico (25,14-30), tra le parabole della vigilanza. Ma le divergenze tra le due redazioni sono tanto notevoli che numerosi esegeti le fanno derivare da fonti diversi. Inoltre, molti credono che «la parabola delle monete d’oro o dei talenti» faccia riferimento a Erode Archelao il quale era partito per Roma per ricevere il titolo di re della Giudea. Al di là di questa nota, l’insegnamento del racconto è molto chiaro. Gesù è l’uomo che intraprende il viaggio, i servi i credenti, le monete d’oro il «patrimonio del padrone dato da amministrare in proporzione diverse “a ciascuno secondo le sue capacità”» (Clara Achille Cesarini). Non è degno del premio celeste chi non sente la responsabilità di far crescere il regno. L’inattività del servo malvagio, alla fine della vita, sarà giudicata con severità.
 
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 19,11-28
 
In quel tempo, Gesù disse una parabola, perché era vicino a Gerusalemme ed essi pensavano che il regno di Dio dovesse manifestarsi da un momento all’altro.
Disse dunque: «Un uomo di nobile famiglia partì per un paese lontano, per ricevere il titolo di re e poi ritornare. Chiamati dieci dei suoi servi, consegnò loro dieci monete d’oro, dicendo: “Fatele fruttare fino al mio ritorno”. Ma i suoi cittadini lo odiavano e mandarono dietro di lui una delegazione a dire: “Non vogliamo che costui venga a regnare su di noi”. Dopo aver ricevuto il titolo di re, egli ritornò e fece chiamare quei servi a cui aveva consegnato il denaro, per sapere quanto ciascuno avesse guadagnato.
Si presentò il primo e disse: “Signore, la tua moneta d’oro ne ha fruttate dieci”. Gli disse: “Bene, servo buono! Poiché ti sei mostrato fedele nel poco, ricevi il potere sopra dieci città”.
Poi si presentò il secondo e disse: “Signore, la tua moneta d’oro ne ha fruttate cinque”. Anche a questo disse: “Tu pure sarai a capo di cinque città”.
Venne poi anche un altro e disse: “Signore, ecco la tua moneta d’oro, che ho tenuto nascosta in un fazzoletto; avevo paura di te, che sei un uomo severo: prendi quello che non hai messo in deposito e mieti quello che non hai seminato”. Gli rispose: “Dalle tue stesse parole ti giudico, servo malvagio! Sapevi che sono un uomo severo, che prendo quello che non ho messo in deposito e mieto quello che non ho seminato: perché allora non hai consegnato il mio denaro a una banca? Al mio ritorno l’avrei riscosso con gli interessi”.
Disse poi ai presenti: “Toglietegli la moneta d’oro e datela a colui che ne ha dieci”. Gli risposero: “Signore, ne ha già dieci!”. “Io vi dico: A chi ha, sarà dato; invece a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha. E quei miei nemici, che non volevano che io diventassi loro re, conduceteli qui e uccideteli davanti a me”».
Dette queste cose, Gesù camminava davanti a tutti salendo verso Gerusalemme.
Parola del Signore
 
Un uomo partendo... - Decodificare il testo evangelico è molto facile. I talenti non sono le buone qualità o le virtù dei credenti, ma i beni, «i misteri del Regno» (Mt 13,11), che il padrone dà da amministrare ai suoi servi secondo le loro capacità. L’«uomo» è Cristo che, ormai prossimo alla morte, lascia agli Apostoli, e quindi alla Chiesa, il suo patrimonio per riscuotere, al suo ritorno, i frutti prodotti dalla operosità di ciascuno. Il ritorno non è soltanto quello ultimo della fine dei tempi, ma anche quello del rendiconto individuale alla morte di ciascun discepolo. Al ritorno del padrone, dopo la resa dei conti, il giudizio divino sarà senza sconti. I servi sono i cristiani, in modo particolare quelli che hanno compiti di responsabilità nella comunità cristiana, o tutti gli uomini di buona volontà chiamati a lavorare indefessamente per la crescita del Regno di Dio. I servi devono attendere il ritorno del Signore trafficando i talenti ricevuti e il premio della fedeltà consisterà in un incarico di maggiore responsabilità. L’ammissione nella gioia del Signore significa che il servo entrerà in una perfetta comunione di vita con il suo padrone.
Il padrone non dà comandi, lascia tutto il suo patrimonio alla libera iniziativa dei servi, «secondo le capacità di ciascuno». Il Signore Dio nel consegnare agli uomini i suoi beni non li costringe ad operare secondo schemi già prestabiliti, ma li lascia liberi di trovare i modi per metterli in pratica, per trafficarli, per incrementarli. Così per quel bene grande e prezioso che è la sua Parola. Affidata come inviolabile deposito alla Chiesa è custodita quando è trafficata, cioè messa in pratica; quando viene annunciata senza timore, con grande franchezza e non quando se ne fa un tesoro nascosto.
Come risulta chiaramente dal testo, tutta la parabola si concentra sul comportamento del terzo servo: quello che nasconde il talento sotto terra e per questo viene rimproverato e condannato dal padrone. Trafficare i talenti comporta dei rischi, il rischio di bruciare in operazioni commerciali tutto il patrimonio ricevuto in affidamento, ma vi è la possibilità di accrescerlo. Con i doni di Dio bisogna rischiare. Il servo infingardo non ha perso nulla, ma non ha guadagnato nulla. Poteva depositarlo in banca e ritirare a tempo debito gli interessi. Una precauzione che l’avrebbe messo al riparo dall’ira del suo padrone. Il fatto paradossale del servo pigro che viene spogliato dell’unico talento e dato a chi ne aveva dieci «indica che i poteri conferiti ai discepoli aumentano quando sono esercitati bene e diminuiscono quando non lo sono. Il castigo per questo tipo di infedeltà è severo quanto quello inflitto per mancanze più positive; è l’espulsione nelle tenebre esteriori» (John L. MacKenzie).
La «parabola dei talenti» sembra suggerire che la non risposta ai doni di Dio sia dettata dalla paura. È come se l’uomo avesse paura di Dio. Come, in un Giardino, si era nascosto dietro una siepe perché si era scoperto nudo, così, ora, nasconde sotto terra i semi della salvezza: «Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo» (Mt 25,24-25). Ma forse nasconde i doni di Dio sotto terra perché non diventino Parole di Dio che possano parlare al suo cuore, alla sua mente e sopra tutto alla sua coscienza.
La possibilità che il seme diventi Parola di Dio ha scatenato nel servo infingardo, tardo di mente e di cuore, la paura, la paura di Dio. Così, la paura ha finito per paralizzare, complessare, bloccare il servo malvagio. La paura della reazione del padrone esigente ha ucciso la sua semplicità, la sua purezza, la sua creatività... un vero e proprio suicidio: «... gettate le monete d’argento nel tempio, si allontanò e andò ad impiccarsi» (Mt 27,5). La paura ha impedito al servo dell’unico talento di fare il calcolo delle probabilità e lo ha bloccato nell’immobilismo fissandolo per sempre in una eternità buia senza luce, salato col fuoco (Cf. Mc 9,49), dov’è pianto e stridore di denti.
 
Signore, ecco la tua moneta d’oro, che ho tenuto nascosta in un fazzoletto; avevo paura di te, che sei un uomo severo: prendi quello che non hai messo in deposito e mieti quello che non hai seminato - Lino Pedron: Le amare osservazioni che il servo malvagio e fannullone fa contro il suo padrone sono la manifestazione della sua cattiva coscienza. Il Signore viene accusato di essere un padrone crudele, un trafficante ingordo, un egoista senza riguardo per nessuno. Secondo queste parole sarebbe stato proprio il Signore a togliere ogni coraggio e a mettere addosso al suo servo un tale terrore paralizzante.
Quello che il Signore domanda è fedeltà nell’amministrazione, attività coraggiosa, lavoro oculato. Per questo non è concepibile un’attesa inoperosa e piena di paura. Il capitale che ci ha dato non serve per arricchire davanti agli uomini, ma davanti a Dio; farlo fruttare non significa accumulare con avidità, ma dare con generosità (cfr Lc 12,13ss; 16,1ss). Questa parabola illustra la scelta giusta operata da Zaccheo: ha fatto fruttare i suoi averi dandoli ai poveri. Il vero guadagno che ci arricchisce davanti a Dio (cfr Lc 12,21) consiste nel donare. È l’unico modo di investire; ci dà il nostro vero tesoro (cfr Lc 12,33) e ci procura amici che ci accolgano nelle dimore eterne (cfr Lc 16,9). La salvezza è un premio e come tale è insieme dono e conquista, incontro tra la benevolenza di Dio e la libertà dell’uomo. Il premio è sproporzionato al merito, come una città rispetto a una “mina”. Una “mina” greca d’argento corrispondeva allo stipendio di trecento giornate lavorative.
Fuori parabola, Dio ci dona “molto più di quanto possiamo domandare o sperare” (Ef 3,20): ci dona se stesso. Tutto è dono suo, noi stessi e le nostre azioni.
 
Girolamo, In Matth. IV, 22, 14-30: «Servo malvagio e infingardo, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e che raccolgo dove non ho sparso; potevi dunque mettere il mio denaro in mano ai banchieri, e al ritorno io avrei ritirato il mio con l’interesse. Toglietegli perciò il talento e datelo a colui che ne ha dieci» (Mt 25,26-28). Quanto credeva di aver detto in sua difesa, si muta invece in condanna. E il servo è chiamato malvagio, perché ha calunniato il padrone; è detto pigro, perché non ha voluto raddoppiare il talento: perciò è condannato prima come superbo e poi come negligente. Se - dice in sostanza il Signore - sapevi che io son duro e crudele e che desidero le cose altrui, tanto che mieto dove non ho seminato, perché questo pensiero non ti ha istillato timore tanto da farti capire che io ti avrei richiesto puntualmente ciò che era mio, e da spingerti a dare ai banchieri il denaro e l’argento che ti avevo affidato? L’una e l’altra cosa significa infatti la parola greca arghyrion. Sta scritto: “La parola del Signore è parola pura, argento affinato nel fuoco, temprato nella terra, purificato sette volte” (Sal 12,7). Il denaro e l’argento sono la predicazione del Vangelo e la parola divina, che deve essere data ai banchieri e agli usurai, cioè o agli altri dottori (come fecero gli apostoli, ordinando in ogni provincia presbiteri e vescovi), oppure a tutti i credenti, che possono raddoppiarla e restituirla con l’interesse, in quanto compiono con le opere ciò che hanno appreso dalla parola. A questo servo viene pertanto tolto il talento e viene dato a quello che ne ha fatto dieci affinché comprendiamo che - sebbene uguale sia la gioia dei Signore per la fatica di ciascuno dei due, cioè di quello che ha raddoppiato i cinque talenti e di quello che ne ha raddoppiato due - maggiore è il premio che si deve a colui che più ha trafficato col denaro del padrone. Per questo l’Apostolo dice: “Onora i presbiteri, quelli che sono veramente presbiteri, e soprattutto coloro che s’affaticano nella parola di Dio” (1Tm 5,17). E da quanto osa dire il servo malvagio: «Mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso», comprendiamo che il Signore accetta anche la vita onesta dei pagani e dei filosofi, e che in un modo accoglie coloro che hanno agito giustamente e in un altro coloro che hanno agito ingiustamente, e che infine, paragonandoli con quelli che hanno seguito la legge naturale, vengono condannati coloro che violano la legge scritta.
 
Il Santo del Giorno - 16 Novembre 2024 - Santa Elisabetta della Santissima Trinità. È l’amore ciò che resterà alla fine, quando non saremo altro che luce: Cosa resta «alla sera della vita»? L’amore, la luce, il bene coltivato nel cuore, nei gesti e nelle parole, le carezze a cui affidiamo il «tocco di Dio» verso chi si sente perso e cerca accoglienza. Perché alla fine il nostro cammino è un itinerario che ci rende luce, se siamo capaci di seguirlo. Anche se attraverso la sofferenza e la malattia, quella di santa Elisabetta della Trinità, al secolo Elisabetta Catez, fu una profonda esperienza di luce, la stessa a cui è chiamato ogni battezzato. Era nata nel campo militare di Avor presso Bourges in Francia il 18 luglio 1880, trasferendosi poi a Digione con la famiglia; rimase orfana di padre a sette anni. Il 19 aprile 1890 ricevette la Prima Comunione, l’anno dopo la Cresima, coltivando il sogno della consacrazione fin da giovane: nel 1894 pronunciò un voto privato di castità. Solo alla maggiore età, però, la madre, che da vedova sperava di vedere la figlia sposata, le permise di entrare nel Carmelo: era il 2 agosto 1901. L’11 gennaio 1903 fece la professione religiosa, appena poco prima di scoprire di avere il morbo di Addison. Nonostante le sofferenze provocate dalla malattia, Elisabetta visse questo suo Calvario nella totale fiducia in Dio, nella certezza di essere immersa nella vita della Trinità. «O mio Dio, Trinità che adoro» era la sua invocazione. Morì a 26 anni il 9 novembre 1906: «Vado alla luce, all’amore, alla vita», furono le sue ultime parole. È santa dal 16 ottobre 2016. (Avvenire)
 
Nutriti da questo sacramento,
ti preghiamo umilmente, o Padre:
la celebrazione che il tuo Figlio
ha comandato di fare in sua memoria,
ci faccia crescere nell’amore.
Per Cristo nostro Signore.
 
19 Novembre 2024
 
MARTEDÌ DELLA XXXIII SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO
 
Ap 3,1-6.4-22; Salmo Responsoriale Dal Salmo 14 (15); Lc 19,1-10
 
Colletta
Il tuo aiuto, Signore Dio nostro,
ci renda sempre lieti nel tuo servizio,
perché solo nella dedizione a te, fonte di ogni bene,
possiamo avere felicità piena e duratura.
Per il nostro Signore Gesù Cristo. 
 
Papa Francesco (Angelus 3 Novembre 2019): Il Vangelo di oggi (cfr Lc 19,1-10) ci pone al seguito di Gesù che, nel suo cammino verso Gerusalemme, fa tappa a Gerico. C’era tanta folla ad accoglierlo, tra cui un uomo di nome Zaccheo, capo dei “pubblicani”, cioè di quei giudei che riscuotevano le tasse per conto dell’impero romano. Egli era ricco non grazie a un onesto guadagno, ma perché chiedeva la “tangente”, e questo aumentava il disprezzo verso di lui. Zaccheo «cercava di vedere chi era Gesù» (v. 3); non voleva incontrarlo, ma era curioso: voleva vedere quel personaggio di cui aveva sentito dire cose straordinarie. Era curioso. Ed essendo basso di statura, «per riuscire a vederlo» (v. 4) sale su un albero. Quando Gesù arriva lì vicino, alza lo sguardo e lo vede (cfr v. 5).
E questo è importante: il primo sguardo non è di Zaccheo, ma di Gesù, che tra tanti volti che lo circondavano - la folla -, cerca proprio quello. Lo sguardo misericordioso del Signore ci raggiunge prima che noi stessi ci rendiamo conto di averne bisogno per essere salvati. E con questo sguardo del divino Maestro comincia il miracolo della conversione del peccatore. Infatti Gesù lo chiama, e lo chiama per nome: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua» (v. 5). Non lo rimprovera, non gli fa una “predica”; gli dice che deve andare da lui: “deve”, perché è la volontà del Padre. Nonostante le mormorazioni della gente, Gesù sceglie di fermarsi a casa di quel pubblico peccatore.
Anche noi saremmo rimasti scandalizzati da questo comportamento di Gesù. Ma il disprezzo e la chiusura verso il peccatore non fanno che isolarlo e indurirlo nel male che compie contro sé stesso e contro la comunità.
Invece Dio condanna il peccato, ma cerca di salvare il peccatore, lo va a cercare per riportarlo sulla retta via.
Chi non si è mai sentito cercato dalla misericordia di Dio, fa fatica a cogliere la straordinaria grandezza dei gesti e delle parole con cui Gesù si accosta a Zaccheo.
L’accoglienza e l’attenzione di Gesù nei suoi confronti portano quell’uomo a un netto cambiamento di mentalità: in un attimo si rende conto di quanto è meschina una vita tutta presa dal denaro, a costo di rubare agli altri e di ricevere il loro disprezzo. Avere il Signore lì, a casa sua, gli fa vedere tutto con occhi diversi, anche con un po’ della tenerezza con cui Gesù ha guardato lui. E cambia anche il suo modo di vedere e di usare il denaro: al gesto dell’arraffare si sostituisce quello del donare. Infatti, decide di dare la metà di ciò che possiede ai poveri e di restituire il quadruplo a quanti ha rubato (cfr v. 8). Zaccheo scopre da Gesù che è possibile amare gratuitamente: finora era avaro, adesso diventa generoso; aveva il gusto di ammassare, ora gioisce nel distribuire. Incontrando l’Amore, scoprendo di essere amato nonostante i suoi peccati, diventa capace di amare gli altri, facendo del denaro un segno di solidarietà e di comunione.
La Vergine Maria ci ottenga la grazia di sentire sempre su di noi lo sguardo misericordioso di Gesù, per andare incontro con misericordia a quelli che hanno sbagliato, perché anche loro possano accogliere Gesù, il quale «è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto» (v. 10).
 
I Lettura - Bibbia per la formazione cristiana: Lettera alla chiesa di Sardi: Il Cristo, che possiede lo Spirito santo ed esercita un potere sovrano su tutte le chiese (le sette stelle), invia ai cristiani di Sardi un messaggio privo di qualsiasi parola di lode. Nonostante la sua fama e la sua attività, questa chiesa è quasi completamente morta. Deve vegliare per non essere sorpresa dalle forze del male. Deve convertirsi senza indugio, altrimenti il Cristo verrà «come un ladro» e la sua visita sarà un castigo. Non tutti i cristiani di Sardi sono stati infedeli. Alcuni non hanno ceduto alla tentazione e non hanno imitato le abitudini dei pagani. Costoro riceveranno vesti bianche (segno di vittoria e di gioia). I loro nomi saranno scritti nel libro della vita.
 
Vangelo
Il Figlio dell’uomo era venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto.

La vicenda di Zaccheo ha fatto scorrere fiumi di inchiostro. L’ansia di vedere Gesù, la prontezza nell’accoglierlo nella sua dimora, la conversione, e il desiderio di riparare alle sue ruberie, superando anche il tetto previsto dalla Legge. Fin qui la sua storia, ma di lui, dopo la conversione, non si sa nulla. Cosa ha fatto dopo? Ha mantenuto gli impegni assunti dinanzi a Gesù e a una città? Nulla. La conversione lo ha accompagnato fino alla morte? Nulla, nessuna notizia postuma. Il bel finale sarebbe stato se Luca avesse raccontato un “po’ di vita” di quest’uomo dopo la conversione. A motivo del silenzio, siamo costretti a fantasticare, così lo possiamo immaginare “cristiano”, e forse presbitero o episcopo, oppure fondatore di comunità cristiane, perfino compagno di Pietro o di Paolo, magari un po’ defilato, e, infine, martire. Ma sono solo fantasie. Il vero messaggio non sta nella conversione di Zaccheo, avvezzo a maneggiare denaro e a rubare, ma sta nel dopo. Sta nella vita nascosta, nella “vita nascosta” in Dio, nel bene silenzioso che viaggia veloce come i fiumi sottoterra, nel silenzio sulle imprese che è sigillo di umiltà, nel riparare i propri errori, nel mettere fine a una vita peccaminosa e malvagia, sempre nel silenzio, senza proclami o manifesti. Ebbene se c’è tutto questo nella nostra povera vita, allora abbiamo accolto sul serio Gesù nella nostra casa, e la nostra conversione è veramente sincera, e assai robusta tanto da resistere alla tentazione di mettere la nostra “vita cristiana” sotto i riflettori del mondo, per ricevere ovazioni, premi, coppe e quant’altro. Solo la vita “nascosta in Dio” autentica la nostra conversione. E allora possiamo continuare a fantasticare, e a pensare che Zaccheo abbia concluso la sua vita “nascosto in Dio”, facendo tanto bene, sopratutto ai poveri.
 
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 19,1-10
 
In quel tempo, Gesù entrò nella città di Gèrico e la stava attraversando, quand’ecco un uomo, di nome Zacchèo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura. Allora corse avanti e, per riuscire a vederlo, salì su un sicomòro, perché doveva passare di là.
Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: «Zacchèo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». Scese in fretta e lo accolse pieno di gioia. Vedendo ciò, tutti mormoravano: «È entrato in casa di un peccatore!».
Ma Zacchèo, alzatosi, disse al Signore: «Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto».
Gesù gli rispose: «Oggi per questa casa è venuta la salvezza, perché anch’egli è figlio di Abramo. Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto».
 
Oggi la salvezza è entrata in questa casa - Javer Pikaza (Commento della Bibbia Liturgica): Per comprendere il vangelo che ci parla di Zaccheo, è necessario considerare prima alcuni particolari: a) il cieco guarito durante il viaggio è povero e non deve lasciare nessun bene esteriore quando decide di seguire Gesù (18,35-43). Ebbene, se il convertito è un ricco, come si dovrà comportare con i suoi beni? b) Sappiamo che i pubblicani han ricevuto il perdono di Gesù. Che cosa ha comportato questo perdono riguardo alla loro fortuna mal acquistata? A queste due domande risponde la scena di Zaccheo, nella quale scopriamo quello che la grazia di Gesù esige dall’uomo ricco.
Come capo dei pubblicani, Zaccheo è ricco e non si dà pensiero degli altri. Però, un giorno prova la curiosità di sapere chi è Gesù e si porta sulla strada che egli deve percorrere. Gesù lo vede e, andando contro tutte le regole d’urbanità del mondo, gli chiede d’invitarlo a pranzo a casa sua. Gesù non ha bisogno che lo cerchino: ha visto l’infelicità di quell’uomo. gli va incontro e lo chiama.
Zaccheo si dà subito da fare per accoglierlo.
Allora Zaccheo scopre che accettare Gesù - ricevere il dono di Dio - comporta un cambiamento di atteggiamento e di condotta. Non bastano i desideri: è necessario cercare di metterli in pratica. «Do la metà dei miei beni ai poveri; e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto», Zaccheo sta imparando; ha saputo ascoltare la parola che Gesù gli ha portata e si trasforma. Gesù commenta: «Oggi la salvezza è entrata in questa casa».
Tenendo conto di questo, preciseremo il valore della scena in tre sommarie conclusioni.
a) La salvezza di Dio comporta una risposta umana.
Senza il gesto di Zaccheo che cambia dentro (diviene trasparente di fronte alla grazia che Gesù gli offre), tutto il dono di Dio, l’invito di Gesù e il pranzo sarebbero stati inutili.
b) Zaccheo non agì da solo: l’invito era suo e di tutta la casa (tutta la sua famiglia). Il gesto di giustizia e di disinteresse che egli compie si ripercuote direttamente su quelli che vivono al suo fianco. Per questo. precisando il contenuto del suo gesto, Gesù dichiara: «Oggi la salvezza è entrata in questa casa». Questo ci permette di fare alcune annotazioni che stimiamo importanti: Zaccheo ha dato alla sua famiglia il meglio che le potesse dare, il senso della giustizia, l’onestà umana, un amore aperto verso gli altri. Anche se possiamo supporre che i suoi figli abbiano perduto qualche vantaggio economico, dobbiamo ammettere che Zaccheo ha lasciato loro la migliore delle eredità. Per questo si può dire che, in quella casa (in quella famiglia), è entrata la salvezza di Dio e si trova in essa Gesù stesso. In senso più generale e alquanto accomodatizio, potremmo aggiungere che è vera casa di Gesù quella in cui il padre (e la famiglia nell’insieme) adempie quell’esigenza che è rappresentata e riassunta in Zaccheo, il vecchio pubblicano.
c) La salvezza cristiana comporta alcune conseguenze sociali ed economiche. Forse, Zaccheo dovette lasciare il suo vecchio mestiere, perdette certamente una parte del suo denaro, ma trovò la giustizia (restituzione) e l’amore (distribuzione dei suoi beni). Da un punto di vista autenticamente umano, quello che ha guadagnato vale assai più che quello che ha perso. Sarebbe ingenuo voler trasferire ai nostri giorni i particolari della conversione di Zaccheo: è diversa la situazione sociale e sono diversi i tempi. Possiamo però assicurare che, dove il messaggio di Gesù non si ripercuote sul modo di impiegare i beni, ha perso tutta la sua esigenza e tutta la sua carica.
 
Salvezza -  Nei Vangeli sinottici - Bruno Ramazzotti e Giuseppe Barbaglio (Salvezza in Schede Bibliche Pastorali Vol. VII): La salvezza è talvolta intesa come liberazione dai pericoli che minacciano la vita. Significativa appare qui l’invocazione dei discepoli che stanno per essere travolti dalle onde tempestose del lago di Galilea: «Salvaci, Signore, siamo perduti!» (Mt 8,25; cf. anche il passo parallelo 14,30 in cui è Pietro che invoca l’intervento di Cristo). Si tratta, in realtà, del grido d’aiuto dei credenti della chiesa matteana confrontati con pericoli incombenti, in particolare con la persecuzione. Nel passato degli apostoli infatti Matteo rilegge la storia della chiesa.
Sempre Matteo, nel vangelo d’infanzia, si preoccupa di presentare l’etimologia del nome di Gesù: «Egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati» (1,21), dove nel vocabolo «popolo» si deve intendere con tutta probabilità la chiesa.
Il concetto di salvezza ha dunque un vasto campo di applicazione; esso va dalla guarigione di mali fisici (Mt 9,21-22 e par.; Me 5,28; 6,56; 10,52; Le 17,19) al rinnovamento spirituale testimoniato dal racconto lucano della peccatrice a cui Gesù dice: «La tua fede ti ha salvata; va’ in pace!» (7,50) e da da un detto del Signore conservatoci sempre da Luca: «Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto» (19,10). Si noti qui il contesto del racconto di Zaccheo che Luca conclude con le parole del Maestro al pubblicano: «Oggi la salvezza è entrata in questa casa, perché anch’egli è figlio di Abramo» (19,9).
Nel discorso apocalittico poi Marco e Matteo ci hanno trasmesso un detto caratteristico del genere letterario particolare del contesto: «Voi sarete odiati da tutti a causa del mio nome, ma chi avrà perseverato sino alla fine sarà salvato» (Me 13,13; cf. Mt 24,13; cf. anche Mt 10,22). Qui si tratta evidentemente della salvezza finale ed escatologica. In questa prospettiva si deve ancora citare l’interrogativo dei discepoli e la risposta di Cristo a proposito della discussione sorta dopo il rifiuto dell’uomo ricco di seguire Gesù: «Chi si potrà dunque salvare?... Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile» (Mt 19,25-26 e par.). Alla salvezza escatologica si riferisce anche un detto incentrato sul duplice significato, fisico e spirituale, di vita: «Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà» (Mc 8,35 e par.).
 
Zaccheo: il buon uso delle ricchezze: «“Ed ecco un uomo di nome Zaccheo” [Lc 19,2]. Zaccheo è sul sicomoro, il cieco è sulla strada. Il Signore ha pietà dell’uno e lo aspetta; nobilita l’altro, onorandolo di una sua visita. Interroga il cieco per guarirlo; si invita a casa di Zaccheo senza essere invitato: sapeva infatti che il suo ospite sarebbe stato largamente ricompensato, e se non gli aveva sentito proferire l’invito con la voce, ne aveva tuttavia sentito il desiderio di farlo... Ritorniamo ora nelle grazie dei ricchi: non vogliamo offenderli, in quanto desideriamo, se possibile, guarirli tutti. Altrimenti, impressionati dalla parabola del cammello, e lasciati da parte, nella persona di Zaccheo, prima di quando converrebbe, essi avrebbero un giusto motivo per ritenersi ingiuriati. Essi debbono apprendere che non c’è colpa nell’essere ricchi, ma nel non sapere usare delle ricchezze: le ricchezze, che nei malvagi ostacolano la bontà, nei buoni debbono costituire un incentivo alla virtù. Ecco, qui il ricco Zaccheo è scelto da Cristo: ma donando egli la metà dei suoi beni ai poveri, restituendo fino a quattro volte quanto aveva fraudolentemente rubato. Fare soltanto la prima di queste due cose non sarebbe stato sufficiente, poiché la generosità non conta niente, se permane l’ingiustizia: il Signore poi chiede che si doni, non che si restituisca semplicemente ciò che si è rubato. Zaccheo compie ambedue le cose, e perciò riceve una ricompensa molto più abbondante di quanto ha donato. Opportunamente si fa rilevare che costui è il “capo dei pubblicani” [Lc 19,2]: chi allora potrà disperare della salvezza, quando si è salvato anche colui che traeva il suo guadagno dalla frode? “Ed era ricco”, sta scritto [Lc 19,2], affinché impari che non tutti i ricchi sono avari.» (Ambrogio, In Luc., 8, 82.84-90).
 
Il Santo del Giorno - 19 Novembre 2024 - Sant’Abdia. La costruzione della giustizia inizia condividendo il dolore: La giustizia si costruisce partecipando al dolore del fratello, non traendo soddisfazione dalla sua situazione: «Non guardare con gioia al giorno di tuo fratello, al giorno della sua sventura», è infatti, il monito che giunge dall’Antico Testamento attraverso il libro più breve, i 21 versetti del profeta Abdia. Il messaggio è chiaro e mette in guardia coloro che approfittano della debolezza del prossimo per trarne un vantaggio: l’ingiustizia che compiono sarà la loro stessa condanna e rimarrà un segno indelebile. La voce di Abdia, profeta vissuto nel VI secolo a.C., si levò dopo la conquista di Gerusalemme per condannare coloro, in particolare gli Edomiti, abitanti dell’Idumea, che avevano ferito Israele proprio nel momento più vulnerabile, quando cioè aveva subito l’invasione, la devastazione e la deportazione a Babilonia. Ma l’intenzione del profeta non era di augurare una vendetta, quanto annunciare un Dio che si fa carico delle sofferenze di coloro che subiscono iniquità e prepotenze per mano di chi si approfitta della loro debolezza. Israele, che secondo Abdia regnerà ben oltre i suoi antichi confini, è l’immagine di un popolo, quello dei giusti, che alla fine avrà la meglio sui malvagi e su quanti agiscono per difendere solo i propri interessi: essi, infatti, «possederanno Canaan fino a Sarepta» e «saliranno vittoriosi sul monte di Sion, per governare il monte di Esaù, e il regno sarà del Signore».  (Avvenire)
 
Nutriti da questo sacramento,
ti preghiamo umilmente, o Padre:
la celebrazione che il tuo Figlio
ha comandato di fare in sua memoria,
ci faccia crescere nell’amore.
Per Cristo nostro Signore.
 
18 Novembre 2024
 
Lunedì XXXIII Settimana Tempo Ordinario
 
Ap 1,1-5a; 2,1-5a; Salmo Responsoriale Dal Salmo 1; Lc 18,35-43
 
Colletta
Il tuo aiuto, Signore Dio nostro,
ci renda sempre lieti nel tuo servizio,
perché solo nella dedizione a te, fonte di ogni bene,
possiamo avere felicità piena e duratura.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Il dono della vista: Giovanni Paolo II (Insegnamenti, 5 maggio 1986): ...  il dono della vista è per l’uomo uno dei beni più preziosi. Gli permette di contemplare direttamente le bellezze della natura e di comunicare con le persone la cui anima si riflette sul viso e nello sguardo. Facilita, per mezzo della lettura, la partecipazione alla cultura che si esprime in gran parte nei libri e negli scritti di ogni specie, come anche i mezzi audiovisivi sempre più diffusi. Fornisce più ampi spazi all’autonomia personale e favorisce un inserimento normale nella vita della famiglia professionale e sociale. Come negli altri campi della salute coloro che non hanno problemi di vista non si rendono sufficientemente conto di questo dono inaudito. Si comprende la sofferenza di coloro che sono danneggiati e minacciati in un organo così importante, il loro desiderio di trovare rimedio, una protezione, la speranza con la quale si rivolgono a coloro che possono dar loro un aiuto, un sollievo: la gioia e la riconoscenza con le quali accolgono i benefici che la scienza e la vostra arte sono in grado di offrire loro. E voi capite meglio degli altri la richiesta di coloro che temono una diminuzione o la perdita della possibilità di vedere, o che ne soffrono già; voi siete invitati a condividere la loro angoscia e le loro speranze. Questa situazione vi avvicina a quella che Cristo ha vissuto e sentito sulle strade della Palestina dove i ciechi erano numerosi. A volte ha udito il loro grido pieno di fiducia, come quello del cieco di Gerico: “Signore, fa’ che io riabbia la vista” (Lc 18,41). E Gesù si è fermato davanti a questo sconforto dandogli la guarigione con il potere che Dio Padre gli aveva dato come Figlio unico. Gesù ha chiesto agli uomini di fermarsi così davanti allo sconforto del prossimo o piuttosto di farsi prossimo attento ed efficace. È il senso della parabola del buon samaritano: a differenza del prete e del levita egli vede in tutta la verità l’uomo che giace ferito, solo, abbandonato sul ciglio della strada (cfr. Lc 10,30-37); riconoscendolo come un uomo nel bisogno, lo cura con tutti i poveri mezzi a sua disposizione, gli permette di riprendere una vita normale. E nel giorno del giudizio, Cristo riconoscerà come suoi discepoli coloro che avranno saputo accogliere e soccorrere i loro fratelli nel bisogno, specialmente i loro fratelli ammalati (cfr. Mt 24,36).
 
Prima Lettura:  Gesù è il testimone fedele e la rivelazione è pronunziata nel suo nome. La rivelazione non è in “relazione con un infinito temporale, perché «il tempo è vicino». Questo vuol dire che il contenuto della profezia tocca la società nella quale si muove il profeta e i membri della comunità alla quale è indirizzata la denunzia” (José Maria Gonzalez-Ruiz). La prima lettera è inviata all’angelo della Chiesa che è a Èfeso, il quale ha molti meriti ma ha abbandonato il suo primo amore. È necessario quindi che ricordi da dove è caduto, convertirsi e compiere le opere di prima.
 
Vangelo
 Che cosa vuoi che io faccia per te? Signore, che io veda di nuovo!
 
Gerico è una città della Cisgiordania, posta in prossimità del fiume Giordano. Considerata la più antica città fortificata al mondo, Gerico evoca lutti, guerre e prodigi operati da Dio per la sua conquista. Basti pensare alla sua espugnazione miracolosa da parte di Giosuè quando Israele, dopo l’uscita «a mano alzata dall’Egitto» (Es 14,8), incominciò a conquistare la terra promessa (cf. Gs 6,1-16).
Il miracolo della guarigione del cieco di Gerico è raccontato anche da Matteo, ma ad essere guariti sono due cechi (Mt 20,19-34), e poi lo si trova nel vangelo di Marco, e qui il cieco viene chiamato Bartimeo, figlio di Timeo (10,46-52). La guarigione del cieco sulla strada di Gerico segna anche una svolta: Gesù non cerca più di mantenere il segreto della sua identità. Accetta di essere chiamato Figlio di Davide e in seguito all’ingresso in Gerusalemme si designerà apertamente come il Messia. La sequela del cieco diventa il prototipo di ogni discepolato: solo la luce della grazia riesce a far sentire all’uomo la presenza di Gesù. Solo il Dio salvatore dell’uomo e la grazia muovono l’uomo a invocare l’intervento liberatore di Dio, l’uomo, a tanta condiscendenza divina, può rispondere all’amore salvifico di Dio solo con la fede.
 
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 18,35-43
 
Mentre Gesù si avvicinava a Gèrico, un cieco era seduto lungo la strada a mendicare. Sentendo passare la gente, domandò che cosa accadesse. Gli annunciarono: «Passa Gesù, il Nazareno!».
Allora gridò dicendo: «Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me!». Quelli che camminavano avanti lo rimproveravano perché tacesse; ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!».
Gesù allora si fermò e ordinò che lo conducessero da lui. Quando fu vicino, gli domandò: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». Egli rispose: «Signore, che io veda di nuovo!». E Gesù gli disse: «Abbi di nuovo la vista!
La tua fede ti ha salvato».
Subito ci vide di nuovo e cominciò a seguirlo glorificando Dio. E tutto il popolo, vedendo, diede lode a Dio.
 
Parola del Signore.
 
Dell’uomo che mendicava non sappiamo se era cieco dalla nascita, ma il fatto che l’evangelista Marco ne fornisca il nome potrebbe significare che probabilmente era conosciuto nell’ambiente della primitiva comunità cristiana.
Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me! Il titolo Figlio di Davide è un titolo messianico, ma non è facile intuire che eco avesse sulla bocca e nel cuore dell’uomo cieco. In ogni caso, il grido dell’uomo cieco era un appello di aiuto. Essere guariti dalla cecità non stava a significare soltanto la liberazione dalla schiavitù della mendicità, ma un reale ritorno alla vita assaporandone tutti i colori. I soliti tetragoni tutori dell’ordine cercano di farlo tacere, ma il cieco consapevole della posta in gioco non si fa intimorire ed alza la voce gridando più forte. Gesù si ferma e ordina in modo perentorio di chiamarlo. Solo ora i guardiani dell’ordine, all’imprevisto annuncio messianico di un cieco, comprendono la vera identità di Gesù e sulle loro labbra finalmente fiorisce una parola di speranza: «Coraggio! Alzati, ti chiama».
Gesù prende l’iniziativa anche se è scontata la richiesta. Il miracolo è subitaneo. È da notare che Gesù non chiede la fede, ma ne sottolinea il possesso da parte dell’uomo cieco: «Va’, la tua fede ti ha salvato». Quello che sfugge ai più, non sfugge al Figlio di Dio. Sa scovare in quella richiesta tutta la fede necessaria per ottenere il dono della vista.
D’altronde Gesù dal Padre è stato mandato nel mondo «a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l’anno di grazia del Signore» (Lc 4,18-19).
Il racconto si conclude sottolineando le manifestazioni di gioia da parte del miracolato (cf. At 3,8) e lo stupore della folla: Subito ci vide di nuovo e cominciò a seguirlo glorificando Dio. E tutto il popolo, vedendo, diede lode a Dio.
La nota, cominciò a seguirlo sta a indicare che in atto un cammino di conversione. Gesù è la Luce del mondo (cf. Gv 8,12) ed è venuto per dare la vista ai ciechi (cf. Gv 9,39), ma è anche la Via (cf. Gv 14,6) che conduce a salvezza. Così qui viene proposto quell’interiore cammino che ogni uomo deve compiere per porsi alla sequela di Gesù Nazareno: pentirsi dei propri peccati, farsi illuminare da Cristo (immergersi nelle acque salutari del Battesimo), prendere ogni giorno sulle spalle la croce del Maestro e seguirlo (cf. Lc 9,23).
È la proposta che risuonerà nella città di Gerusalemme il mattino di Pentecoste: all’udire la predicazione degli Undici molti «si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: “Che cosa dobbiamo fare, fratelli?”. E Pietro disse loro: “Convertitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per il perdono dei vostri peccati, e riceverete il dono dello Spirito Santo”» (At 2,37-38).
 
Subito ci vide di nuovo … - Silvano Fausti (Una comunità legge il Vangelo di Luca): Il cieco viene guarito per vedere il Volto. Dalla trasfigurazione in poi è il tema dominante di tutto il Vangelo che culmina nella visione (= theoria: 23,48) del Crocifisso offerta a tutti. Questa è la salvezza dell’uomo, che torna a essere se stesso, riflesso di quella Gloria di cui è immagine e somiglianza. Dove giunge la luce, figlia primigenia di Dio, cessa il caos e inizia il mondo nuovo. Il centro di questo brano è il nome di Gesù, luce del mondo (Gv 8,12), la cui invocazione mette in comunione con lui. Vedere lui è il dono della «sublimità della conoscenza» del Maestro buono come l’unico buono. Ciò rende possibile l’impossibile: trasforma il notabile ricco in Zaccheo, vero figlio di Abramo, che ospita la benedizione promessa.
Il cieco chiama Gesù per none. Chiamare per nome significa avere un rapporto personale di conoscenza e di amore, da amico ad amico. È quanto avviene nel battesimo, che ci unisce a lui. Chiamando lui per nome, abbiamo il nostro vero nome di creature nuove. In lui la nostra miseria trova il volto di Dio che è misericordia di Padre verso il Figliò. Accogliamo così la rivelazione del Nome.
Un cieco non può scorgere neanche il lampo di una folgore. Come può l’uomo vedere la Gloria nell’umiliazione del Figlio dell’uomo, compimento delle Scritture?
I nostri occhi, tre volte ciechi davanti ad essa (v. 34), devono essere guariti. La cecità è l’estremo rifugio del peccato come fuga da Dio. Il bimbo chiude gli occhi e crede di non essere visto! È vero che cessa di vedere, ma non di essere visto. Colui che ha creato la luce, che anzi è la Luce, ora apre l’occhio perché possa contemplarla. Il battesimo ci dà un’illuminazione reale su Dio, che rimane però nel centro del cuore, come un fuoco sepolto sotto la cenere della menzogna antica. Viene ravvivato dallo Spirito, mediante il ricordo costante della Parola, la liturgia e la preghiera del Nome.
 
La medicina ai tempi di Gesù - Ralph Gower (Usi e Costumi dei tempi della Bibbia): Ai tempi di Gesù vi era un atteggiamento incerto nei confronti della medicina. Marco 1,32-34 sembra indicare che la malattia costituiva un grosso problema. Le malattie includevano la lebbra, affezioni derivanti da abitudini alimentari e dall’inquinamento (dissenteria, colera, tifo, beri-beri, idropisia), cecità (per il clima polveroso), sordità e malattie della deambulazione. Se ne trovano accenni in 2 Samuele 12,15; 1 Re 17,17; 2 Re 4,20; 5,1-14; Daniele 4,30. Quando venivano a trovarsi davanti a uno di questi casi, gli Ebrei erano ancora piuttosto dubbiosi nei confronti dei medici.
Essi credevano che tra malattia e peccato vi fosse una connessione (Giovanni 9,2) e citavano proverbi come «Medico, cura te stesso» (Luca 4,23). Tuttavia si voleva che ogni città avesse il suo medico (perciò la donna che soffriva di perdite di sangue era stata in grado di consultarne diversi, Marco 5,26) e nel tempio vi era sempre un medico che si prendeva cura dei sacerdoti che soffrivano di malattie derivate dall’abitudine di camminare a piedi nudi. Forse Marco non aveva una grande opinione dei medici.
L’atteggiamento di Gesù non contraddiceva l’Antico Testamento. Pare che considerasse la malattia come il risultato dell’azione malvagia di Satana nel mondo e che in quanto tale doveva essere combattuta. Tuttavia Gesù non credeva che la malattia fosse necessariamente la conseguenza di un peccato singolo. Ciò è chiaro in Giovanni 9,2-4a, se evidenziamo la frase: «Passando vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: “Rabbi, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?”. Rispose Gesù: “Né lui ha peccato, né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio”».
Gesù accettava l’opinione che certe malattie fossero il risultato del possesso da parte di spiriti e in questi casi agiva in conseguenza (es. Matteo 12,27), ma non trattò con questo metodo tutte le malattie. Questo suo atteggiamento nei confronti delle indisposizioni accelerò nella Chiesa primitiva l’accettazione dei medici da parte dei cristiani. Luca, in quanto medico, fu compagno di viaggio dell’apostolo Paolo (Colossesi 4,14). Ovviamente era un medico greco, poiché in Grecia la medicina aveva avuto uno sviluppo considerevole. Seguendo gli insegnamenti di Ippocrate, i medici giuravano che la vita del paziente veniva prima di ogni altra cosa, che non avrebbero mai approfittato delle donne, mai procurato aborti né mai rivelato informazioni confidenziali. Ad Alessandria vi era una grande scuola di medicina.
Ben pochi Ebrei quindi erano orientati a divenire medici; tuttavia, nonostante le molte diffidenze, erano contenti di utilizzare i servizi dei medici.
 
Cristo è l’autentica luce del mondo: «Cristo è dunque “la luce vera che illumina ogni uomo che viene in questo mondo” [Gv 1,9], e la Chiesa, illuminata dalla sua luce, diventa essa stessa “luce del mondo”, che illumina “coloro che sono nelle tenebre” [Rm 2,19], come Cristo stesso attesta quando dice ai suoi discepoli: “Voi siete la luce del mondo” [Mt 5,14]. Di qui deriva che Cristo è la luce degli apostoli, e gli apostoli, a loro volta, sono la luce del mondo... E come il sole e la luna illuminano i nostri corpi, così da Cristo e dalla Chiesa sono illuminate le nostre menti. Quantomeno, le illuminano se noi non siamo dei ciechi spirituali. Infatti, come il sole e la luna non cessano di diffondere la loro luce sui ciechi corporali che però non possono accogliere la luce, così Cristo elargisce la sua luce alle nostre menti, epperò non ci illuminerà di fatto che se non vi si oppone la cecità del nostro spirito. In tal caso, occorre anzitutto che coloro che sono ciechi seguano Cristo dicendo e gridando: “Figlio di David, abbi pietà di noi” [Mt 9,27], affinché, dopo aver ottenuto da Cristo stesso la vista, possano successivamente essere del pari irradiati dallo splendore della sua luce.» (Origene, Hom. in Genesim, 1,6-7).
 
Il Santo del Giorno - 18 Novembre 2024 - Santa Filippina Rosa Duchesne. Nel cuore della storia, oltre i confini, compagni di un’umanità alla ricerca: Compagni di viaggio di un’umanità in perenne ricerca della felicità e della speranza al di là di ogni barriere e confine: è così che i cristiani, custodi di un messaggio d’infinito amore, vivono nella storia là dove la storia li conduce. Santa Filippina Rosa Duchesne ci ricorda proprio questo modo universale e coraggioso di vivere la fede, anche quando leggi e costrizioni lo rendono più difficile, con lo sguardo sempre aperto verso le frontiere più lontane. Una missione, che questa santa francese vissuta tra il XVIII e il XIX secolo, unì le due sponde all’Atlantico. Era nata a Grenoble nel 1769, a 18 anni era tra le Visintandine, ma la Rivoluzione francese, che portò alla soppressione di monasteri e conventi, interruppe il suo cammino religioso. Lei allora decise di mettersi a servizio degli ultimi e dei bisognosi finché nel 1801 poté riprendere la vita da religiosa nella Società del Sacro Cuore fondata da Maddalena Sofia Barat nel 1800. Nel 1818 partì per l’America, arrivando con quattro consorelle in Louisiana, dove il vescovo cercava aiuto per l’assistenza agli immigrati francesi. Nel 1820 aprì la prima scuola gratuita, cui ne seguirono altre: nel 1828 erano già sei, tra Louisiana e Missouri. Segnata nel fisico dalla fatica, che la rese praticamente invalida, Filippina dovette lasciare la responsabilità di superiora ma decise di dedicarsi all’evangelizzazione tra i nativi Potawatomi nel Kansas. Rientrata in Missouri, morì a St. Charles nel 1852. È santa dal 1988.  (Matteo Liut)
 
Nutriti da questo sacramento,
ti preghiamo umilmente, o Padre:
la celebrazione che il tuo Figlio
ha comandato di fare in sua memoria,
ci faccia crescere nell’amore.
Per Cristo nostro Signore.