1 Maggio 2024
 
San Giuseppe lavoratore
 
Gen 1,26-2,3 Oppure Col 3, 14-15.17.23-24; Salmo Responsoriale 89 (90); Mt 13,54-58
 
Il 1° maggio, prima di diventare in Europa la “Festa del Lavoro”, fu per lungo tempo, alla fine del XIX secolo e all’inizio del XX, una giornata di rivendicazioni e spesso di lotte per la promozione della classe lavoratrice. A questo richiamo non poteva rimanere insensibile la Chiesa, che i papi Pio IX e Leone XIII col loro magistero via via aprivano ai problemi del mondo del lavoro. Pio XII istituì questa memoria liturgica, per dare una dimensione cristiana a questo giorno, mettendola sotto il patrocinio di S. Giuseppe lavoratore (1955). San Giovanni XXIII rese omaggio a san Giuseppe, all’esemplare maestro di vita cristiana, all’uomo laborioso, onesto, fedele alla parola di Dio, obbediente, virtù che il Vangelo sintetizza con due parole:  “uomo giusto”. “I proletari e gli operai - scriveva Leone XIII - hanno come diritto speciale a ricorrere a S. Giuseppe e a proporsi la sua imitazione. Giuseppe infatti, di stirpe regale, unito in matrimonio con la più grande e la più santa delle donne, considerato come il padre del Figlio di Dio, passa ciò nonostante la sua vita a lavorare e chiede al suo lavoro di artigiano tutto ciò che è necessario al mantenimento della famiglia». Il lavoro nell’insegnamento della Chiesa non è un castigo, eleva l’uomo riconducendolo nella vocazione primaria voluta dal suo Creatore. L’uomo infatti, “creato ad immagine di Dio, ha ricevuto il comando di sottomettere a sé la terra con tutto quanto essa contiene, e di governare il mondo nella giustizia e nella santità, e così pure di riferire a Dio il proprio essere e l’universo intero, riconoscendo in lui il Creatore di tutte le cose; in modo che, nella subordinazione di tutta la realtà all’uomo, sia glorificato il nome di Dio su tutta la terra” (Gaudium et spes 4).
 
Colletta
O Dio, che hai chiamato l’uomo a cooperare con il lavoro
al disegno della tua creazione,
fa’ che per l’esempio e l’intercessione di san Giuseppe
siamo fedeli ai compiti che ci affidi,
e riceviamo la ricompensa che ci prometti.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
I Lettura: Dio crea l’uomo e lo pone in “vetta alla piramide. Se così immaginato il mondo, l’azione creatrice di Dio è rappresentata in un movimento ascendente per culminare in lui. L’uomo è la creatura più vicina a Dio; è detto a sua «immagine e somiglianza» nel mondo per il suo essere personale, per la sua capacità creatrice, perché può prendere coscienza della presenza e dell’azione di Dio e perché può interpretare il mondo come opera sua, e così elevare sacerdotalmente questo riconoscimento verso di Lui” (Angel González).
 
Vangelo
Non è costui il figlio del falegname?
 
Gesù è a Nazaret, porta ai suoi compaesani l’annuncio tanto desiderato: il compimento delle Scritture. Ma i nazaretani prima “ancora di afferrare il suo messaggio, lo rifiutano perché non vogliono riconoscere il Messia nell’umile figlio dell’ artigiano. Gesù diventa per loro motivo di scandalo: la sua provenienza modesta, comune a tutti loro, era incompatibile con la concezione corrente del Messia glorioso. La gelosia, l’invidia, l’aspettativa di un Messia politico impediscono ai nazaretani, come alla maggioranza dei giudei, di accogliere il Salvatore del inondo, predetto dai profeti. L’origine umana di Gesù era ben nota anche nelle comunità giudeocristiane di Mt. Tale conoscenza poteva provocare disagio e distogliere dalla fede qualche cristiano immaturo.
L’evangelista intende conferire al racconto un valore parenetico per ravvivare l’adesione a Cristo di questi fedeli titubanti” (Angelico Poppi, I quattro Vangeli).
 
Dal Vangelo secondo Matteo
Mt 13,54-58
 
In quel tempo Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi.
 
Incredulità a Nazaret - Felipe F. Ramos: La presentazione «ufficiale» di Gesù nella sinagoga del suo paese, a Nazaret, fu un insuccesso. Dalla sorpresa iniziale per i suoi insegnamenti i suoi conterranei giunsero fino allo scandalo; e la loro incredulità tagliò tutte le vie alla parola e persino al miracolo.
Il nostro racconto è parallelo a quello di Marco (6,1-6) dal quale dipende. Matteo introduce due cambiamenti: a) invece di chiamare Gesù «carpentiere», lo presenta come «figlio del carpentiere», forse per conferire maggior dignità a Gesù affermando che, dal momento in cui cominciò a predicare, cessò d’essere un lavoratore del legno; b) attenua la frase di Marco: «non vi poté operare nessun prodigio» dicendo che «non fece molti miracoli». Questa differenza fra i due evangelisti si può giustificare tenendo conto dei loro diversi punti di vista. Marco raccoglie la mentalità, generalizzata nella Bibbia, secondo la quale Dio è vicino a coloro che lo invocano, e quindi il suo inviato può agire solo là dove trova la fede. Per Matteo, questo vorrebbe dire condizionare eccessivamente il potere di Gesù, il quale può compiere miracoli indipendentemente dai condizionamenti che l’uomo gli può imporre.
La frase più significativa di tutto il brano evangelico è la seguente: si scandalizzavano per causa sua. Con essa l’evangelista ci introduce nel mistero di Gesù. L’atteggiamento dei nazaretani è rappresentativo di tutti coloro che cercano di comprendere Gesù partendo unicamente da quello che si può sapere di lui: è del nostro stesso paese, è figlio del carpentiere, conosciamo la sua famiglia, non ha frequentato l’università... Tentar di spiegare il mistero di Gesù, partendo da tutte le possibilità e da tutti gli aspetti umani vuol dire cacciarsi in un vicolo chiuso. Quello che è detto dei suoi concittadini, è già stato detto anche dei «suoi»: lo considerarono come pazzo (Mc 3,21). La stessa cosa e detta anche dei discepoli, e la ripeterà san Paolo parlando dello scandalo della croce (Mc 14,27-29; 1Cor 1,23). Gesù fu incompreso e disprezzato (Is 50,6: Mt 27,27-31.39-4,4; Eb 12,2). Non avrebbe avuto una sorte migliore, se si fosse tenuto al semplice livello dei profeti. Il profeta porta con sé l’incomprensione. Tanto più la porta in sé il profeta (Dt 18,15) che in più è il servo di Yahveh. Ma anche qui si dovrebbe ricordare la sentenza di Gesù: «Alla sapienza è stata resa giustizia dalle sue opere» (11,19).
 
Wolfgang Trilling (Vangelo secondo Matteo): Davanti a Gesù ci sono unicamente due possibilità: aprirsi nella fede o chiudersi nello scandalo. I suoi concittadini si scandalizzano per causa sua; esattamente l’opposto di un comportamento di fede. Lo scandalo viene dal basso, dall’uomo e dal male; distrugge la fede, anzi neppure la lascia nascere. Gesù diventa occasione di scandalo senza avervi, in alcun modo, contribuito. È nell’intimo dell’uomo che si decide quale via e verso quale direzione si orienterà la nostra vita. La domanda: «Da dove» è occasione di scandalo per molti, anche oggi, particolarmente per chi ha studiato, conosce la storia e crede di “sapere”; per costoro Gesù non è che il fondatore di una religione, come Budda o Maometto; la sua dottrina, un sistema religioso o un’esperienza originale di un genio; i suoi discepoli, un gruppo di seguaci entusiasti, come ne pullulano sempre tanti intorno agli innovatori in campo religioso, nulla di più! Alla domanda: «Da dove» si crede di poter rispondere: dall’Antico Testamento, dalla tradizione religiosa dei popoli vicini, dal movimento innovatore della comunità di Qumran, dalla letteratura del giudaismo tardivo e dalla tradizione delle scuole rabbiniche, e null’altro. Lo ripetiamo: non ha senso porre la seconda domanda senza aver prima veramente ascoltato ciò che ci viene detto! Gesù stesso cita un proverbio, secondo il quale nessun profeta vale qualcosa «nella sua patria e in casa sua». Sembra quasi di norma che lo scandalo debba sorgere proprio là dove meno lo si aspetta. L’uomo viene meno più facilmente nel suo ambiente, dove è più difficile distinguere ciò che viene dal basso, dalla tradizione familiare e locale, da ciò che entra nel mondo dall’alto. Questo atteggiamento è già, in radice, incredulità. Per la loro incredulità - e non per la propria impotenza - Gesù non può compiere miracoli a Nazaret. il miracolo è legato alla fiducia e alla disponibilità dell’uomo. Solo chi fa il primo passo e adempie la condizione fondamentale - quella di un ascolto volonteroso e aperto -, viene raggiunto da tutto il resto. Anzi, questi «compirà opere più grandi» di quelle del suo Maestro (Gv 14,12).
 
San Giuseppe custode di Maria, di Gesù, della Chiesa: Papa Francesco (Omelia, 19 Marzo 2013): Come vive Giuseppe la sua vocazione di custode di Maria, di Gesù, della Chiesa? Nella costante attenzione a Dio, aperto ai suoi segni, disponibile al suo progetto, non tanto al proprio; ed è quello che Dio chiede a Davide, come abbiamo ascoltato nella prima Lettura: Dio non desidera una casa costruita dall’uomo, ma desidera la fedeltà alla sua Parola, al suo disegno; ed è Dio stesso che costruisce la casa, ma di pietre vive segnate dal suo Spirito. E Giuseppe è “custode”, perché sa ascoltare Dio, si lascia guidare dalla sua volontà, e proprio per questo è ancora più sensibile alle persone che gli sono affidate, sa leggere con realismo gli avvenimenti, è attento a ciò che lo circonda, e sa prendere le decisioni più sagge. In lui cari amici, vediamo come si risponde alla vocazione di Dio, con disponibilità, con prontezza, ma vediamo anche qual è il centro della vocazione cristiana: Cristo! Custodiamo Cristo nella nostra vita, per custodire gli altri, per custodire il creato!
“Non è il figlio dell’artigiano?: gli increduli giudei andavano spargendo interrogativi sul Figlio di Dio, che essi credevano figlio di un artigiano e ciò per diminuire il suo prestigio. Ma assai spesso l’ignoranza degli ingegni ha saputo anche profetizzare. In verità il Signore e Salvatore nostro era figlio dell’artigiano, ma di quell’“Artigiano”, e cioè di Dio Padre, il quale, mediante il Figlio, si è degnato di costruire il Cielo, la terra e l’universo intero. Questi è il figlio dell’Artigiano, il quale - per inchiodare il legno con il ferro, allo scopo di rendere fecondi i cuori degli uomini - si è lasciato inchiodare sulla croce ... Egli è certamente il vero figlio dell’Artigiano, perché è riuscito a intenerire i cuori degli uomini, cuori duri come il ferro, per orientarli alla grazia della Fede, rendendoli malleabili con il fuoco dello Spirito” (Cromazio di Aquileia, Comm. in Matth., 51,4).
 
Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita - Pietro Crisologo (Sermoni 48, 2): Egli insegnò nella loro sinagoga. Non potevano essere «sue» le sinagoghe, nelle quali si radunava la folla dell’incredulità, non della fede; nelle quali si incontrava il popolo dell’invidia, non dell’amore; nelle quali aveva sede il concilio dei malvagi, non il consiglio della buona regola di vita. Insegnava nelle loro sinagoghe, così che rimanevano stupiti. Rimanevano stupiti per lo sdegno, non per la benevolenza; erano stupiti per il livore, non per l’ ammirazione; erano furibondi, perché l’umiltà ritta in piedi insegnava ciò che non potevano sapere le cattedre superbe. Così che rimanevano stupiti e dicevano: «Donde gli viene questa sapienza?».
Parla così chi non conosce Dio, dal quale deriva la sapienza, deriva la virtù. Parla così chi non sa che Cristo è la apienza di Dio, è la potenza di Dio. Donde venga la sapienza lo dimostra Salomone: egli, avendo ricevuto il potere regale ancora fanciullo, volle, chiese e ricevette da Dio la sapienza per governare il popolo affidatogli con la virtù non col fasto, con la sapienza non con l’alterigia, col cuore non col suo potere di re. Donde gli vengono questa sapienza e questi prodigi? Che la potenza, la quale dà gli occhi che la natura non ha dato; che restituisce l’udito otturato dalla malattia; che nei muti scioglie il legame della parola; che fa correre di bel nuovo gli zoppi; che costringe a ritornare nei propri corpi le anime già imprigionate negli inferi: che tale potenza derivi da Dio non negherebbe se non chi è invidio a della salvezza.
 
Il santo del Giorno - 1 Maggio 2024 - San Giuseppe. Il lavoro genera Dio nelle pieghe della storia - In un tempo in cui la visibilità, lo slogan urlato, il messaggio “di pancia” sembrano essere l’unica arma per costruire la storia, la figura di san Giuseppe lavoratore ci riporta all’umile impegno di chi fa della propria professione lo strumento più efficace per costruire la pace. A mettere al centro della liturgia odierna la figura di Giuseppe lavoratore nel 1955 fu Pio XII su richiesta delle Acli, che sentivano la necessità di coniugare la festa dei lavoratori con il messaggio cristiano. Fu così che questa ricorrenza diventò l’occasione per ricordare a tutto il mondo, che l’orizzonte ultimo di ogni opera umana, fine nelle pieghe più recondite della storia, è Dio stesso. Il lavoro, spiega papa Francesco nella Lettera apostolica «Patris Corde», è «partecipazione all’opera stessa della salvezza, occasione per affrettare l’avvento del Regno, sviluppare le proprie potenzialità e qualità, mettendole al servizio della società e della comunione». Inoltre, nota ancora il Pontefice, «il lavoro diventa occasione di realizzazione non solo per sé stessi, ma soprattutto per quel nucleo originario della società che è la famiglia». (Avvenire).
 
O Signore, che ci hai nutriti con il pane del cielo,
fa’ che, sull’esempio di san Giuseppe,
conserviamo nei nostri cuori
la memoria del tuo amore,
per godere il frutto della pace senza fine.
Per Cristo nostro Signore.
 
 30 APRILE 2024
 
MARTEDÌ DELLA V SETTIMANA DI PASQUA
 
At 14,19-28; Salmo Responsoriale Dal Salmo 144 (145); Gv 14,27-31a
 
Colletta
O Padre, che nella risurrezione di Cristo tuo Figlio
ci rendi creature nuove per la vita eterna,
dona a noi, tuo popolo, di perseverare nella fede e nella speranza,
perché non dubitiamo che si compiano le tue promesse.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.

Compito immenso - Pacem in Terris 87. A tutti gli uomini di buona volontà spetta un compito immenso: il compito di ricomporre i rapporti della convivenza nella verità, nella giustizia, nell’amore, nella libertà: i rapporti della convivenza tra i singoli esseri umani; fra i cittadini e le rispettive comunità politiche; fra le stesse comunità politiche; fra individui, famiglie, corpi intermedi e comunità politiche da una parte e dall’altra la comunità mondiale. Compito nobilissimo quale è quello di attuare la vera pace nell’ordine stabilito da Dio.
88. Certo, coloro che prestano la loro opera alla ricomposizione dei rapporti della vita sociale secondo i criteri sopra accennati non sono molti; ad essi vada il nostro paterno apprezzamento, il nostro pressante invito a perseverare nella loro opera con slancio sempre rinnovato. E ci conforta la speranza che il loro numero aumenti, soprattutto fra i credenti. È un imperativo del dovere; è un’esigenza dell’amore. Ogni credente, in questo nostro mondo, deve essere una scintilla di luce, un centro di amore, un fermento vivificatore nella massa: e tanto più lo sarà, quanto più, nella intimità di se stesso, vive in comunione con Dio.
Infatti non si dà pace fra gli uomini se non vi è pace in ciascuno di essi, se cioè ognuno non instaura in se stesso l’ordine voluto da Dio. “Vuole l’anima tua - si domanda sant’ Agostino - vincere le tue passioni? Sia sottomessa a chi è in alto e vincerà ciò che è in basso. E sarà in te la pace: vera, sicura, ordinatissima. Qual è l’ordine di questa pace? Dio comanda all’anima, l’anima al corpo; niente di più ordinato”.
 
Prima Lettura: Gli Apostoli sono entrati nella piena comprensione della misteriosa fecondità della Croce: «Esortando [i discepoli] a restare saldi nella fede, dicevano, è necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel regno di Dio». Questa affermazione non soltanto denuncia un tempo di persecuzione, ma anche l’accettazione di quella logica, tutta divina, del chicco di grano che deve cadere in terra per morire e così portare frutto (cfr. Gv 12,24). Il buon esito della missione è comunque da addebitare sempre al Risorto che «confermava la parola con i prodigi che l’accompagnavano» (Mc 16,20).
Tra i prodigi quello di aprire la porta della fede anche ai pagani. Per grazia di Dio, cadeva così ogni muro frammezzo (politico, sociale, religioso) che divideva i popoli (Ef 2,14). I frutti della Pasqua e dello Spirito nelle prime comunità, «quasi sorprendono gli stessi apostoli. L’esperienza abbraccia anche “le tribolazioni”, che segnano inevitabilmente l’itinerario della missione ma ne costituiscono anche il segreto della fecondità [...]. Ciò che è toccato a Cristo e ai primi evangelizzatori, tocca ora a tutti i credenti [...]. Annuncio e testimonianza di fede vera e fattuale, comportano contrasti e persecuzioni per tutti. È la Pasqua vissuta a livello personale e comunitario» (Valerio Mannucci).
 
Vangelo
Vi do la mia pace.
 
Gesù dona ai suoi discepoli la sua pace che è la salvezza escatologica (Cf. Is 52,7): «Gesù fa dono ai suoi discepoli della pace degli ultimi tempi per tutta la durata della storia, quali ne siano le prove» (Alain Marchadour). La pace che Gesù dona ai suoi amici (Cf. Gv 15,15) non è la pace del mondo.
La pace che Gesù dona agli Apostoli è sinonimo di gioia, di felicità perfetta, di liberazione: in una parola, è la salvezza; per questo la pace donata da Gesù mette in fuga da ogni cuore turbamenti e inquietudini. In questa prospettiva i credenti non possono cedere allo scoramento o alla paura. La pace di Gesù ha profonde radici nella sua risurrezione: nasce dalla certezza che Gesù ha già vinto il mondo (Cf. Gv 16,33) e con la sua morte ha vinto la morte e «colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo e liberare così quelli che, per timore della morte, erano soggetti a schiavitù per tutta la vita» (Eb 2,14).
 
Dal Vangelo secondo Giovanni
Gv 14,27-31a
 
In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli:
«Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi.
Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore. Avete udito che vi ho detto: “Vado e tornerò da voi”. Se mi amaste, vi rallegrereste che io vado al Padre, perché il Padre è più grande di me. Ve l’ho detto ora, prima che avvenga, perché, quando avverrà, voi crediate.
Non parlerò più a lungo con voi, perché viene il prìncipe del mondo; contro di me non può nulla, ma bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre, e come il Padre mi ha comandato, così io agisco».
 
Parola del Signore.
 
Credere all’amore 14,27-31 - Marida Nicolaci (Vangelo secondo Giovanni): La differenza tra Gesù e il mondo, tra l’identità amante di Dio rivelata da Gesù e la modalità violenta e abusiva del mondo, è ciò che conduce Gesù alla passione e alla morte. Gesù non viene condannato a morte perché ha agito nel mondo secondo le logiche di potere del mondo: chi lo governa, e dalla sua morte sarà giudicato e detronizzato, non può trovare in Gesù motivo alcuno di accusa e di condanna (cf 8,46; 12,31). Se Gesù si lascia consegnare e accetta di morire è perché il mondo possa comprendere e riconoscere in lui la differenza tra il regno di Dio e il mondo, tra l’amore del Padre e la violenza. Sullo sfondo della sofferenza ormai imminente e della separazione non più procrastinabile a lungo (vv. 30-31), le parole che sigillano il discorso sull’«andarsene» di Gesù sono, quindi, di nuovo parole di incoraggiamento, rassicurazione e conforto. La morte di Gesù, come la morte del Servo, è strumento di «pace» per i credenti (Is 53,5; 54,10.13): non una pace costruita mediante il dominio violento degli uni sugli altri, ma la pienezza di vita, di comunione e di bene prodotta dal risanamento profondo delle ferite che il mondo infligge. Fondati sulla parola sicura di Gesù i discepoli possono ancora amarlo e credere al suo amore scoprendo nella sua morte non la fine di tutto ma la via al Padre, via della vita che porterà loro gioia e pace senza fine (cf 16,20-23).
 
La pace, felicità perfetta - Xavier Leon Dufour (Dizionario di Teologia Biblica): Per apprezzare nel suo pieno valore la realtà indicata dalla parola, occorre sentire il sapore locale che sussiste nell’espressione semitica sin nella sua concezione più spirituale, e nella Bibbia sin nell’ultimo libro del NT.
1. Pace e benessere. - La parola ebraica šalôm deriva da una radice che, secondo i suoi usi, designa il fatto di essere intatto, completo (Giob 9, 4), ad es. terminare una casa (1 Re 9, 25), o l’atto di ristabilire le cose nel loro stato primitivo, nella loro integrità, ad es. «pacificare» un creditore (Es 21, 34), compiere un voto (Sal 50, 14). Perciò la pace biblica non è soltanto il «patto» che permette una vita tranquilla, né il «tempo della pace» in opposizione al «tempo della guerra» (Eccle 3, 8; Apoc 6, 4); designa il benessere dell’esistenza quotidiana, lo stato dell’uomo che vive in armonia con la natura, con se stesso, con Dio; in concreto è benedizione, riposo, gloria, ricchezza, salvezza, vita.
2. Pace e felicità. - «Essere in buona salute» ed «essere in pace» sono due espressioni parallele (Sal 38, 4); per domandare come sta uno, se sta bene, si dice: «È in pace?» (2Sam 18, 32; Gen 43, 27); Abramo che morì in una vecchiaia felice e sazio di giorni (Gen 25, 8) se ne andò in pace (Gen 15, 15; cfr. Lc 2, 29). In senso più largo, la pace è la sicurezza. Gedeone non deve più temere la morte dinanzi alla apparizione celeste (Giud 6, 23; cfr. Dan 10, 19); Israele non ha più da temere i nemici, grazie a Giosuè vincitore (Gios 21, 44; 23, 1), a David (2 Sam 7, 1), a Salomone (1 Re 5, 4; 1 Cron 22, 9; Eccli 47, 13). Infine la pace è concordia in una vita fraterna: il mio familiare, il mio amico, è «l’uomo della mia pace» (Sal 41, 10; Ger 20, 10); è mutua fiducia sanzionata sovente da una alleanza (Num 25, 12; Eccli 45, 24) o da un trattato di buona vicinanza (Gios 9, 15; Giud 4, 17; 1 Re 5, 26; Lc 14, 32; Atti 12, 20).
3. Pace e salvezza. - Tutti questi beni materiali e spirituali sono compresi nel saluto, nell’augurio di pace (in arabo, il salamelecco) mediante il quale, nel VT e nel NT, si dice «buon giorno», ed «addio», sia nella conversazione (Gen 26, 29; 2 Sam 18, 29), sia nelle lettere (ad es. Dan 3, 98; Filem 3). Ora, se è conveniente augurare la pace o porsi la domanda circa le disposizioni pacifiche del visitatore (2 Re 9, 18), si è perché la pace è uno stato da conquistare o da difendere; è vittoria su un qualche nemico. Gedeone od Achab sperano di ritornare in pace, cioè vincitori della guerra (Giud 8, 9; 1 Re 22, 27 s); allo stesso modo si augura il successo di una esplorazione (Giud 18, 5 s), il trionfo sulla sterilità di Anna (1 Sam 1, 17), la guarigione delle ferite (Ger 6, 14; Is 57, 18 s); infine si offrono «sacrifici pacifici» (salutaris hostia) che significano la comunione tra Dio e l’uomo (Lev 3, 1).
4. Pace e giustizia. - Infine la pace è ciò che è bene in opposizione a ciò che è male (Prov 12, 20; Sal 28, 3; cfr. Sal 34, 15). «Non c’è pace per i malvagi» (Is 48, 22), viceversa, «guardare l’uomo giusto: c’è una posterità per l’uomo di pace» (Sal 37, 37); «gli umili possederanno la terra e gusteranno le delizie di una pace senza fine» (Sal 37, 11; cfr. Prov 3, 2). La pace è la somma dei beni accordati alla giustizia: avere una terra fertile, mangiare a sazietà, abitare in sicurezza, dormire senza timore, trionfare dei propri nemici, moltiplicarsi, e tutto questo in definitiva perché Dio è con noi (Lev 26, 1-13). Lungi, quindi, dall’essere soltanto una assenza di guerra, la pace è pienezza della felicità.
 
Alessandro Pronzato: Nel discorso d’addio (Vangelo), Gesù assicura la sua presenza attraverso la Parola.
« Se uno mi ama osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui ».
Ossia, l’osservanza della Parola, come risposta al suo amore, determina la presenza di Gesù e del Padre nel credente.
L’immagine usata (la « dimora ») richiama un contesto familiare, e accentua l’aspetto di comunione di vita.
C’è, comunque, un movimento in due sensi. L’uomo si avvicina a Gesù, Ma Gesù, precedentemente, si è fatto vicino all’uomo,
E sarà bene non dimenticare che l’osservanza della Parola significa, prima di tutto, la pratica del comandamento della carità fraterna.
Ma si rende necessario l’intervento di un terzo Personaggio: « Il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà ciò che vi ho detto ».
Soltanto lo Spirito permette di comprendere totalmente, approfondire e assimilare il messaggio di Gesù. Senza il suo soccorso, il singolo credente e la comunità non potranno mai penetrare la parola di Gesù. Il vero maestro della Chiesa è lo Spirito Santo.
L’azione dello Spirito rende possibile la pienezza di vita nell’amore.
Secondo questo testo, perciò, l’esistenza del credente è partecipazione alla vita stessa di Dio, alla vita della Trinità. È comunione, nell’amore, con ciascuna delle persone divine.
Gesù si accomiata dai suoi con l’augurio tipico degli Israeliti: « Vi lascio la pace, vi dò la mia pace ». Però precisa: « non come la dà il mondo, io la dò a voi ». La sua è una pace diversa.
E anche la sua partenza è diversa. Se ne va. E, tuttavia, non sarà assente.
I discepoli, quindi, non hanno alcun motivo di inquietudine e turbamento.
 
La pace è la tranquillità dell’ordine: «Perciò, la pace del corpo è l’armonico concatenamento delle sue parti; la pace dell’anima irrazionale è la quiete ben regolata dei suoi appetiti; la pace dell’anima razionale è l’accordo ben ordinato di pensiero e azione; la pace dell’anima e del corpo è la vita e la sanità ben ordinate dell’essere animato; la pace dell’uomo mortale con Dio è l’obbedienza ben ordinata nella fede sotto la legge eterna; la pace degli uomini è la loro ordinata concordia; la pace della casa è la concordia unanime dei suoi abitanti nel comandamento e nell’obbedienza; la pace della città è la concordia ben ordinata dei cittadini nella legge e nell’obbedienza; la pace della città celeste è la comunità perfettamente ordinata e perfettamente armonica nel godimento di Dio e nella mutua gioia in Dio; la pace di tutte le cose è la tranquillità dell’ordine. L’ordine è la disposizione di esseri eguali e ineguali, che stabilisce a ciascuno il posto che gli conviene» (Agostino, De civit. Dei, 19, 13).
 
Il Santo del giorno - 30 Aprile 2024 - San Pio VI Papa (dal 17/1/1566 al 1/05/1572): Antonio Michele Ghislieri, religioso domenicano, creato vescovo e cardinale, svolse compiti di alta responsabilità nella Chiesa. Divenuto papa col nome di Pio V, operò per la riforma della Chiesa in ogni settore, sulle linee tracciate dal Concilio tridentino. Pubblicò i nuovi testi del Messale (1570), del Breviario (1568) e del catechismo romano. Preoccupato delle mire geopolitiche dei turchi, promosse la «Lega Santa» dei principi cristiani contro la mezzaluna, unendosi in alleanza con Genova, Venezia e Spagna. Le forze navali della Lega si scontrarono, il 7 ottobre 1571, con la flotta ottomana nelle acque al largo di Lepanto, riportando una memorabile vittoria, che si verificò grazie, soprattutto, alla crociata di Rosari che erano stati recitati per ottenere l’aiuto divino. La vittoria venne comunicata “in tempo reale”: Pio V ebbe, infatti, una visione, dove vide cori di Angeli intorno al trono della Beata Vergine che teneva in braccio il Bambino Gesù e in mano la Corona del Rosario. Dopo l’evento prodigioso - era mezzogiorno - il Papa diede ordine che tutte le campane di Roma suonassero a festa e da quel giorno viene recitato l’Angelus a quell’ora. Due giorni dopo un messaggero portò la notizia dell’avvenuto trionfo delle forze cristiane. Il 7 ottobre del 1571 venne celebrato il primo anniversario della vittoria di Lepanto con l’istituzione della «Festa di Santa Maria della Vittoria», successivamente trasformata nella «Festa del Santissimo Rosario». Morì il primo maggio del 1572. La sua salma riposa nella patriarcale basilica di Santa Maria Maggiore in Roma.
 
Ci riempia di gioia, o Signore,
la partecipazione ai tuoi sacramenti
e nella tua benevolenza concedi che il dono ricevuto
ci spinga a servire con ardente carità la Chiesa e gli uomini.
Per Cristo nostro Signore.
 

 29 APRILE 2024
 
SANTA CATERINA DA SIENA, VERGINE E DOTTORE DELLA CHIESA,
 
PATRONA D’ITALIA E D’EUROPA – FESTA
 
1Gv 1,5-2,2; Salmo Responsoriale Dal Sal 102 (103); Mt 11,25-30
 
Colletta
O Dio, che in santa Caterina [da Siena],
ardente del tuo Spirito di amore,
hai unito la contemplazione di Cristo crocifisso
e il servizio della Chiesa,
per sua intercessione concedi al tuo popolo
di essere partecipe del mistero di Cristo,
per esultare quando si manifesterà nella sua gloria.
Egli è Dio, e vive e regna con te.

Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me … - Catechismo della Chiesa Cattolica 459 Il Verbo si è fatto carne per essere nostro modello di santità: « Prendete il mio giogo su di voi e imparate da me ...» (Mt 11,29). «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» (Gv 14,6). E il Padre, sul monte della trasfigurazione, comanda: «Ascoltatelo» (Mc 9,7). In realtà, egli è il modello delle beatitudini e la norma della Legge nuova: «Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amati» (Gv 15,12). Questo amore implica l’effettiva offerta di se stessi alla sua sequela.
520 Durante tutta la sua vita, Gesù si mostra come nostro modello: è «l’uomo perfetto » che ci invita a diventare suoi discepoli e a seguirlo; con il suo abbassamento, ci ha dato un esempio da imitare, con la sua preghiera, attira alla preghiera, con la sua povertà, chiama ad accettare liberamente la spogliazione e le persecuzioni.
521 Tutto ciò che Cristo ha vissuto, egli fa sì che noi possiamo viverlo in lui e che egli lo viva in noi. «Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo a ogni uomo». Siamo chiamati a formare una cosa sola con lui; egli ci fa comunicare come membra del suo corpo a ciò che ha vissuto nella sua carne per noi e come nostro modello: «Noi dobbiamo sviluppare continuamente in noi e, in fine, completare gli stati e i misteri di Gesù. Dobbiamo poi pregarlo che li porti lui stesso a compimento in noi c in tutta la sua Chiesa. [ ... ] Il Figlio di Dio desidera una certa partecipazione e come un’estensione e continuazione in noi e in tutta la sua Chiesa dei suoi misteri mediante le grazie che vuole comunicarci e gli effetti che intende operare in noi attraverso suoi misteri. E con questo mezzo egli vuole completarli in noi».
 
I Lettura: L’unione con Dio, che è luce, amore e verità, si riconosce dalla fede e dall’amore fraterno. Il peccato che assedia l’uomo non deve essere una forza destabilizzante: il cuore dell’uomo deve aprirsi alla certezza che Dio è fedele e giusto tanto da perdonargli i peccati e purificarlo da ogni iniquità. Giovanni parla qui di mancanze passeggere, sebbene la comunione con Dio comporti di per sé una vita santa e senza peccato.
 
Vangelo
Hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli.
 
Bibbia di Gerusalemme: 11,25 Poiché questo brano (vv 25:27) è senza un chiaro nesso con il contesto in cui Matteo l’ha inserito (cf. il suo posto diverso in Luca), queste cose non si riferiscono a ciò che precede; si devono intendere invece dei «misteri del regno» in generale (13,10, rivelati ai piccoli, i discepoli (cf. 10,42), ma tenuti nascosti ai «sapienti», i farisei e i loro dottori.
11,27 La professione di relazioni intime con Dio (vv 26-27) e l’invito a diventare discepoli (vv 28-30) evocano parecchi passi dei libri sapienziali (Pr 8,22-36: Sir 24,3-9.19-20; Sap 8,3-4: 9,9-18: ecc.). Gesù si attribuisce anche il ruolo della sapienza (cf. 11,19+), ma in una maniera eminente, non più come una personificazione, ma come una persona; il «Figlio» per eccellenza del «Padre» (cf. 4.3+), Questo passo, di tono giovanneo (cf. Gv 1,18; 3,11.35; 6,46; 10,15; ecc.), esprime nel fondo più primitive della tradizione sinottica, come in Giovanni, la coscienza chiara che Gesù aveva della sua filiazione divina. La struttura di questo passo potrebbe essere stata influenzata da Sir 51 sul tema delle relazioni privilegiate con Dio (cf. anche Es 33,12-23).
11,28 stanchi e oppresse allusione alla Legge, il cui «fardello» è talvolta appesantito da alcune osservanze aggiunte successivamente (soprattutto dai farisei). Il «giogo della Legge»  è una metafora frequente presso i rabbini (cf. già Sof 3,9 LXX; Lam 3,27; Ger 2,20; 5,5; Is 14,251; Sir 6,24-30; 51,26-27) l’utilizza già in un contesto di sapienze. con l’idea di lavoro facile e riposante.
11,29 mite e umile di cuore: epiteti classici dei «poveri» dell’AT (cf. Sof 2,3+; On 3,87). Gesù rivendica per sé il loro atteggiamento religioso e se ne avvale per farsi loro maestro di sapienza, come era annunciato del «servo» (Is 61,1-2: Lc 4,18: cf. ancora Mt 12,18-21; 21,5), Per essi infatti egli ha pronunciato le beatitudini (5,3+) e molte altre istruzioni della buona novella.
 
Dal Vangelo secondo Matteo
Mt 11,25-30

In quel tempo Gesù disse: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo.
Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero».
 
Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra... - L’espressione Signore del cielo e della terra, evoca l’azione creatrice di Dio (Cf. Gen 1,1). Il motivo della lode sta nel fatto che il Padre ha «nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le ha rivelate ai piccoli». Le cose nascoste «non si riferiscono a ciò che precede; si devono intendere invece dei “misteri del regno” in generale [Mt 13,11], rivelati ai “piccoli”, i discepoli [Cf. Mt 10,42], ma tenuti nascosti ai “sapienti”, i farisei e i loro dottori» (Bibbia di Gerusalemme).
Molti anni dopo Paolo ricorderà queste parole di Gesù ai cristiani di Corinto: «Considerate infatti la vostra chiamata, fratelli: non ci sono fra voi molti sapienti dal punto di vista umano, né molti potenti, né molti nobili. Ma quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti; quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto per ridurre al nulla le cose che sono, perché nessuno possa vantarsi di fronte a Dio» (1Cor 1,26-29).
... nessuno conosce il Figlio... La rivelazione della mutua conoscenza tra il Padre e il Figlio pone decisamente il brano evangelico in relazione «con alcuni passi della letteratura sapienziale riguardanti la sophia. Solo il Padre conosce il Figlio, come solo Dio la sapienza [Gb 28,12-27; Bar 3,32]. Solo il Figlio conosce il Padre, così come solo la sapienza conosce Dio [Sap 8,4; 9,1-18]. Gesù fa conoscere la rivelazione nascosta, come la sapienza rivela i segreti divini [Sap 9,1-18; 10,10] e invita a prendere il suo giogo su di sé, proprio come la sapienza [Prov 1,20-23; 8,1-36]» (Il Nuovo Testamento, Vangeli e Atti degli Apostoli).
... nessuno conosce il Padre se non il Figlio... Gesù è l’unico rivelatore dei misteri divini, in quanto il Padre ne ha comunicato a lui, il Figlio, la conoscenza intera. Da questa affermazione si evince che Gesù è uguale al Padre nella natura e nella scienza, è Dio come il Padre, di cui è il Figlio Unico.
Venite a me... Gesù nell’offrire ai suoi discepoli il suo giogo dolce fa emergere la «nuova giustizia» evangelica in netta contrapposizione con la giustizia farisaica fatta di leggi e precetti meramente umani (Mt 15,9); una giustizia ipocrita, ma strisciante da sempre in tutte le religioni. Il ristoro che Gesù dona a coloro che sono stanchi e oppressi, in ogni caso, non esime chi si mette seriamente al suo seguito di accogliere, senza tentennamenti, le condizioni che la sequela esige: rinnegare se stessi e portare la croce dietro di lui, ogni giorno, senza infingimenti o accomodamenti: «Poi, a tutti, diceva: “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua”» (Lc 9,23). È la croce che diventa, per il Cristo come per il suo discepolo, motivo discriminante della vera sapienza, quella sapienza che agli occhi del mondo è considerata sempre stoltezza o scandalo (1Cor 1,17-31). Un carico, la croce di Cristo, che non soverchia le forze umane, non annienta l’uomo nelle sue aspettative, non lo umilia nella sua dignità di creatura, anzi lo esalta, lo promuove, lo avvia, «di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito Santo» (2Cor 3,18) ad un traguardo di felicità e di beatitudine eterna. La croce va quindi piantata al centro del cuore e della vita del credente.
Invece, molti, anche cristiani, tendono a porre al centro di tutta la loro vita, spesso disordinata, le loro scelte, non sempre in sintonia con la morale; o avvinti dai loro gusti e programmi, tentano di far ruotare attorno a questo centro anche l’intero messaggio evangelico, accettandolo in parte o corrompendolo o assoggettandolo ai propri capricci; da qui la necessità capricciosa di imporre alla Bibbia, distinguo, precetti o nuove leggi, frutto della tradizione umana; paletti issati come muri di protezione per contenere la devastante e benefica azione esplosiva della Parola di Dio (Cf. Mc 7,8-9).
Gesù è mite e umile di cuore: è la via maestra per tutti i discepoli, è la via dell’annichilimento (Cf. Fil 2,5ss), dell’incarnarsi nel tempo, nella storia, nel quotidiano dei fratelli, non come maestri arroganti o petulanti, ma come servi (Cf. 1Cor 9,22).
 
Il dono delle lacrime: Un tratto della spiritualità di Caterina è legato al dono delle lacrime. Esse “esprimono una sensibilità squisita e profonda, capacità di commozione e di tenerezza. Non pochi Santi hanno avuto il dono delle lacrime, rinnovando l’emozione di Gesù stesso, che non ha trattenuto e nascosto il suo pianto dinanzi al sepolcro dell’amico Lazzaro e al dolore di Maria e di Marta, e alla vista di Gerusalemme, nei suoi ultimi giorni terreni. Secondo Caterina, le lacrime dei Santi si mescolano al Sangue di Cristo, di cui ella ha parlato con toni vibranti e con immagini simboliche molto efficaci: “Abbiate memoria di Cristo crocifisso, Dio e uomo (…). Ponetevi per obietto Cristo crocifisso, nascondetevi nelle piaghe di Cristo crocifisso, annegatevi nel sangue di Cristo crocifisso” (Epistolario, Lettera n. 21: Ad uno il cui nome si tace). Qui possiamo comprendere perché Caterina, pur consapevole delle manchevolezze umane dei sacerdoti, abbia sempre avuto una grandissima riverenza per essi: essi dispensano, attraverso i Sacramenti e la Parola, la forza salvifica del Sangue di Cristo. La Santa senese ha invitato sempre i sacri ministri, anche il Papa, che chiamava “dolce Cristo in terra”, ad essere fedeli alle loro responsabilità, mossa sempre e solo dal suo amore profondo e costante per la Chiesa. Prima di morire disse: “Partendomi dal corpo io, in verità, ho consumato e dato la vita nella Chiesa e per la Chiesa Santa, la quale cosa mi è singolarissima grazia” (Raimondo da Capua, S. Caterina da Siena, Legenda maior, n. 363). Da santa Caterina, dunque, noi apprendiamo la scienza più sublime: conoscere ed amare Gesù Cristo e la sua Chiesa” (Benedetto XVI Udienza Generale, 24 Novembre 2010).
 
Cirillo di Alessandria (Frammento 148):  Chi vede il Figlio, che ha in sé l’immagine del Padre, vede proprio il Padre. Infatti il Figlio rivela il Padre in quanto si mostra a lui con la sua prima rappresentazione e insieme fa vedere nella propria forma il modello archetipo. Tali concetti devono essere intesi in modo degno di Dio.
Quanto poi a dire: Ogni cosa mi è stata data, affinché non sembri di essere di altro genere e inferiore rispetto al Padre, ha aggiunto tale affermazione, per mostrare che la sua natura è nascosta e incomprensibile come quella del Padre.
Solo la natura divina della Trinità conosce se stessa. Solo il Padre conosce il Figlio, frutto della sua stessa natura. Solo colui che è stato divinamente generato conosce colui dal quale è stato generato, solo lo Spirito Santo conosce «la profondità di Dio», cioè il pensiero del Padre e del Figlio.
 
Il Santo del giorno - 29 Aprile 2024 - Santa Caterina da Siena. Portare il «fuoco» in tutta Italia, profezia e missione affidata alla Chiesa - Mettere «fuoco in tutta Italia»: non è una minaccia ma l’auspicio che la patrona del nostro Paese, Caterina da Siena, oggi consegna in modo particolare alla comunità dei credenti. Chi, se non i cristiani, testimoni del Vangelo del Risorto, infatti, sa riconoscere le «cose grandi»? «Non accontentatevi delle piccole cose. Dio le vuole grandi», ci ammonisce ancora oggi santa Caterina. Era nata nel 1347 e non aveva frequentato scuole, anche se fin da piccola aveva coltivato un’intensa vita spirituale. Rifiutò il matrimonio cui voleva destinarla la famiglia e chiese solo di poter avere una stanzetta, la sua “cella” dove viveva da terziaria domenicana (o Mantellata, per l’abito bianco e il mantello nero). Lì si ritrovavano artisti, intellettuali, religiosi (che poi si chiamarono «Caterinati») trasformando quel luogo in un “cenacolo”. Lì arrivavano persone in cerca di ascolto, consolazione e incoraggiamento. Con i suoi messaggi (che venivano dettati, anche se lei aveva imparato a leggere e a scrivere) raggiungeva tutti: i potenti, così come i semplici, il popolo, gli ultimi, come i carcerati. Fu anche ambasciatrice presso il Papa ad Avignone per conto dei fiorentini e poi fu chiamata a Roma, dove morì nel 1380. Fu canonizzata da papa Pio II nel 1461 e nel 1939, per iniziativa di Pio XII, fu proclamata patrona principale d’Italia. Paolo VI nel 1970 la annoverò tra i dottori della Chiesa e nel 1999 Giovanni Paolo II la dichiarò compatrona d’Europa, indicandone così l’esempio a tutto il Continente. (Matteo Liut)
 
O Signore,
questo cibo spirituale,
che fu nutrimento e sostegno di santa Caterina nella vita terrena,
comunichi a noi la tua vita immortale.
Per Cristo nostro Signore.
 
 
 

 28 Aprile 2024
 
V Domenica di Pasqua
 
At 9,26-31; Salmo Responsoriale Dal Salmo 21 (22); 1Gv 3,18-24; Gv 15,1-8
 
Colletta
O Dio, che ci hai inseriti in Cristo
come tralci nella vite vera,
confermaci nel tuo Spirito,
perché, amandoci gli uni gli altri,
diventiamo primizie di un’umanità nuova.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Papa Francesco (Regina Caeli 29 2018): La Parola di Dio, anche in questa quinta Domenica di Pasqua, continua a indicarci la strada e le condizioni per essere comunità del Signore Risorto. Domenica scorsa era messo in risalto il rapporto tra il credente e Gesù Buon Pastore. Oggi il Vangelo ci propone il momento in cui Gesù si presenta come la vera vite e ci invita a rimanere uniti a Lui per portare molto frutto (cfr Gv 15,1-8). La vite è una pianta che forma un tutt’uno con i tralci; e i tralci sono fecondi unicamente in quanto uniti alla vite. Questa relazione è il segreto della vita cristiana e l’evangelista Giovanni la esprime col verbo “rimanere”, che nel brano odierno è ripetuto sette volte. “Rimanere in me”, dice il Signore; rimanere nel Signore.
Si tratta di rimanere con il Signore per trovare il coraggio di uscire da noi stessi, dalle nostre comodità, dai nostri spazi ristretti e protetti, per inoltrarci nel mare aperto delle necessità degli altri e dare ampio respiro alla nostra testimonianza cristiana nel mondo. Questo coraggio di uscire da sé e inoltrarci nelle necessità degli altri nasce dalla fede nel Signore Risorto e dalla certezza che il suo Spirito accompagna la nostra storia. Uno dei frutti più maturi che scaturisce dalla comunione con Cristo è, infatti, l’impegno di carità verso il prossimo, amando i fratelli con abnegazione di sé, fino alle ultime conseguenze, come Gesù ci ha amato. Il dinamismo della carità del credente non è frutto di strategie, non nasce da sollecitazioni esterne, da istanze sociali o ideologiche, ma nasce dall’incontro con Gesù e dal rimanere in Gesù. Egli per noi è la vite dalla quale assorbiamo la linfa, cioè la “vita” per portare nella società un modo diverso di vivere e di spendersi, che mette al primo posto gli ultimi.
Quando si è intimi con il Signore, come sono intimi e uniti tra loro la vite e i tralci, si è capaci di portare frutti di vita nuova, di misericordia, di giustizia e di pace, derivanti dalla Risurrezione del Signore.
 
Prima Lettura: Con un breve sommario si descrive la situazione felice della Chiesa che, feconda di nuovi figli, cresce nel progresso spirituale custodita dal dono della pace. Tra le righe l’azione dello Spirito Santo che rende la fede dei credenti gioiosa e contagiosa.
 
Seconda Lettura: La vita dei figli di Dio pone necessariamente delle regole: rompere con il peccato; osservare i comandamenti di Dio, soprattutto quello della carità; guardarsi dagli anticristi e dal mondo. La carità deve essere reale non verbale, operosa non oziosa. Questo amore sincero verso i fratelli è la comprova che il nostro amore verso Dio è veritiero.
 
Vangelo
Chi rimane in me e io in lui porta molto frutto.
 
La vigna, come segno di benedizione, nell’Antico Testamento, soprattutto nei libri profetici, raffigurava il popolo d’Israele. Ma poiché la vigna-Israele aveva prodotto «uva selvatica», dal Signore sarà trasformata in pascolo e calpestata dai suoi nemici. Il popolo eletto da Dio, «scelto come vigna scelta, tutta di vitigni genuini» (Ger 2,21), sarà abbandonato alla ferocia degli invasori che invaderanno il paese e devasteranno la vigna (Cf. Ger 2,10). Pur tuttavia, «sebbene i profeti abbiano utilizzato la vigna come immagine che serviva ad esprimere con forza e vivacità poetica il castigo divino, l’immagine rimaneva comunque aperta ad un ulteriore sviluppo che, sulla linea del Salmo 80, si sarebbe operato in un orizzonte di speranza e di salvezza», spingendo in questo modo «il credente a guardare in avanti, verso quel futuro nel quale rifulgerà in tutta la sua pienezza l’azione imprevedibile, ma sempre amorosa, di Dio» (G. Odasso).
 
Dal Vangelo secondo Giovanni
Gv 15,1-8
 
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato.
Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano.
Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».
 
Parola del Signore.
 
Rimanete in me (Gv 15,4) - I capitoli 13 - 17 del Vangelo di Giovanni custodiscono due discorsi di Gesù enunciati durante l’ultima cena. Queste sue ultime parole, proprio perché pronunciate prima della sua beata passione, possono essere considerate come il suo testamento.
Gesù «sta per lasciare i suoi discepoli, sta per fare ritorno al Padre. Egli ha già insegnato loro che non li abbandonerà, ma tornerà da loro con il Padre e lo Spirito della verità, per dimorare nel loro cuore. I discepoli possono vivere sempre vicini al Maestro, anche se non lo vedranno con gli occhi del corpo; anzi essi dovranno rimanere intimamente uniti al loro Signore, se vorranno portare molto frutto» (Salvatore Alberto Panimolle).
L’immagine della vigna richiama numerosi passi dell’Antico Testamento nei quali il popolo d’Israele viene definito una vigna (Cf. Sal 80,15; Is 3,14; 5,1-7; 27,2; Ger 2,21; 6,9; 11,17; Ez 15,2; 17,5-10; 19,10; Os 10,1; Na 2,2).
Sir 24,17 raffigura la Sapienza a una vite: «Io come vite ho prodotto splendidi germogli e i miei fiori danno frutti di gloria e ricchezza».
Nel brano giovanneo il Padre è l’agricoltore e poiché nella parabola si parla di una vite, può essere inteso in senso più restrittivo come vignaiolo. Il Figlio è la «vite vera» (Cf. Sal 84,16).
Se i Profeti paragonavano Israele a una vigna ed esprimevano rincrescimento per la scarsità e la cattiva qualità dei frutti, Gesù nel paragonare se stesso alla «vite vera» e i discepoli ai tralci vuole suggerire ai suoi amici che in avvenire non ci sarà più scarsezza di frutti per difetto della vigna; una fecondità che sarà donata anche alla sua Chiesa, ai suoi discepoli: se resteranno fedelmente uniti lui, essi faranno frutti abbondanti e duraturi.
L’evangelista Giovanni, nel riprendere l’immagine della vite, vuole illustrare e sottolineare soprattutto la necessità dell’unione profonda dei discepoli con Gesù. E lo fa usando con insistenza l’espressione rimanere in. Un’espressione a lui tanto cara da ripeterla ben cinque volte in questo brano. Rimanere in, per l’autore del IV Vangelo, indica prima di tutto una relazione personale tra Gesù e i suoi discepoli-amici (Cf. Gv 8,31.35; 15,9-10.15; Sap 3,9), ma per comprendere il senso della esortazione nella sua valenza più pregnante occorre ricordare che l’invito è preceduto da due oscure e dolorose profezie fatte da Gesù prima di consegnarsi nelle mani dei carnefici: quella della sua morte (Cf. Gv 12,1-7) e quella dell’apostasia di un suo discepolo (Cf. Gv 13,21-30).
Gesù, dunque, mentre si avvicina la sua ultima ora, l’ora dei suoi nemici («l’impero delle tenebre» Lc 22,53; Cf. Lc 4,13), raccomanda ai suoi amici di rimanere uniti a lui e lo fa intenzionalmente perché «vuole impedire che la sua passione e la sua morte imminenti interrompano il rapporto che lega lui ai discepoli, quelli che lo hanno seguito durante il suo ministero in Palestina. Ma si rivolge anche chiaramente a tutti i suoi discepoli futuri, ai membri della sua Chiesa, per affermare con forza la necessità che essi restino uniti a lui e al suo Vangelo, che non interrompano il canale che comunica a loro la sua vita: solo così essi prenderanno parte già fin d’ora al grande dono della vita eterna [11,25-26]» (Don Alfonso Sidoti).
Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto: solo se il credente-tralcio, potato amorevolmente dal Padre, rimane unito alla Vite divina potrà portare abbondanti frutti di vita eterna: «Se infatti siamo stati intimamente uniti a lui a somiglianza della sua morte, lo saremo anche a somiglianza della sua risurrezione» (Rom 6,5). In altre parole, restare uniti a Gesù significa ricevere il dono della lettura intelligente e sapienziale della sua passione e della sua morte: il discepolo conoscerà «lui, la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte, nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti» (Fil 3,10-11).
In questo è glorificato il Padre mio: ogni volta che i discepoli si sforzano, con l’aiuto della grazia, di portare copiosi frutti, il loro agire è anche manifestazione della gloria del Padre (Cf. Gv 14,3).
 
Io sono la vite vera -  Giuseppe Barbaglio (Vigna-Vite in Schede Bibliche Pastorali, Vol. VII): Osea, il profeta che condannava l’infedeltà di Israele presentandola come un vero adulterio nei confronti dello sposo JHWH, aveva descritto il deserto come il periodo ideale dell’amore fedele, delle tenerezze inconfondibili del fidanzamento. Allora Israele, per la sua amorosa fedeltà, aveva portato frutti copiosi di fedeltà a JHWH, era come un’uva nel deserto (Os 9,10). In questo contesto culturale e religioso non suscita meraviglia l’insistenza di Geremia ed Ezechiele sull’immagine della vite. Tutta la vita di Geremia e la prima parte del ministero profetico di Ezechiele (dal 593 al 586) erano infatti rivolti a convincere il popolo delle sue infedeltà, inculcando con forza l’invito alla conversione per stornare il castigo attirato con le proprie colpe. Queste profezie si riscontrano perciò, tematicamente, molto affini al carme della vigna in quanto ricordano con forza gli interventi salvifici di Dio e l’imminenza del giudizio. Così in Ger 2,19-22 il profeta mette in contrasto l’infedeltà del popolo e la cura amorevole di JHWH che l’aveva piantato come vigna preziosa, della più alta qualità; ma essa si è mutata in viticcio degenere di una vigna bastarda. Sempre il profeta di Anatot rileva sconsolato come molti pastori abbiano devastata la vigna del Signore e calpestato il suo campo, facendone un deserto (12,7-10). Il profeta Ezechiele portò alle estreme conseguenze la riflessione dei suoi prede­cessori affermando l’assoluta inutilità della vite che non produce i frutti attesi. Israele, vigna del Signore, è venuta meno alla sua missione affidatale da Dio e perciò non ha più ragione di esistere! In concreto, JHWH l’aveva piantata su buon terreno e su acque abbondanti, allo scopo di farne una vite magnifica (17,8). Ma poi essa ha tralignato. Ecco perciò il giusto castigo di Dio: getterà il legno della vite a far fuoco (15,1-6). Tale insistenza sull’immagine della vite, per prospettare efficacemente l’ineluttabile imminenza del castigo, costituisce un ulteriore indizio che ci orienta a collocare il tema della vigna nell’orizzonte dell’alleanza. Questa costituiva infatti il fondamento che permetteva ai profeti di proclamare l’ora del giudizio che il popolo aveva attirato su di sé con le sue progressive infedeltà agli impegni assunti con JHWH. E sarà ancora l’ideologia dell’alleanza che permetterà di dare una spiegazione adeguata all’esperienza traumatizzante dell’esilio, che gettando una vera luce sul passato evitasse il rischio della disperazione e facesse balenare, nella conversione, un nuovo orizzonte di speranza (2Re 17,15-18).
Abbiamo alcune testimonianze che risalgono al periodo postesilico, nelle quali il simbolo della vigna è permeato da un’atmosfera di serena fiducia nel perdono rinnovatore che JHWH continuamente concede al suo popolo. Il testo più significativo a questo proposito si riscontra in Is 27,2-5, un inno escatologico che celebra il gioioso compimento delle promesse e delle profezie che annunciavano la salvezza: «In quel giorno si dirà: La vigna deliziosa: cantate di lei! Io, il Signore, ne sono il guardiano, a ogni istante la irrigo; per timore che venga danneggiata, ne ho cura notte e giorno. Io non sono in collera. Vi fossero rovi e pruni, io muoverei loro guerra, li brucerei tutti insieme. O, meglio, si stringa alla mia protezione, faccia la pace con me, con me faccia la pace!» (Is 27,2-5).
Il popolo che, dopo la dura esperienza dell’esilio, ricostruisce la propria vita nella terra dei padri, sente l’esaltante sicurezza di essere la vigna deliziosa di JHWH, l’interlocutore del suo amore e della sua salvezza. Dio stesso distruggerà per sempre i suoi nemici, a meno che anch’essi non aderiscano a lui nella pace dell’alleanza.
La novità che il NT apporta all’immagine della vigna va ricercata nell’affermazione di Gesù: «Io sono la vera vite» (Gv l5,l). Il detto fa parte dell’allegoria della vite che si legge in Gv 15,1-8.
L’immagine della vite, o della vigna, nell’AT designava Israele non già nella sua accezione politica, ma nella sua dimensione religiosa: indicava, cioè, Israele in quanto popolo di Dio, sua particolare proprietà (Es 19,5-6), unito a lui con il vincolo dell’alleanza. Ora Gesù applica a sé in modo pieno questa immagine. Egli, in altre parole, realizza perfettamente la missione di Israele, è il vero Israele. La relazione di intimità e di amore tra Dio e Israele raggiunge in lui una intensità non mai sospettata prima, perché Gesù è il Figlio unigenito, il Verbo continuamente rivolto col suo amore verso il cuore del Padre (Gv 1,18).
 
D. M. Turoldo - G. Ravasi (Opere e Giorni del Signore): Il tralcio unito al ceppo, l’adesione vitale del credente al Cristo sono essenziali per la fecondità dei frutti: non per nulla il quarto vangelo ripete nella sezione ben cinque volte l’espressione «in me», Il rimanere in Cristo è fondamentale al germoglio della fede che è in noi perché possa avere un senso e possa sopravvivere. Se il fedele si stacca da Gesù, è condannato alla perdizione: il v. 6 che contiene questa dichiarazione non ha solo valore futuro. Infatti per Giovanni la salvezza è già iniziata con l’incarnazione del Cristo; già ora l’uomo decide il suo destino. Dietro il simbolo del tralcio secco e arido, perso ai bordi del campo, c’è il mistero del rifiuto che l’uomo può opporre alla vita e all’amore, c’è la vicenda del confronto tra la luce e le tenebre.
Ma i tralci rigogliosi e verdeggianti, che incoronano il corpo di Cristo che è la chiesa, conoscono anche il momento della potatura (v. 2). È la purificazione necessaria che Dio compie per avere una chiesa «senza macchia e senza ruga» (Ef 5,27): la fede non è data una volta per sempre, ma è una realtà viva come l’amore ed esige una continua crescita e una continua liberazione da scorie e limitazioni. La purificazione può avvenire anche attraverso la dolorosa esperienza della persecuzione e della prova.
 
Alberto Magno (In ev. Jo. exp ., XV): Ogni tralcio che in Me non fruttifica, Egli lo recide ... : ci sono nella vite due tipi di tralci inutili. Il primo è costituito dai tralci che sono lussureggianti, perché crescono inzuppati d ‘acqua, ma non producono frutti, e quindi devono essere recisi del tutto: essi raffigurano coloro che nella Chiesa si danno al lusso e alla concupiscenza ... il secondo tipo è costituito dai tralci superflui, che sono seccati dall’aridità o che sono distrutti a causa della loro esilità ... Gli uni sono coloro che si accendono e seccano col fuoco dell’avarizia, poiché traggono a sé tutto il nutrimento della vite, amando se stessi e non il prossimo. Gli altri sono i paurosi che già disperano del castigo ... Le viti devono essere potate da tutti questi tralci, perché essi impediscono sia i frutti materiali che quelli spirituali.
 
Il Santo del giorno - 28 Aprile 2024 - Beato Lucchese, Terziario: Lucchese nacque presso Poggibonsi (SI) lo stesso anno di S. Francesco d’Assisi (1181). In gioventù combatté per il partito dei Guelfi; ma poi, abbandonata la vita militare, si sposò con Bona Segni e si mise a commerciare in granaglie e fare il cambiavalute approfittando dei pellegrini che si recavano a Roma lungo la via Francigena. Nell’ottobre1212 Lucchese ebbe modo di ascoltare una predica di S. Francesco a S. Gimignano e da lì iniziò la sua conversione: risarcì tutti coloro che aveva impoveriti con i suoi traffici, fece penitenza, si mise al servizio dei frati, donò tutti i suoi beni e insieme alla moglie trasformò la sua casa in ospedale. Oltre all’amore verso il prossimo si distinse nella pratica della povertà e dell’umiltà. Quando S. Francesco tornò in Valdelsa, nel 1221, donò a questa coppia di sposi l’abito della Penitenza, facendone i primi Terziari francescani. Morì a Poggibonsi il 28 aprile 1260.
 
Assisti con bontà il tuo popolo, o Signore,
e poiché lo hai colmato della grazia di questi santi misteri,
donagli di passare dalla nativa fragilità umana
alla vita nuova nel Cristo risorto.
Egli vive e regna nei secoli dei secoli.